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Cervino

Hörnligrat (cresta nord-est)

25-26 luglio 1998
Mirko, Andrea, Silvano (Barbara, Tiziana)

Ultimamente mi sto accorgendo che ogni volta che scrivo qualcosa a proposito di una salita in montagna

Andrea in cima al Cervino

mi trovo, per un motivo o per l'altro, a imprecare in direzione di qualcosa o di qualcuno; per via di un comportamento che non mi è piaciuto, per l'atteggiamento di qualcuno, per qualcosa che è andato storto; qualcosa che alla fine mi rimane dentro e che va a guastare in qualche misura il ricordo della montagna su cui sono stato e della camminata che ho fatto. Una volta è la follia nella ressa di qualche rifugio, una volta il modo di fare di qualche alpinista, una volta l’opportunismo del gestore di qualche rifugio. La cosa non è così presente in realtà, non si tratta di un aspetto che mi infastidisce più di tanto quando vivo queste montagne, almeno non quanto traspare da queste pagine, perché alla fine l'esperienza rimane straordinaria e la bellezza vissuta non la si dimentica e non la si soffoca nemmeno con queste sciocchezze. Però c'è un punto: il fatto importante è che me ne sono accorto proprio adesso, proprio rileggendo tutte insieme le pagine di questi diari; il punto è che rileggendo mi sembra, alla fine, di avere vissuto nei ricordi quasi di più quelle esperienze negative che non quelle positive della montagna, dell'amicizia e della vita che c'è stata. Sarà per il fatto che tante delle cose positive sembrano così ovvie e scontate che alla fine scriverne sembra quasi inutile, e dalle pagine che rimangono le particolarità che emergono sono queste: incontrare un alpinista degno di quello che fa e del luogo in cui si trova non sembra cosa tanto importante - per tanto ovvia che dovrebbe essere - mentre incontrare qualcuno che con superficialità e arroganza contrasta in modo tanto stridente con il mondo in cui è immerso diventa fin troppo evidente, si ingigantisce, e per forza trova il suo posto tra i ricordi e tra le righe che li accompagnano.
Certe volte penso che sia una fortuna questo stridore di virtù e superficialità, perché se ci si fa caso bisogna davvero considerare una fortuna il fatto che al mondo ancora esistano luoghi in cui incontrare arroganza e disonestà appare tanto contrastante con l'ambiente che ti ospita. Ho sempre trovato frustrante e irritante il fatto che gli esseri umani debbano considerare virtù rare la lealtà e l'onestà, il fatto che nel mondo di tutti i giorni sono proprio onestà e lealtà le cose che stridono con l'ambiente in cui si vive, irritante il fatto di dover sempre essere costretto a guardare con inaspettata gratitudine chiunque si dimostri, in qualche modo, leale e onesto. Triste ed avvilente se ci si pensa. E allora mi permetto di guardare con gratitudine anche a questo secondo mondo, quello delle montagne, che per me ormai non sono più solo quell'oasi di solitudine, raccoglimento, bellezza e vita, ma anche l'oasi in cui l'umanità torna ad essere se stessa, in cui finalmente è la disonestà ad essere l'eccezione, e l'onestà la regola.

No, aspetta un attimo, ho l'impressione di essermi perso da qualche parte.
In realtà quando ho iniziato a scrivere volevo solo dire che dopo essermi accorto - rileggendo le mie vecchie paginette - di tutte le cose che ho visto andare storte sulle mie montagne, finalmente, per una volta, ne ho vissuta una in cui è andato tutto per il verso giusto... ma poi mi sono perso tra questi sogni di virtù.
Ok, dunque... vediamo... magari ricomincio tutto dal principio.
«Ultimamente mi sto accorgendo che ogni volta che scrivo qualcosa a proposito di una salita in montagna mi trovo, per un motivo o per l'altro, a imprecare in direzione di qualcosa o di qualcuno»:

Mirko in cima al Cervino

qualcosa è andato storto, qualcosa è stato deludente. Questa volta invece no, questa volta è andato tutto per il verso giusto, finalmente posso dire di non avere vissuto niente di cui lamentarmi, niente di deprimente, niente di sconsolante. Per lo meno dal punto di vista emozionale. Voglio dire: i miei guai li ho avuti ovviamente, dalla perfezione sono stato lontano, ma alla fine posso dire di avere passato un paio di giornate splendide: sono stato sul Cervino, ed è stato meraviglioso.
Emozione strana, in realtà, come sono strane tutte quelle che tornano a casa con me da queste montagne. Niente di straordinario dal punto di vista dell'ascensione, perché è vero che ne abbiamo fatte di più emozionanti su montagne più impegnative; niente di straordinario dal punto di vista dell'ambiente, che certamente è bellissimo, ma che con le sue condizioni di instabilità è ben lontano dalla perfezione; niente di straordinario dal punto di vista personale, che molte altre volte mi sono sentito sicuramente meglio.
Eppure alla fine le qualità che mi vengono in mente per questa salita sono proprio queste: inspiegabile, sorprendente e meravigliosa. Un motivo vero forse non c'è, come probabilmente non c'è per nessuna delle emozioni che vengono fuori ogni volta che si sale su una cima e ogni volta che si torna a casa; qualche volta può capitare di trovarsi in cima ad una montagna senza la più piccola emozione nell'anima, e certe altre può capitare di trovarsi da qualche parte a contemplarlo, questo inspiegabile, e a domandarsi da dove sia saltato fuori. Magari è solo questione di fortuna, e questa volta posso dire di essere stato fortunato, perché sono stato sul Cervino, ed è stato meraviglioso.

Ok. Suona bene? Contento? Bene, allora ricomincio per la terza volta.
Non è che mi sia perso anche questa volta: ho semplicemente cercato di dire in qualche maniera quello che mi sarebbe piaciuto poter dire una volta sceso dal Cervino. Più o meno quello che avrei voluto essere capace di dire quando ne ero sceso quella prima volta, nel ’95, e invece avevo perso l’occasione, perché non ne avevo scritto che poche righe sconnesse. E invece adesso mi sono tolto la soddisfazione. Ecco: è così che dovrebbe essere salire sul Cervino, guardarsi dentro in cima al Cervino, ricordare il Cervino.
Apposto, soddisfazione concessa. E adesso ti puoi pure dimenticare di tutto, perché con la realtà non centra proprio niente. La realtà è stata completamente diversa, il Cervino completamente diverso, e le emozioni completamente diverse. L’inspiegabile si, quello centra lo stesso, ma è un’altra cosa, un inspiegabile diverso.
Non lo so il perché, ma oggi il Cervino mi ha deluso. E non è una delusione normale, non è una delusione come tante altre, ma una delusione esagerata, esplosiva, ingigantita da tutte le aspettative che l’avevano preceduta.
Marginalmente per il fatto che credevo che sarei stato meglio, mentre anche oggi mi sono stancato parecchio e non sono stato per niente bene; marginalmente anche per il fatto che me lo ricordavo più impegnativo, anche se so perfettamente che il Cervino fatto oggi non può avere la stessa faccia di quello di tre anni fa: è vero che fisicamente è stato una gran botta per me - sia la prima che la seconda volta - ma non ho incontrato l’impegno che mi sarei aspettato... marginalmente; marginalmente perché la discesa mi ha fatto vedere tutte le difficoltà che una cordata a tre come la nostra può incontrare in conserva su difficoltà di questo tipo e un po' mi preoccupa il pensiero della salita alle Grandes Jorasses programmata per le prossime settimane. E marginalmente perchè l'affollamento del posto e la precarietà della roccia non contribuiscono certo a rendere attraente questa montagna. Ma se è solo marginalmente, allora dove stanno le vere ragioni? Stanno nella somma di tanti piccoli aspetti, forse? No, credo proprio di no. Il punto principale è che oggi il Cervino non mi ha divertito, ed il motivo proprio non lo capisco. Non c’è niente da fare, posso solo continuare a pensarci, ma una ragione vera non la trovo.
E’ una cosa che mi fa incazzare parecchio, questa. Volevo arrivare in cima con un registratore con la musica di “My Way” in cuffia, e invece sono riuscito solo a fare pochi passi sulle cornici sommitali ed un paio di fotografie; volevo fare foto a ripetizione vicino alla croce di vetta con le magliette del “Green Rock” in mostra e invece non riuscivo a pensare ad altro che al tempo che ci avrebbe preso la discesa e al fatto che sicuramente non saremmo riusciti a tenere un ritmo abbastanza veloce da consentirci di arrivare in tempo al rifugio, dove ci aspettavano Barbara e Tiziana, e poi alla funivia. Non lo so dove sta il punto. Un po’ è che mi sono deluso da solo perché credevo di essere più allenato; un po’ è che mi hanno preoccupato le nostre possibilità in conserva; un po’ è l’impressione di insicurezza generale che ne ho tratto; un po’ è questa montagna che non finisce mai e che non ti lascia pensare ad altro che al tempo che ti manca e alla strada che stai per perdere. Non c’è dubbio: il Cervino è una montagna meravigliosa, se vista da lontano, ma da vicino, al di là dell’instabilità delle rocce, del marciume e degli alpinisti pazzi che le fanno volare in tutte le direzioni, al di là dell’infinità di detriti che ti minano il passaggio, questa montagna non è per niente divertente. E se per questo hai bisogno di una ragione più valida di quelle che hai sentito o immaginato, proprio non so cosa farci. Non mi ha divertito e basta: sarà la roccia, sarà il ritmo, sarà la pressione del tempo, sarà la facilità, sarà la lunghezza… O forse sarà il sogno che a combattere con la realtà non ce la può fare e quando il suo pensiero si trasforma in un pezzo di ghiaccio che cade con un boato a pochi passi dalla tua testa, fa più male che non il ghiaccio stesso.

Forse è ora di un po’ di cronaca.

Lo Schwartzsee

Partiamo in cinque, questa volta, perché Silvano è definitivamente tornato da Londra. Sabato mattina, intorno alle dieci, arrivano a casa nostra Galis, Barbara e Tiziana. Puntiamo verso Zermatt: quella che vogliamo fare è la Hörnligrat, la via normale svizzera, la cresta nord-est. Durante il viaggio ci fermiamo a Brig, al solito MacDonald, per un pranzo veloce. Altra tappa a Herbriggen, dove Barbara e Tiziana prenotano una camera al solito albergo. A Tasch parcheggiamo nel parcheggione di sempre, oggi ancora più pieno del solito. Poi il solito pulmino-taxi per Zermatt. Ci andiamo tutti e cinque, anche se le ragazze non saliranno con noi al rifugio, oggi: resteranno in paese per un po’, se ne andranno a cenare in qualche pizzeria - sapremo che mangeranno alla vecchia pizzeria Tre Fratelli di Tasch - poi passeranno la notte all’albergo di Herbriggen. Solo il giorno dopo ci rincontreremo, al rifugio: saliranno alla Hörnlihutte dopo pranzo e ci aspetteranno lì: abbiamo appuntamento al rifugio intorno alle tre di pomeriggio; noi speriamo di sbrigarci prima, ma per sicurezza non ci mostriamo troppo ottimisti negli orari. Ci lasciamo alla funivia che ci deve portare allo Schwartzsee.
Alla stazione superiore scattiamo un paio di foto, quindi partiamo. Abbiamo con noi tutto l’occorrente per il campeggio: vogliamo passare la notte in tenda, perciò siamo attrezzati con materassini, sacchi a pelo, fornelletto,

Silvano e Mirko impegnati nei preparativi per il campo in prossimità della Hornlihutte

pentolini e materiale vario; gli zaini sono abbastanza pesanti, ma sopportabili; il pensiero del risparmio di franchi svizzeri che comporta, e soprattutto dell’indipendenza al di fuori del rifugio, ci aiuta molto. Arriviamo al rifugio in un ora e tre quarti di cammino, con molta calma, ci attrezziamo nell’unica area in cui il campeggio è consentito, ancoriamo alla meglio la tenda su questo pendio sassoso in cui un picchetto non entra neanche a martellarlo - ci dobbiamo arrangiare con cordini e sassi - e poi siamo pronti per la preventivata ricognizione.
Sono già le sette di sera, ma io e Galis vogliamo fare un giro perlustrativo della prima parte di cresta, per non avere troppi problemi la mattina dopo, con il buio, a trovare la strada. L’idea si rivela utilissima, perché nelle due ore e mezza che seguono - un’ora e mezza di salita, un bel po’ di sosta e una quarantina di minuti di discesa, riusciamo a sbagliare strada - alla luce! - tre o quattro volte. Arriviamo - crediamo senza esserne sicuri perché non abbiamo altimetro - tra i 3700 e i 3800 metri; vediamo la Solvay abbastanza vicina e ci sembra di poter stare tranquilli per la mattina dopo.
Alla tenda arriviamo alle nove e mezza, con un’ora di ritardo sull’orario detto a Silvano, che ci accoglie preoccupato ed irritato. Ceniamo con un panino e un minestrone, mettiamo via tutto e poi ci sistemiamo nei sacchi a pelo. Sono le undici di sera quando siamo tutti sdraiati in tenda e l’ultima cordata di ritorno dalla cima del Cervino è appena arrivata! Errori: abbiamo camminato troppo, oggi, e fino ad un’ora troppo tarda, per quello che dobbiamo fare fuori; abbiamo cenato troppo velocemente ed al freddo e mi rendo conto subito che non riesco a digerire bene; è troppo tardi quando andiamo a dormire e le due ore passate con gli occhi chiusi - di cui dormirò realmente solo una decina di minuti - sono decisamente troppo poche. In poche parole il giorno a seguire pagherò tutto quanto. La notte non è delle migliori: non fa freddo e non si sta scomodissimi, ma siamo comunque stretti ed il fragore del vento sui teli della tenda basta a non farmi chiudere occhio.
La mattina anticipiamo la sveglia di un quarto d’ora: alla una e un quarto ci alziamo per smontare la tenda che non vogliamo lasciare sola in balia del vento: la disancoriamo, ci buttiamo dentro tutto quello che non ci serve, la pieghiamo a metà e ci mettiamo sopra qualche grosso sasso. Alle due e un quarto partiamo dal posto del nostro ricovero; alle due e mezza siamo legati ed attacchiamo la cresta: io sono davanti, poi c’è Andrea e poi Silvano. Andiamo abbastanza spediti: per la prima ora di facile arrampicata non incontriamo problemi, riusciamo a seguire la strada osservata la sera prima, ci aiutiamo con i numerosi segnali che abbiamo lasciato sul posto: frecce tracciate nel terriccio di qualche cengia, i bolli e gli ometti del posto, i ricordi dei numerosi errori compiuti ieri. In un’oretta superiamo le prime tracce di sentiero, il canalino terroso, la facile rampetta, il Canalino del Coreano, il lungo traverso, la rampa sabbiosa, il diedro difficile e dopo l’ultima rampa arriviamo al punto massimo toccato il giorno addietro. Il tempo non appare dei migliori: grossi nuvoloni neri sono arrivati da Sud e da Est; altri a Nord rimangono fermi in lontananza; vediamo spesso dei lampi illuminare il cielo; a tratti anche la cima del Cervino è oscurata dalle nubi. Decidiamo che il tempo deve reggere: le previsioni sono buone, le nubi si mantengono per lo più a sufficiente distanza… no: decidiamo di non dare troppo peso al brutto tempo. Proseguiamo e - la cosa non stupirà - è qui che cominciano i guai: esattamente nel primo tratto in cui non conosciamo l’esatta direzione la mia pila frontale comincia a perdere colpi fino a spegnersi del tutto - cosa non simpatica in questo posto alle quattro di notte - e poi sbagliamo strada: invece di seguire un lungo traverso sulla Est fino ad una facile costola rocciosa, puntiamo troppo verso l’alto, troppo in direzione della cresta principale, e finiamo su placchette infide e malsicure: troppo pericolose per la via normale. Ne usciamo comunque senza farci troppo male allo spirito, ma a questo punto abbiamo perso una buona oretta di sforzi e le prime cordate partite dal rifugio con molto ritardo su di noi, ci raggiungono. Ci aiutano fortunatamente a trovare la linea di salita corretta fino sotto alla Solvay; in tre cordate ci superano. Arriviamo alla Solvay che c’è già luce, quasi alle sei del mattino, con un quarto d’ora di svantaggio sulla prima cordata e pochi istanti da quella che ci precede direttamente.
Silvano è molto stanco e si ferma qui; incontriamo gente, alla Capanna: gente che ci ha passato la notte.

Andrea in arrampicata sulla Hornligrat

Ripartiamo alle sei cercando di non perdere contatto visivo con chi ci precede. Riusciamo dapprima a tenere un buon ritmo, decisamente superiore a quello che avevamo in cordata a tre, riusciamo ad andare in conserva molto velocemente; io comincio già a fare mentalmente i miei conti e mi convinco che siamo troppo lenti: non mi fido della velocità che potremo tenere noi due e soprattutto del ritmo che dovremo avere in discesa dalla Solvay. Arrivati alle corde fisse Galis accusa la stanchezza della salita e dobbiamo rallentare; poi arriva la neve, arriva il momento di mettere i ramponi, i tratti di roccia da fare con i ramponi ai piedi e finalmente arriva anche la rampa finale, nevosa e fortunatamente poco ghiacciata. A questo punto inizio a sentirmi stanco anch’io e faccio quest’ultima rampa molto lentamente. E’ una vera liberazione quando, alle otto del mattino, mettiamo i piedi sulla cima del Cervino. Galis sembra davvero contento, soddisfatto, non vedeva l’ora di arrivare su questa cima che per tre volte lo aveva respinto. Per me è diverso: non mi sto divertendo, sono deluso e preoccupato per il tempo, mi sento addosso una gran fretta e mi sento incredibilmente nervoso; questa salita non mi è piaciuta come avrei voluto, come mi sarei aspettato, mi è passata attraverso senza neanche toccarmi, non mi ha dato quello che volevo e adesso non voglio fare altro che togliermi di torno e tornare ad abbracciare luoghi che mi facciano sorridere di più di questa neve ripida e gelata. Non mi sento in cima al Cervino: mi sento solo in piedi su un cumulo di neve ripida e gelata. Non me lo spiego ma è così. Cercherò di spiegarmelo più tardi, mi dico, ma anche più tardi non è più facile: non ci sono ragioni più ovvie. Per di più i segni dell’altezza cominciano a farsi sentire e i dieci minuti di sonno della notte passata non sono stati sufficienti a darmi le energie sufficienti per combatterli nel modo migliore. In questo momento non voglio fare altro che tornarmene a casa.
Scendiamo con facilità fino alla Solvay: la discesa è più semplice della salita perché oltre alla irrilevanza delle difficoltà abbiamo ora diversi alpinisti - in salita - ad indicarci la migliore linea di passaggio; inoltre - soprattutto - scendere è meno pesante fisicamente. Facciamo tutto il tratto di corde fisse praticamente di corsa, a grandi salti, a volte senza assicurazione, a volte con una fettuccia intorno alla corda. Incontriamo qualche alpinista ad occuparle, a tratti, ma non perdiamo molto tempo ed arriviamo al termine delle corde in un terzo del tempo che avevamo impiegato a salire. Poi per me iniziano i problemi, perché la nausea ha preso il sopravvento sul mio povero piccolo debole organismo e nel tratto che rimane fino alla Solvay devo rallentare. In tutto, comunque, impieghiamo un’ora e mezza a scendere: dalle otto e mezza - eravamo stati una buona mezz’ora in cima - fino alle dieci. Alla capanna ci fermiamo moltissimo: io mi devo fermare, ho bisogno di servizi, devo vomitare, e poi impieghiamo molto tempo ad organizzare il nostro materiale.

Mirko e Andrea in vetta

Silvano prende molto del peso del mio zaino ed in più rimaniamo molto a riposare.
Quando ripartiamo sono già le 11. Ora c’è davanti Galis a cercare la strada, poi Silvano, e poi io, a monte, ad assicurare, a calare quando è necessario, a scendere in arrampicata quando è necessario. Dalla Solvay inizia subito il lavoro: per tre tratti consecutivi Silvano cala Galis, poi io calo Silvano e poi io scendo in arrampicata. L’arrampicata non è difficile, ma nell’ultimo dei tre tratti quel terzo grado si rivela consumato e scivoloso e non mi dà grande sicurezza. Poi un po’ di conserva, poi una calata da 25 metri… L’unica calata in doppia di tutta la discesa. Il resto è tutto così, una lunghissima alternanza di tratti di conserva e di calate singole, dove l’ultimo scende in arrampicata.
Intorno alle tre siamo al rifugio. Le ragazze sono già lì, hanno pranzato da poco e ci stanno aspettando. Nonostante il mio pessimismo siamo in perfetto orario; non siamo ancora alla funivia, ma abbiamo ancora due ore e mezza di tempo. Prima di tutto festeggio la conclusione dell’impresa con una costosissima bottiglietta di Coca Cola svizzera, quindi, dopo qualche minuto di riposo, andiamo tutti alla tenda e sistemiamo la roba negli zaini. La discesa è rapida; siamo alla stazione prima delle cinque; ho tutto il tempo per comprare il biglietto di discesa: la sera prima lo avevo perso durante la ricognizione; stupidamente mi ero dimenticato di metterlo via, una volta arrivato allo Schwartzsee e me lo ero dimenticato nella tasca dei pantaloncini. Il bello è che durante la ricognizione mi era caduto di tasca, Galis lo aveva visto e mi aveva detto: “c’è un biglietto della funivia, qui”; io avevo risposto “è stato perduto o abbandonato?”. In discesa dalla ricognizione lo avevo addirittura visto anch’io e non lo avevo degnato della minima considerazione. Solo una volta arrivato alla tenda ed in procinto di sistemare le mie cose mi ero accorto di averlo perso ed ero sicuro - lo sono ancora - che quel biglietto abbandonato sulla Hörnligrat era proprio il mio. Pazienza: altri 14.5 franchi da dare a questi esosi svizzeri.
A Zermatt ci fermiamo a cenare: sulle panchine del centro ci accampiamo con una bibita e un paio di pizze; poi una bella passeggiata, poi il pulmino fino a Tasch e poi il ritorno. Per fortuna che a guidare c’era Barbara perché noi altri dormivamo tutti.


Mirko Sala Tesciat
1998

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