Attentato in IRAQ- |
ATTENTATO IN IRAQ-Nassiriya
Nel mondo abitato dal fanatismo maligno, noi
facciamo la nostra parte
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Il Foglio, 13 novembre 2003 Questa storia di dolore e di lutto comincia in un altro paese, gli Stati Uniti d’America, e in un’altra data che è l’11 settembre del 2001. Se l’Italia è di nuovo in guerra è perché una guerra è stata dichiarata al mondo di cui l’Italia fa parte. Un mondo che applica il massimo grado possibile di libertà agli uomini, alle donne, ai bambini, considerati cittadini portatori di diritti. Un mondo che ama la vita nella pace e che è invaso dal fanatismo di chi invece idolatra, proclamandolo apertamente, la morte più della vita. Molti hanno voltato la faccia dall’altra parte. Hanno pensato che un compromesso, una disattenzione strategica, una fuga potessero risparmiarci problemi. Molti hanno pensato che sulle montagne dell’Afghanistan o nel deserto iracheno ci dovessero eventualmente andare altri, un qualche sceriffo globale che ci lasciasse qui, nella dolce e vecchia Europa, a godere dei vantaggi gratuiti di una sicurezza che non siamo abituati a pagare. Ma non era e non è possibile. La non belligeranza è un consolante mito costituzionale, il ripudio della guerra è un modello di comportamento che non regge alla prova della sicurezza minacciata, alla sfida del terrorismo mondiale. Non è retorica, è politica. La carneficina di Nassiryah era purtroppo prevedibile, e l’avevamo prevista. Il mondo non è più quello in cui i soldati italiani possono scorrazzare tranquilli, con le loro mascotte, con la consolante presunzione che i caratteri nazionali, non guerreschi, possono sempre prevalere e affermare un ruolo italiano di serenità e compromesso anche nelle situazioni in cui si fa più losca e tetra la violenza contro le persone e le cose. Non è più così. Questi, che i giornalisti pigri chiamano “resistenza”, sono banditi che bombardano prima le torri del libero commercio, poi l’Onu e la Croce Rossa e le ambasciate, sono fanatici al soldo di un regime di morte da cui gli angloamericani hanno liberato il mondo, sono i guastatori pieni di soldi e di armi che ancora non si è riusciti a scovare e ad annientare. Sono tipi che non si fermano di fronte a niente, perché il Niente travestito da ortodossia religiosa, il niente che tradisce i principi di bellezza e di pace di ogni religione, è la sostanza della loro vita devota alla morte. Si è discusso della morte della patria, nei tempi trascorsi. Chissà chi ha ragione. Ma se la parola ha un senso, è patriottico oggi esprimere un vero sentimento di cordoglio (e anche di orgoglio) nei confronti delle vite spezzate dall’auto-bomba che nel sud dell’Iraq ha preso di mira gente come noi, che parla la nostra lingua, condivide il nostro paesaggio esteriore e interiore, ha i nostri stessi difetti e pregi, ed è morta sulla frontiera più difficile di questo nuovo secolo: quella della battaglia di una antica civiltà contro una nuova barbarie. L’Italia poteva forse cavarsela per qualche tempo, poteva rinviare l’assunzione di responsabilità, poteva fare finta di niente, ma si è comportata altrimenti. Sia quando ha contribuito alla liberazione del Kosovo dai suoi aguzzini sia quando restituì il Kuwait alla sua indipendenza sia quando si è impegnata nella missione militare di pace dopo la guerra angloamericana contro Saddam Hussein e il suo clan del terrore e della tortura. Il fronte interno Bisogna resistere alla tentazione di dividerci, ma è una resistenza già sconfitta in partenza in un paese che ha smarrito una solida coscienza di sé per complicate ragioni che riguardano la sua identità e la sua cultura. Delle reazioni faziose e dei toni belluini usati nelle ore in cui era ancora caldo, rovente, il dolore per la strage di soldati italiani, parliamo qui sotto. Ma non importa quell’aria ferina che assume la politica italiana quando dà il peggio di sé. Importa invece che le persone serie, gli italiani che non si sono mangiati il cervello con atto supremo di autofagia ideologica, trovino il modo di parlarsi, e di parlarsi in queste ore con un linguaggio di franchezza e di sincerità che la gente comune chiede loro. Sarà imperdonabile qualunque disattenzione. L’Italia è lì per la pace, è andata lì per testimoniare il suo contributo orgoglioso e fiero ad alleati di cui si fida e che sono stati decisivi per la riconquista della libertà e della pace nell’Europa degli ultimi cinquant’anni. L’Italia è lì e, come ha detto Silvio Berlusconi, come dicono tutti coloro che hanno un minimo comune denominatore nazionale, non si lascerà intimidire dalle iene del deserto. Il timbro dell’Onu oggi, come tutti sanno, c’è. Ma l’Italia ha saputo assumersi le sue resposnabilità anche quando quel timbro non c’era. E ha fatto bene, perché libertà e sicurezza si stringono in una sola catena e non riguardano soltanto i bus di Gerusalemme, le torri americane, le camere di tortura irachene o talebane, riguardano bensì tutti noi, il nostro modo di vita, le nostre scelte fondamentali. Obiettabili, reversibili come tutto nella storia umana, ma degne di essere difese nel mondo contemporaneo. La difesa vera, quella armata, la esercitano gli italiani in divisa che cadono sotto i colpi dei banditi di Saddam. Ma la difesa di retrovia è altrettanto importante. E’ una difesa civile che si esercita con il linguaggio della politica responsabile, nel mestiere responsabile di informare e promuovere la discussione, è una difesa civile che ha bisogno della pulizia e dell’onestà intellettuale, le vere basi di ogni moralità. Non siamo in Iraq per il petrolio o per gli appalti, siamo lì per difenderci in una guerra che ci è stata dichiarata, e per confermare che siamo quel che siamo: uomini e donne liberi. |
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Terrorismo: «ATTENTATO IN IRAQ-Nassiriya: Questa storia di dolore», Il Foglio, 13 novembre 2003 |
Rassegnina |
Attentato in IRAQ -
Nassirya: I soldati contro il "Niente"
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Una
volta tanto le speculazioni politiche su umanità e diritti dell’uomo
passano in secondo piano. Tutti i media hanno giustamente messo in risalto
l’opera dei militari italiani in Iraq, che sono lì ad aiutare gli abitanti
del posto nella ricostruzione del loro Paese. Si tratta di rapporti
personali con la gente: i nostri soldati distribuiscono viveri e medicinali;
mettono a posto strade, acquedotti, elettricità e ospedali; addestrano la
polizia locale; formano contabili e ragionieri per la futura
amministrazione. E gli iracheni ne sono contenti, perché è di questo che
hanno bisogno. Posto che i terroristi distruggono e basta (per il “Niente”,
come dice Ferrara), quello che ci interessa e ci deve interessare sempre di
più è la ragione che muove questi italiani “positivi”.
Leggendo le testimonianze delle vittime e dei parenti, è evidente che per
loro ciò che dà valore alla vita è la percezione esistenzialmente chiara di
un bene che c’è, percezione sostenuta da una tradizione e da una educazione
secolari che ci insegnano che siamo amati: dalla moglie, dai figli, da chi
ci aspetta a casa, in una parola, da Dio.
Per questo uno si sente utile e chiamato a rispondere di questo bene, a comunicarlo a chi ne ha bisogno attraverso il proprio lavoro e la propria pietà. Tanto da mettere a rischio tutta la vita. |