bbiamo
lasciato Carlo Alberto in ritirata verso Milano con i resti dell'armata
sconfitta. La mattina del 4 agosto 1848 gli austriaci sono in vista di Milano. Il grosso dei Piemontesi era accampato fuori
delle mura in
una posizione da cui non poteva controllare un eventuale accesso da
Porta Romana. Le avanguardie austriache che stavano avvicinandosi furono
contrastate, per quanto potevano, dalla Guardia Nazionale Lombarda che
provvide anche ad incendiare le case circostanti la porta. Alla sera il
Re s'era deciso ad entrare in città, ponendo il suo comando a Palazzo
Greppi.
La mattina dopo, 5 agosto, cominciarono però a circolare in città
voci sulla capitolazione. Cristina Trivulzio di Belgioioso:
Memorie
La
mattina del 4 agosto, si dicevano gli austriaci a 5 miglia da Milano, a
poca distanza del parco d’artiglieria
piemontese in
Noverasco. Il re col grosso del suo esercito stava accampato fuori di
Porta Romana e nei dintorni, precisamente dalla parte di Noverasco.
Avriano forse gli austriaci potuto avanzare sino alla Porta Romana senza
trovar sulla via l’esercito Piemontese, e senza, che del loro
avvicinarsi ne fossero resi avvertiti i milanesi.? Bisognava pure
ammetterlo, per quanto impossibile a noi sembrasse. Dirigendomi verso
Porta Romana vidi io stessa la gente fuggire le bombe nemiche
abbandonando i lavori delle barricate. Corsi al comitato di difesa: quei
membri in tutta pace a redarre ordini del giorno attendevano: alla
gravità del pericolo, che loro imminente dipinsi, non volevano credere:
e come prestarvi fede, se si sapeva l’armata Piemontese fuori della
nostra mura ? Non vi fu, dubbio: il popolo stesso accorse. Come conobbe
il pericolo, la guardia nazionale venne in massa là, dove il nemico
cominciava a bombardare: lo attacca: lo ricaccia: 1’ incalza, prende
cinque cannoni, e fa 200 prigionieri: lo costringe a ritirarsi tre
miglia indietro: le campane suonano a stormo: chiamansi i cittadini
all’armi ed al soccorso. Le larghe pietre delle nostre strade si levano:
sorgono come per incanto le barricate, carrozze, carri, mobili, tutto si
adopra: in certi luoghi si scavarono delle mine. Milano sembrava un
ammasso di pietre e di proiettili: una foresta di piccole città, di
forti, di ridotti, che intimorito avrieno il più coraggioso dei soldati.
Le guardie nazionali rientravano a notte: aveano veduto l’inimico: s’eran
misurate con esso: ne avevano sostenuto il fuoco: egli avea dovuto
ritirarsi. Ottenuto questo primo successo, l’esaltazione divenne
fanatismo: per l’indomani un nuovo attacco vi si riprometteva, dove
l’austriaco avrebbe spiegate tutte le sue forze.
Scorreva lenta la notte del 4 al 5; la guardia nazionale vegliò sui
bastioni, il popolo alle barricate: la città fu illuminata, li re s’era
deciso d’entrare in Milano, per sottrarsi, così diceva, al pericolo d’un
attacco improvviso: abitava nel centro della città il palazzo Greppi
posto sulla Corsia del Giardino: quella stessa notte gran parte delle
truppe, abbandonato il loro posto, erano entrate in Milano: lo si seppe
più tardi. Era giorno: il cannone non si faceva ancor sentire: domandava
ognuno spiegazione d’una quiete sì prolungata: taluno diceva, che
s’avrebbe aspettato il mezzo giorno per attaccare. Infine vaghe voci
cominciarono a circolare — il re avere capitolato — non vollero dapprima
crederle i milanesi. Due infelici, che primi ne avevan portata la nuova,
furono massacrati a furor di popolo sulla Piazza dei Mercanti: si
credevano austriaci travestiti venuti a bella posta per seminar
discordie fra il popolo, e l’armata. Ma ben presto si moltiplicaron le
voci: a mille a mille il ripeterono: cadde il velo: la verità fu in
luce. Una sorte tanto più orribile, quanto inevitabile era riserbata
alla città di Milano. Le truppe piemontesi stavano per partire: una gran
parte di già in marcia: i nostri capi sì del civile, che del militare
fuggiti, o a seguire il re preparati: restava il popolo abbandonato,
solo, consegnato nelle mani del Radetzky, e dei suoi soldati. Lo stesso
giorno alle sei di sera dovevano
entrare gli Austriaci. Non mi fermerò a
descrivere la costernazione qual fosse d’un popolo, al quale si toglieva
la vittoria prima della pugna: n’andavano pazzi pel dolore: piangevano
gli uomini nascondendo tra le mani il volto: più abituate al pianto le
donne, più timide, e della lagrima meno vergognose correvano disperate
di strada in strada: strida mandavan d’orrore. Vidi io stessa al tristo
annunzio cader morto un vecchio: la terra fu rossa del suo sangue. Suoni
sì strani mi feriron l’orecchio, vidi allora cose, che nel delirio della
febbre nulla di simile m’aveva mai presentato l’alterata immaginazione.
Finalmente la rabbia successe alla disperazione. Irritata la folla si
porta al palazzo Greppi decisa d’impedire la fuga del re, determinata a
fargli stracciare la infame capitolazione. Un battaglione di carabinieri
a cavallo, che vi stava a difesa, all’avvicinarsi di quella massa riceve
ordine di ritirarsi, per non esacerbare di più gli animi inaspriti. In
un istante si rovesciano gli equipaggi del re: si fan le barricate: si
accerchia, s’invade il palazzo: una deputazione della guardia nazionale
interroga
Carlo Alberto sul fatto della capitolazione: egli lo nega:
allora gli è forza seguire suo malgrado quei deputati al balcone, di là
arringa il popolo, scusa la sua ignoranza dei veri sentimenti dei
milanesi: si dice soddisfatto in vederli sì pronti alla difesa:
solennemente promette di battersi alla loro testa sino all’ultimo
sangue. Qualche colpo di fucile partì contro Carlo Alberto. Alle ultime
parole della sua arringa il popolo sdegnato grida: «Se la è così,
lacerate la capitolazione» il re trae allora un pezzo di carta di
saccoccia, lo tiene in sospeso, sicchè il popolo lo veda: poi lo fa in
brani.
Per tutta la città in un baleno si divulgò la notizia: avere il re
lacerata la capitolazione, e restare ormai col suo esercito a difendere
Milano. Fu vera gioia. I preparativi di difesa alacremente si spinsero.
A termine della capitolazione dovevano entrare gli Austriaci il giorno
cinque alle sei di sera: venne la notte — gli austriaci non si videro:
per torre ogni mezzo all’ inimico di fulminare colle sue batterie da
punti elevati la città, il giorno prima s’aveano incendiate tutte le
case fuori di Porta Romana: nuovo sacrificio fu questo fatto alla
patria, ed alla causa nazionale da povere famiglie a strette risorse:
eppure non un grido, non un lamento: all’indomani continuava l’incendio:
altri sobborghi andavano in fiamme. Se ne valuta il danno ad otto
milioni di lire austriache ».
la fine della Guerra
Scesa la notte, il Re abbandonò
di soppiatto la
città. Il colonnello Alfonso La Marmora, fratello di Alessandro, con una scala di corda scese
dalle finestre alte del Palazzo e raccolse il Reggimento Guardie e i Bersaglieri poco distanti per proteggere il Re all'uscita in
strada. Al sorgere del sole la notizia della fuga si sparse lasciando il
popolo interdetto.
"Eravamo abbandonati da tutti, piemontesi e
lombardi armati, tutti erano partiti compresa l'artiglieria. Un
parlamentare Austriaco alle porte annunciava che a mezzogiorno sarebbero
entrate le truppe. Tutti gli uomini dai 18 ai 40 anni sarebbero stati
arruolati e spediti coi croati alle frontiere dell'est. Chi preferiva
l'esilio, doveva abbandonare la città entro le 8 di
sera"
Si racconta del sergente Orengo che, avuta notizia dei tumulti,
si sia presentato a Palazzo con i bendaggi che gli avevano appena
applicato all'ospedale per una ferita. Dopo una solenne rissa coi dimostranti riuscì
ad entrare. Il sergente Orengo era lo stesso che, fermatosi in una
osteria a Isola della Scala a bagnarsi la gola, si fiondò fuori sulla
strada Mantova-Verona perchè avvisato dagli astanti che era di
passaggio, puntuale come un orologio, il corriere imperiale con la borsa
dei documenti. In un batter d'occhio la borsa del
corriere passò di mano coi suoi segreti.
Dopo l'armistizio s'apre la caccia ai responsabili
e si pensa al futuro. Agli ordini del ministero
della guerra (Giuseppe Dabormida
sostituisce Franzini dal 22 agosto), non c'era nessun comandante designato alla
conduzione delle operazioni.
Si cercò all'estero il comandante in capo, prima un francese in
servizio (ma per evitare attriti politici la Francia lasciò cadere
l'ipotesi) poi un generale
polacco residente in Francia, tale Chrzanowsky, all'oscuro della situazione italiana
e sembra anche poco pratico di guerre. L'idea che la guerra
dovesse continuare divise i deputati piemontesi più radicali; ad essa fu
alternativamente attribuito un esito disastroso con cacciata dei Savoia,
e per lo stesso esito un ritorno all'antico Regime imposto dai vincitori
Austriaci.
Il giovane Vittorio
Emanuele aveva scritto (profeticamente):"Quando
verrà il giorno di marciare, qualche corpo marcerà e verserà sino
all'ultima goccia del suo sangue, ma i più, magari intere divisioni, si
sbanderanno prima ancora di vedere il nemico. Allora, da lontano gli
avvocati grideranno vendetta contro i generali e non penseranno per
nulla che proprio essi siano la causa di tutto. Metà dei nostri
ufficiali, tirati non so di dove, non sanno neppure salutare, onde i
soldati ridono fra di loro e, padroni di fare ciò che vogliono, non si
astengono dall'esprimere in pubblico le loro idee. L'indisciplina e la
ribellione sono approvate: ecco lo stato del nostro esercito".
Ce n'era abbastanza per fare gli scongiuri. Chrzanowsky
non sapeva una parola di italiano e portò con se uno staff tutto
straniero. Per bilanciarlo gli fu affiancato, nel febbraio del '49, come capo di stato maggiore,
Alessandro La Marmora. Il corpo dei bersaglieri dai due battaglioni
dell'anno precedente salì a 7 aggiungendo il 3°e 4° con coscritti, il
5° e 7° coi volontari Emiliani, Valtellinesi,Trentini nonchè i
Lombardi del Manara (6°). Il 20 marzo
1849, allo scadere dell'armistizio, le ostilità sarebbero riprese. Il
Piemonte era ora una monarchia costituzionale ed aveva anche il suo
primo ministro ma non reggeva al passo. Gioberti si era dimesso il 21
febbraio ed ora c'era un generale ex comandante del Genio, Agostino
Chiodi che probabilmente non contava nulla come generale e ancora meno
come politico. Non basta una costituzione a fare dei politici. Il piano
militare (era il Re che comandava), pur finemente congegnato, non tenne conto dei
movimenti austriaci: Il fronte aveva una ampiezza spropositata ed andava
da Sarzana (La Spezia), dove sarebbe partita una colonna per Parma, al lago Maggiore.
Il passaggio del Ticino a Pavia, da parte degli Austriaci, doveva essere assolutamente contrastato.
Il Ramorino spostando parte degli uomini al di là del Pò, a sud, verso
Piacenza sulla sponda destra, in effetti tendeva a contrastare un diversivo che gli austriaci
avevano messo in atto puntando all'oltrepò pavese. Gli aggiornamenti
sui movimenti del nemico si fecero sempre più radi e
comunque gli ordini erano di stare a ridosso della strada Pavia-Mortara
sulla sponda sinistra del Fiume
(la sponda sinistra è quella che si ha con a
spalle rivolte alla sorgente e fronte alla foce per intendersi).
I piemontesi dapprima occuparono Magenta poi Vigevano in Lomellina, sempre alla
ricerca del grosso dell'armata di Radetzky. Il 23 marzo in uno scontro
finale dalle 11 alle 7 di sera l'esito della guerra
fu segnato. Le truppe piemontesi furono inizialmente schierate attorno a
Novara; davanti, con funzione di avamposto, sulla linea Torrion
Quartara - Castellazzo, furono dislocati i bersaglieri del 2°
battaglione nel seguente modo: a Torrion Quartara la 5° compagnia con
il capitano Testa, a Cascina Boiotta e Cascina Boriola la 6° compagnia
guidata dal capitano De Biler che in parte era assegnata a protezione
della 2° batteria da posizione guidata dal capitano Ferdinando
Balbo.
Nel settore Olengo si posizionò la 7° compagnia con il capitano
Casimiro Cattaneo e la 8° compagnia con il capitano Pejron. La prima
linea della 3a Divisione del generale Perrone, dal Castellazzo alla
Cascina Cavallotta, fu affidata al 3° battaglione bersaglieri (
maggiore Di Saint Pierre), al 4° battaglione bersaglieri ( maggiore
Morand), già del Quartier Generale e assegnati alla Divisione, alla
Brigata Savona ( generale Giorgio Ansaldi ) con il 15° reggimento
fanteria ( colonnello De Cavero) su tre battaglioni in linea, sostenuto
a tergo dal 16° (colonnello Cauda), anch'esso con
tre battaglioni in linea, vale a dire uno a fianco dell'altro), due a
ovest della strada e uno a est tra il Castellazzo e Cascina Farsà. Alla Bicocca,
a battaglia compromessa dallo superiorità avversaria, si disse che Carlo Alberto tentasse più volte
la morte in battaglia*. Alle otto di sera mandò un parlamentare per chiedere la
tregua. Nel palazzo Bellini di Novara, presenti Alessandro La Marmora, il
fratello Carlo Emanuele, i due figli del Re Vittorio e Ferdinando nonché il
Polacco, Carlo Alberto
annunciò la sua abdicazione e partì alla volta del Portogallo.
Il ministro Raffaele Cadorna si recò da Radetzky per fissare il colloquio con il
nuovo Re.
*Da Storia di 2 anni C.A.Vecchi "Davanti ai suoi occhi passarono quelli che lui aveva
abbandonato, quelli banditi per delitti contro la libertà e
l'indipendenza, quelli imprigionati ed infine quelli saliti al patibolo.
Ora egli scontava con le sue pene quelle atroci patite da migliaia di
uomini e provava l'angoscia che rode le carni"
Per i gli scontri del
'49,
al corpo andarono 2 medaglie di Bronzo.
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