Sul reddito minimo di inserimento
(RMI) il Governo continua a inviare segnali contraddittori, senza aprire un
dibattito serio nelle sedi istituzionali, in primis in Parlamento. L’ultima notizia è che la
sperimentazione, che ormai si trascina da oltre quattro anni, verrà
rifinanziata con 220 milioni di euro, e il nome dell’istituto verrà cambiato in "reddito di ultima istanza".
In precedenza, nel Patto per l’Italia, era stato scritto che la
sperimentazione aveva dimostrato l’impossibilità di generalizzare a
livello nazionale l’esperienza del RMI, usando criteri e
standard omogenei per tutto il territorio e grazie a finanziamenti in parte
garantiti dal bilancio dello Stato (si veda segnalazione "Quando
il Patto per l'Italia cancella il Reddito Minimo di Inserimento").
Viceversa nel Patto si anticipava che il reddito minimo di inserimento
sarebbe stato lasciato alla totale competenza e finanziamento delle
Regioni, che potevano usare a questo scopo il Fondo Sociale (che peraltro
non ha destinazioni di scopo vincolate).
Il proseguimento della
sperimentazione, i cui obiettivi "sperimentali" appaiono sempre
più dubbi da un rinnovo all’altro, accentua le riserve di coloro che
criticarono il primo rinnovo ed estensione operati durante il Governo di
centro-sinistra. Infatti erano stati ignorati i risultati emersi dal
Rapporto di valutazione ed erano stati dati per assodate disparità di
condizioni tra Comuni e Regioni, in ultima istanza non era chiaro l’obiettivo finale di tale politica.
Le due indicazioni di Maroni
Nel frattempo, ad oltre un anno di
distanza dalla sua consegna da parte dell’Istituto incaricato, il Rapporto di
valutazione è stato trasmesso lo scorso luglio (ma le singole regioni lo
hanno ricevuto a settembre) alla Conferenza Stato, Regioni e Provincie
autonome, perché ne diano una propria valutazione.
In compenso, nella sua lettera di
trasmissione il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Maroni
fornisce indicazioni di lettura interessanti. Nell’esprimere un giudizio critico nei confronti del RMI, parla
tuttavia di un possibile percorso di messa a regime, purché vengano tenuti
presenti due aspetti. Il primo riguarda il fatto "…che è certamente insostenibile una linea di intervento che
tende a scaricare su questo istituto di ultima istanza un insieme di
interventi per chi perde il lavoro, per chi è alla ricerca della prima
occupazione e per quelle figure più problematiche dell’emarginazione sociale che necessitano di una rete di sostegni
per non finire totalmente e irreversibilmente esclusi". Il secondo
riguarda il fatto che questo istituto per "…non trasformarsi in un improprio trasferimento a favore di
individui e gruppi sociali che se ne avvalgono come un surrogato di seri
percorsi di inserimento socio-lavorativo, deve trovare una gestione più
attenta e rigorosa da parte dei poteri locali preposti all’individuazione dei soggetti eventualmente titolati a
beneficiarne, oltre che un’azione più determinata di governo del
sistema…".
Si tratta di due indicazioni
condivisibili, anche se la prima nasce da un malinteso. Il RMI non è
mai stato concepito come un sostituto della indennità di disoccupazione. E
non basta essere disoccupati o in cerca di occupazione per avervi diritto.
Occorre essere poveri e vivere in una famiglia povera. Di più, la soglia è
molto bassa: una persona che vive sola e ha un reddito di 275 euro mensili
ne è esclusa. Per altro, in tutti i paesi che hanno una misura di questo
genere (salvo che in Inghilterra), si distingue tra indennità di
disoccupazione e reddito minimo, pur richiedendo in entrambi i casi una
disponibilità ad accettare una occupazione. E non necessariamente chi ha
una più o meno temporanea necessità di accedere al RMI (ad esempio perché
ha esaurito l’indennità di disoccupazione e non è ancora riuscito a trovare
una occupazione, o perché, è una donna in cerca di occupazione dopo un
periodo dedicato alla famiglia) è una figura "problematica della
emarginazione sociale".
La seconda indicazione del Ministro
ricalca quella del Rapporto di valutazione, là dove questo segnala
il modo spesso idiosincrasico in cui i vari comuni coinvolti nella
sperimentazione hanno applicato la normativa. Ma per ovviare a questo
inconveniente occorre un rafforzamento dei criteri e degli standard, prima
ancora che una intensificazione dei controlli da parte di Stato e Regioni.
Il contrario, quindi, della totale delega alle regioni sia della
istituzione che della implementazione di questa misura. Altrimenti non si
riuscirà ad uscire dalla attuale situazione, cristallizzata in decenni di
assenza di una legge quadro sulla assistenza e di regole e istituti
condivisi: una situazione in cui nel campo delle politiche assistenziali e
di contrasto alla povertà vige il categorialismo più spinto e la regola del
cuius regio eius et religio.
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