RITROVARSI
PARTE 1
Settembre 1989: Tra le nuvole da Sidney a
New York.
L’incessante rimbombo del
motore dell’aereo era diventato ormai un tutt’uno con l’atmosfera
che circondava l’abitacolo del volo 757 che nel giro di
poche ore sarebbe finalmente atterrato a New York.
Col viso appoggiato ad un
lato del suo sedile, Susan stava guardando fuori dal
finestrino da ormai non sapeva nemmeno lei quanto. Era
riuscita a sonnecchiare solo per poche ore, ma non si sentiva
stanca, ancora cullata da una serie di pensieri e ricordi che
si mescolavano nella sua testa piacevolmente e che le facevano
ogni volta rivivere gli istanti vissuti ore prima e ancora
così vivi nella sua mente, nella sua anima e sulla sua pelle.
Sorrise verso un soffice nulla di nuvole sottostanti. Non si
sarebbe mai aspettata che lui, alla fine, sarebbe andato all’aeroporto
per salutarla, non dopo quello che le aveva detto il giorno
precedente, non dopo il loro feroce litigio e di certo non
quella persona orgogliosa e testarda che era sempre stata il
suo amico Russell. Lui non avrebbe voluto che lei partisse,
per andare dove poi? In un paese così lontano che chissà
quanto ancora più lontano l’avrebbe portata? E per fare
cosa poi? Cercare di realizzare un sogno, diventare
scrittrice, come se non avesse potuto cogliere la stessa
opportunità lì dove era cresciuta, a Sidney o a Melbourne.
Ma fin da quando era piccola Susan era sempre stata attratta
da quel paese che chissà per quale ragione, le aveva fatto
credere che potesse offrirle di più del suo. Cercava un’idea,
la sua idea originale, un personaggio nuovo da plasmare,
pronto a nascere dalla sua mente e pronto a vivere, pensare e
agire sotto le sue mani lasciate libere di scorrere su pagine
bianche con una penna oppure sulla tastiera di un computer.
Per questo aveva deciso di partire; rimasta affascinata da un
periodo di sei mesi trascorsi in un liceo vicino a New York,
si era ripromessa di tornare in quella città che all’età
di sedici anni le era sembrata così speciale e che ora, a
ventitré, sembrava che sarebbe rientrata nella sua vita. A
casa sua, in Australia aveva lasciato tante cose importanti,
ma soprattutto un amico speciale, il migliore che lei aveva
sempre creduto di avere. Anche lui aveva un suo sogno
particolare, fare l’attore, e ne aveva il talento, Susan ne
era più che sicura. Avrebbe girato un film, un regista l’aveva
scelto per una parte da protagonista dopo tanto che ci sperava
e avrebbe voluto essere in un certo senso vicino a lui in un
momento così importante. “La mia piccola Yankee”, era
così che lui la chiamava per questa sua forte passione che la
legava a New York e le si strinse per l’ennesima volta il
cuore quando ripercorse, con gli occhi della memoria, il
momento in cui lei, sola in aeroporto con il cuore in pezzi,
aveva sentito la sua voce chiamarla da un capo all’altro
della sala d’aspetto, incurante di quale sarebbe potuto
essere la reazione di tutti gli altri passeggeri presenti,
giratisi stupiti di fronte a quella scena. Si conoscevano da
così tanti anni che la sola idea di partire senza sentirlo
dalla sua parte era qualcosa che non avrebbe mai potuto
accettare. Gli ultimi mesi erano stati così confusi per lei
che si sentiva costantemente soffocata dal timore che la loro
amicizia potesse essere minacciata da chissà che fattore
esterno; pensava fosse il momento di liberarsi da quella sorta
di dipendenza che quel rapporto le stava dando e anche per
questo aveva deciso di partire. Vedere la rabbiosa reazione di
Russell davanti alla sua decisione l’aveva confusa, ma il
vederlo poi lì, davanti a lei, al momento della partenza ,
quando ormai aveva smesso di sperarci, le aveva dato un’emozione
tale che nemmeno lei stessa, che aveva fatto della parola
scritta una sua arte, sarebbe riuscita a descrivere. Con fare
casuale si sfiorò le labbra sulle quali ancora pulsava vivo
il ricordo di un bacio, tanto intenso e appassionato quanto
inaspettato, che l’aveva lasciata con una promessa, le sue
parole “qualunque cosa accada, io e te ci saremo sempre”.
Non sapeva se dare un vero valore a quel bacio o meno … in
fondo era solo un bacio, dato ad un aeroporto poi, forse
sarebbe svanito una volta toccata terra, ma in quel momento e
per molto tempo ancora, non avrebbe voluto che se ne andasse
via, quasi come se fosse stato il sigillo della promessa che
lui le aveva fatto. In quel momento preferiva vedere le cose
in quel modo mentre si allacciò la cintura di sicurezza
pronta per l’atterraggio.
I primi mesi Susan li aveva
trascorsi a casa di Michelle. Erano rimaste in contatto per
tutto il tempo in cui lei era tornata a casa in Australia ed
era stata la prima persona con la quale aveva legato fin dalle
prime settimane in cui si era iscritta al liceo. Come prima
cosa aveva intenzione di cercarsi un lavoro, uno qualsiasi.
Sapeva quello che voleva fare, ma si rendeva anche conto che
per imboccare la strada principale era spesso necessario
percorrere anche vie secondarie, che avevano pur sempre il
loro valore se un giorno l’avessero portata dove voleva lei.
Sarebbe rimasta a casa di Michelle giusto per il tempo
necessario a mettere da parte quanto le sarebbe bastato per
andare a vivere per conto suo e nel frattempo non avrebbe
abbandonato la sua più grande passione: scrivere, e nient’altro.
***
Susan entrò in casa
lasciandosi cadere pesantemente sul letto: un’altra
estenuante giornata trascorsa in giro per la città senza
nulla di fatto era giunta al termine. Le settimane si
susseguivano a velocità supersonica e sembrava che nessuno
avesse bisogno di lei, né negozi di nessun genere e tipo,
pub, persino il vecchio caro Mc Donald’s sembrava non aver
bisogno di personale. Raccolse i lunghi capelli neri e li
fermò con una matita. Stava fissando il vuoto quando tutta
una serie di immagini nitide come su uno schermo le scorsero
davanti. Era l’estate del 1985, l'anno in cui aveva
conosciuto Russell.
Susan aveva trovato un
lavoro in un locale di Sidney dove spesso suonavano musica dal
vivo. Non sarebbe stata lì per sempre, questo lo sapeva, solo
per il tempo necessario per mettersi da parte quanto le
bastava per un viaggio importante. Certo, non avrebbe potuto
prevedere che quell’estate avrebbe segnato il punto di
partenza verso un viaggio ancora più importante. A Susan era
toccato il turno del Mercoledì; era difficile che durante la
settimana suonassero gruppi noti in città, a loro venivano
riservate le serate del fine settimana. La stessa cosa sarebbe
accaduta quella sera, due ragazzi che suonavano da un po’ di
tempo insieme con un altro gruppo di amici, si sarebbero
esibiti proprio quel Mercoledì. Avevano provato tutto il
pomeriggio prima che il locale aprisse le porte alla serata da
loro attesa. Susan era rimasta lì per gran parte del
pomeriggio per preparare i tavoli; ogni tanto si fermava per
ascoltarli e in momenti di maggiore calma, in parte presa da
uno dei suoi soliti impulsi, in parte ispirata da quella
musica, si sedeva e incominciava a scrivere con la testa china
concentrata sul suo block notes. Alla fine fu una serata
pesante per entrambi, per lei indaffarata tra i tavoli e per
loro intenti a dare il meglio di loro. Il locale era piuttosto
affollato, più di quanto avrebbe immaginato e Susan pensò
che molti dovevano essere i vari amici dei membri del gruppo
che però, doveva ammetterlo quando ascoltava e guardava di
sfuggita, non erano affatto male.
“Me la daresti una birra?”
Un sorriso smagliante e due
occhi vivaci richiamarono la sua attenzione mentre rimetteva
ordine dietro al bancone. Quasi tutti se ne erano andati e i
membri del gruppo stavano sistemando i loro strumenti. Il
cantante si era avvicinato al bancone con un asciugamano sulle
spalle per asciugare il sudore che gli luccicava sulla fronte.
“Certo.”
“Stanca?”
“Abbastanza … e tu? …
Voi…” Chiese Susan porgendogli la bottiglia di birra e il
bicchiere e accennando con la testa al resto del gruppo.
Con una smorfia sorridente
dipinta sul viso il cantante la guardò iniziando a bere
direttamente dalla bottiglia.
“È una stanchezza che mi
piace questa … io sono Russell … Russ … o Rusty, come ti
viene.” Le porse la mano per stringere la sua.
“Susan, Susie, … Sue …come
ti viene.” Gli rispose stringendogli la mano smettendo per
un attimo di asciugare uno dei bicchieri.
“È da molto che lavori
qui?”
“Da qualche mese, ma non
ci starò per sempre.”
Russell la guardò con un
sorriso incuriosito, ogni tanto lei abbassava lo sguardo
concentrata su quello stava facendo forse non abituata a dare
troppa confidenza ai clienti al di là della semplice
gentilezza che il suo ruolo richiedeva. Le sue mani erano
belle e affusolate e pensava che assomigliassero più a quelle
di una che suona il pianoforte piuttosto che a quelle di chi
lava piatti e bicchieri per tutta la settimana.
“Che cosa stavi scrivendo?”
Con sguardo stupito e nel
contempo interrogativo Susan alzò la testa guardandolo.
Probabilmente doveva averla vista un istante prima mettere da
parte, sotto il bancone, il suo blocco e la sua penna, ma
forse si sbagliava.
“Come, scusa?” Con un
gesto volto a nascondere il suo imbarazzo si sistemò i
capelli dietro l’orecchio, sorrise lievemente rossa in viso.
Tenendo in mano la bottiglia
di birra dalla quale bevve qualche sorso, il ragazzo fece un
cenno verso lo sgabello dove poco prima Susan era seduta.
“Ti ho vista così intenta
a scrivere poco fa…” la guardava con un sorriso e occhi
verdi e solari, talmente intensi, curiosi e intriganti da
farle abbassare lo sguardo. Quando lo sollevò nuovamente quel
sorriso era sempre là, sorrise anche lei continuando ad
asciugare il bicchiere che aveva in mano.
“Mi piace scrivere …
quello che sento, quello che vedo …” alzò le spalle come
per non dare peso alle sue stesse parole.
“Continua…”
Susan lo guardò con aria
poco convinta.
“Sul serio, mi interessa.”
“Scrivo racconti, ci provo
almeno. Sto seguendo un corso di scrittura creativa, lavoro
qui da qualche mese per potermelo pagare e quando ho un minuto
libero mi dedico ai miei racconti. Ogni tanto li mando a
qualche giornale locale… sai, tanto per provare.”
“E come sta andando?”
“Diciamo che non ho ancora
trovato la mia idea originale.” Lo guardò di sfuggita
sorridendo.
“So che vuoi dire.”
Susan lo guardò mentre
volse lo sguardo altrove e sentì all’improvviso una
profonda fiducia in quello che lui le aveva appena detto. Le
stesse parole pronunciate da mille altri sarebbero potute
apparire casuali, ma quello sguardo e quella voce erano quelli
di chi sul serio “sa cosa vuoi dire” e lo sentì vicino a
sé quasi all’istante. Lo osservò a lungo mentre lui,
attaccato alla sua birra, guardava, con una fessura verde
azzurra negli occhi, il resto del gruppo che sistemava gli
strumenti sul palco. Aveva un profilo perfetto, pensò.
“Siete stati bravi.”
Aggiunse dopo.
“Grazie”
“È questo che vorresti
fare tu? Il cantante in un gruppo rock?”
“Potrei farlo, secondo te?”
Il suo sguardo era serio mentre la guardava dritta negli
occhi. Cercava una conferma o lanciava una provocazione?
“Sì” rispose seria
stavolta senza abbassare lo sguardo. Forse non stava dando una
risposta affermativa solo a lui.
Russell tornò a sorridere e
scosse la testa.
“In realtà … vorrei
fare l’attore.”
Nei pochi minuti in cui lui
le aveva parlato era riuscito a regalarle una miriade tale di
espressioni diverse da lasciarle il cuore confuso; sì, non vi
era alcun dubbio. Avrebbe potuto essere chi voleva.
Lo sguardo di Russell
appariva sempre più interessato e Susan si sentì lusingata
perché non erano molte le persone, in particolare quelle che
le stavano vicine, che l’avevano presa sul serio.
“Vorrei trasferirmi a
Sidney per un po’, ci sono più opportunità che a vivere
fuori città. Ma gli affitti per vivere da sola sono quasi
inaccessibili, per il momento.
“Dove viviamo io e Billy…”
con un gesto della mano fece cenno ad uno dei membri del
gruppo, che stava sistemando la sua chitarra, perché si
avvicinasse “…il posto c’è. Se non hai pretese di
vivere nel lusso."
“Non ho nessuna pretesa.”
“Hey Billy! … Ti
presento Susie …. Susan, lui è Billy.
“Ciao Susie.”
“Ciao Billy”
“Susan cerca casa, e il
nostro appartamento ha una stanza libera. Il tipo che c’era
prima ha detto che c’era troppo rumore e non riusciva a
studiare.” Russell le rivolse il solito sorriso. “se vuoi
venire a vederlo, senza impegno…”
Susan rispose al suo
sorriso. Era particolarmente incuriosita da quella serata.
Parlarono tutti e tre a lungo per diverse ore ancora fino alla
chiusura del locale e scoprirono di andare molto d’accordo.
A Susan sembrava quasi impensabile considerando il poco tempo
che avevano trascorso insieme. Suonare era la loro passione
anche se Billy lavorava per un’associazione benefica di
Sidney che si occupava del recupero di casi di emarginazione
sociale e Russell sognava di fare l’attore; ogni tanto
faceva la comparsa, tanti erano gli spot pubblicitari ai quali
aveva partecipato e lavorava duramente per poter un giorno
fare quello che voleva. Aveva pensato di trasferirsi per un
certo periodo a Sidney, ma la sua casa era fuori città.
Lontano da ogni sorta di rumore e disturbo, immerso nel verde
e nella natura insieme alla sua famiglia e ai suoi animali:
mucche, cani, cavalli.
Per quanto assurda fosse
stata la dinamica con la quale si erano conosciuti Susan andò
a vedere l’appartamento in cui vivevano e dopo una settimana
si era già trasferita.
Non ci volle molto perché
tutti e tre diventassero amici. La gente nella vita di Susan
aveva sempre finito col disperdersi qua e là e lei aveva
imparato ad apprezzare molto anche la sua solitudine; aveva
finito persino col vedere qualcosa di romantico nel fatto che
molti di loro fossero solo di passaggio nella sua vita. Ma per
quanto fosse un po’ un vagabondo come lei, Russell era
sempre stato in qualche modo presente. Lui tornava sempre e
ritrovarlo anche a distanza di mesi non aveva mai creato un
problema di comunicazione fra loro, si volevano bene e
trascorrevano molto volentieri il tempo insieme. In pochi mesi
avevano subito scoperto un’intesa particolare, era accaduto
spesso che, dopo che Susan era tornata dal lavoro, anche a
tarda notte, Russell fosse in cucina a guardare fuori dalla
finestra con la sigaretta accesa in mano. Non appena la vedeva
sorrideva come se la stesse aspettando e da una frase casuale
incominciavano a parlare per ore ed ore di qualunque cosa
possibile, incuranti del sonno o del fatto che si sarebbero
dovuti svegliare presto il giorno successivo. Una volta
Russell l’aveva invitata a casa sua, in mezzo al verde, e
Susan era rimasta affascinata da quale mondo completamente
diverso facesse parte di Russell, del Russell che aveva
conosciuto la prima sera. Aveva conosciuto la sua famiglia e
si era gustata qualche giorno di riposo lontana dalla città.
Quello era nettare puro per la sua creatività. Susan sentiva
profondamente quanto lui apprezzasse la sua compagnia quando,
seduti sul dondolo della veranda, innumerevoli notti, lui
ascoltava i suoi racconti con un braccio che le cingeva la
vita e l’altro sempre impegnato a tenere la sigaretta in
mano.
Una di quelle sere,
ricordava come se fosse accaduto il giorno prima, lui le
sorrise guardandola dall’alto in basso e porgendole la sua
sigaretta.
“Vuoi provare?”
“No, meglio di No.”
“Dai prova.”
Alla fine riusciva sempre a
farsi convincere non senza smettere di credere che in parte
lui lo facesse per prenderla in giro dato che il tutto finiva
sempre in un soffocamento continuo tra le risate di lui e l’incessante
tossire di Susan che tra le lacrime agli occhi e le smorfie di
disgusto, finiva sempre col capitolare e ridere di sé stessa
anche lei.
C’erano così tanti bei
ricordi che lo legavano a lui. Le ritornò in mente il momento
in cui lui, più grande di lei di un paio d’anni, aveva
avuto la “malsana” idea di insegnarle a guidare. ‘Allora,
tu mi cambi le marce, mentre io tengo il volante.’ Altro
ricordo vivissimo, era stato divertente anche se lui spesso
aveva perso la pazienza e le aveva gridato contro di tutto
perché non riusciva a fare le cose come lui gliele spiegava.
Certe volte aveva un caratteraccio, era davvero da prendere a
sberle, ma era così carino quando le chiedeva scusa e le
sorrideva con quello sguardo buffo che metteva in evidenza l’incisivo
scheggiato. Si abbracciò al cuscino mentre ripensava
alle sue parole all’aeroporto. ‘Se ci fosse un momento,
uno qualsiasi, in cui sentirai di aver bisogno di me voglio
che tu mi chiami, capito?…Dovunque tu sia, a qualunque ora
del giorno e della notte, non mi interessa … qualunque sia
il motivo, lo devi fare, ok? Guardami, dimmi che sai che io
per te ci sarò sempre.’ Era come una piacevole musica
da ascoltare e riascoltare. Era come sapere che dall’altra
parte del mondo ci fosse sempre un punto di riferimento per
lei e le mancava molto quel punto di riferimento … forse se
lo avesse chiamato avrebbe potuto per un attimo dimenticare
quanto quella giornata l’avesse fatta sentire inutile. Prese
la cornetta del telefono sul comodino, ma dopo le prime tre
cifre riattaccò subito. Le mancava troppo per sopportare l’eventualità
che non fosse in casa.
“Hey Sue, leggi qua,
cercano del personale al negozio di videocassette a Brooklyn”.
Comodamente sdraiata sul divano Michelle stava scorrendo gli
annunci del giornale. “… la paga è buona”
“Fa vedere …”
“Il quartiere lo conosco,
è pieno di italiani, … gente simpatica!”
“Li chiamo subito”
“Frena … qui dice di
presentarsi di persona … forse vogliono vedere se hai la
faccia da drogato o da maniaco … sai com’è …”
“Allora ci vado subito…qui
c’è scritto che è aperto 24 ore su 24.”
Susan benedisse l’efficienza
dei trasporti pubblici newyorchesi non appena sbucò, nemmeno
venti minuti più tardi, dal tunnel della metropolitana che l’aveva
portata a Brooklyn. Era già stata in quel quartiere e se lo
ricordava bene. Grazie ad uno straordinario senso dell’orientamento
che aveva preso da Russell, trovare la via che le interessava
fu praticamente uno scherzo.
“Ti interessa il posto?”
“Sì, ho letto sull’annuncio
che chiedevate di presentarsi di persona.”
“Ti fai di coca?”
La domanda lasciò Susan
decisamente incredula, ma la sua risposta pronta non lo diede
a vedere “No”.
“Hai altri vizietti strani
… tipo fumare roba poco pulita o …”
“No, assolutamente.”
Una donna dai capelli scuri,
uno scialle di lana di diversi colori avvolto su spalle
massicce, che non sarà stata oltre la cinquantina, le
rivolse, con un forte accento italiano, tutta un’altra serie
di domande apparentemente assurde, ma alle quali Susan aveva
risposto senza obbiezioni e con educazione. Sembrava che la
donna, per qualche ragione che Susan ignorava, stesse sondando
il terreno in modo più che diretto. Era soprattutto grazie al
suo tono perentorio e severo che riusciva a capire se chi le
stava davanti fosse sincero o meno: non lasciava infatti più
di qualche secondo per rispondere prima di passare alla
domanda successiva. Susan interpretò il suo silenzio in senso
positivo, forse aveva passato il test.
La donna la guardò con aria
diffidente. Riprese dopo una pausa.
“Tu non sei di qui, di
dove sei?”
“Australiana … abito non
lontano da Sidney.”
La donna si limitò ad
emettere un suono con le labbra in segno di assenso.
“Seguimi … qui ci vanno
i film d’epoca, sono tutti divisi per genere e messi in
ordine alfabetico, da quella parte ci sono i film di cassetta,
da quella le nuove uscite. Vedi di non confondere le cassette
perché altrimenti ci rimani tu dopo la chiusura a rimetterle
a posto … ah non sono ammessi ritardi, altrimenti sei fuori.”
Così come le si era
presentata così sparì. Susan rimase per un attimo immobile
dove la donna l’aveva lasciata. Si guardò intorno per un
attimo non convinta che quell’episodio fosse avvenuto. Una
voce alle sue spalle la riportò alla realtà.
“Le sei simpatica.”
Susan si voltò di scatto:
un ragazzo dai capelli scuri, alto, con gli occhiali e una
pila di videocassette in braccio era sbucato da chissà che
altro dove. Con visibile difficoltà le porse la mano in segno
di saluto, ci mancò poco che tutte le videocassette cadessero
per terra.
“Aspetta, ti aiuto.”
“Grazie … fa la
scontrosa, ma è tutta apparenza, credimi, le sei piaciuta.”
“Mi chiedo come mi avrebbe
trattata se non le fossi piaciuta.”
“Fa così perché non sai
che gente le è capitato di assumere tempo fa …”
“Assumere?”
“Sì perché?”
“Vuoi dire che…” Susan
con sguardo incredulo fece un gesto con la mano indicando la
porta dietro la quale la donna era sparita.
“Certo, sei dei nostri! Io
sono Jeremy, benvenuta in America!”
“Susan, piacere di
conoscerti.”
“Che ci fai qui?”
“Diciamo che sono tornata
dopo una pausa di qualche anno a casa mia. Ho studiato per sei
mesi in un liceo vicino a New York e ora sono qui … diciamo
per una mia idea.”
“Quale idea.”
“Scrivere.”
“Vuoi fare la scrittrice?”
“Ci provo.”
“Bè, allora … buona
fortuna e …bentornata in America.”
“Lei è la padrona?”
“È tutta roba della
famiglia.”
“Famiglia?”
“È mia madre.” Disse
strizzandole l’occhio.
Susan gli sorrise e
ringraziò il cielo che aveva frenato il suo impulsivo
desiderio di lasciarsi andare in ulteriori commenti su quella
donna dall’aspetto bizzarro. Per uno strano senso di calore
trasmessole dal sorriso cordiale di Jeremy si sentì all’improvviso
di nuovo accolta in un paese così lontano da casa.
Susan era entusiasta di come
le stavano andando le cose, nonostante fosse impegnata dal
mattino alla sera amava tutte quello che stava facendo. Jeremy
l’aveva aiutata molto i primi tempi e nonostante sua madre,
JoeAnn, non parlasse molto e quel poco che diceva lo esprimeva
a monosillabi perentori, era contenta di averci visto giusto
assumendo quella ragazza. Era volenterosa, sempre puntuale,
attenta ed entusiasta. A volte si chiedeva addirittura dove
trovasse tutta l’energia che aveva in corpo. Spesso era lei
a chiudere il negozio, la guardava mentre se ne stava seduta
su uno sgabello, forse troppo alto per lei, dietro al banco
della cassa. Quando non era occupata a servire qualche cliente
o a mettere ordine sugli scaffali, la vedeva sempre intenta a
scrivere su dei quaderni.
“Che cosa scrivi, bambina
… il tuo diario segreto?”
“No” rispose con un
sorriso cordiale, non intenzionata a lasciarsi andare in
nessun tipo di conversazione con una donna che non le aveva
mai dato l’impressione di voler occupare il tempo in
chiacchiere.
“Di che si tratta? Lettere
d’amore?”
“Racconti … idee che mi
vengono, niente di importante.”
“Se sono cose tue devono
per forza esserlo.”
Susan percepì un insolito
atteggiamento cordiale, quasi materno nei suoi confronti e
rispose annuendo con un sorriso.
“Jeremy mi ha detto che
vorresti fare la scrittrice … voi giovani, … ne avete di
idee per la testa, ma è bello sognare finché se ne ha l’occasione.
Anzi, bisogna sognare in grande per sperare di cogliere almeno
un sogno piccolo.” Riprese “Di’ un po’, i tuoi
genitori ti hanno lasciata venire qui tutta sola?”
“Diciamo che in Australia
si tende ad incoraggiare l’indipendenza dei figli.”
“Già, lo so. Io sono di
origine italiana, nata qui, ma cresciuta secondo la mentalità
di mia madre venuta qui molti anni fa. Lei veniva da un paese
dell’Abruzzo. Conosci l’Abruzzo?”
Susan scosse la testa.
“Lo immaginavo.” JoeAnn
sembrò per un attimo essersi persa nei ricordi dei racconti
di sua madre quando pronunciò quelle parole con uno strano
senso di nostalgia, ma proseguì.
“Non ti manca casa tua?
Non hai un fidanzato?”
“No, non ho … tempo per
un fidanzato.” Abbassò lo sguardo verso i suoi appunti,
lievemente intimidita; aveva sentito molto la mancanza dei
momenti in cui poteva parlare ed aprirsi con qualcuno che la
volesse ascoltare, che le chiedesse di lei e per la prima
volta sentì del sincero affetto nei confronti di JoeAnn, solo
in apparenza burbera e taciturna. Tutte quelle domande le
fecero capire che in tutti quei mesi non era stata per lei
solo una presenza invisibile nel suo negozio.
“ Mia nonna diceva sempre
‘Trova la persona che ti fa ritrovare te stessa nei suoi
occhi ed ecco che avrai tempo per un fidanzato’ ” disse
strizzandole l’occhio, con un sorriso assolutamente privo di
malizia, come se per chissà quale strano potere, fosse
riuscita a leggere, dentro di lei, qualcosa di cui solo lei
conosceva il significato. La neve che incominciò ad
imbiancare le strade di Brooklyn segnavano l’avvicinarsi del
secondo Natale che Susan avrebbe trascorso in quella città.
Dicembre 1990: "un
posto tutto mio."
Era passato quasi un anno da
quando Susan era tornata a New York. Michelle stava meditando
di andare a vivere con il suo ragazzo Jimmy e lei aveva deciso
che fosse arrivato il momento giusto di cercarsi un posto
tutto suo. Aveva messo da parte abbastanza per potersi
permettere tranquillamente di pagarsi una camera e magari
qualcosa in più.
“Nel nostro condominio c’è
un appartamentino, è ancora libero se ti può interessare. La
zona è molto tranquilla e nessuno ti disturberà, la padrona
è simpatica, se vuoi lo puoi venire a vedere.”
Susan accettò senza
esitazione. Il posto era incantevole e c’era tutto quello di
cui Susan aveva bisogno, soprattutto tanta luce, cosa alla
quale non avrebbe mai saputo rinunciare. Si trasferì poco
dopo Natale e festeggiò a Gennaio con una cenetta invitando
qualche amico tra i quali Michelle, Jimmy e Jeremy.
“Porta chi vuoi, mi
raccomando.”
“Jeremy si presentò con
un ragazza molto carina, aveva i tratti molto marcati e lunghi
capelli castani, labbra carnose e occhi scuri appesantiti da
un trucco che più che essere segno di eccessivo
esibizionismo, sembrava voler ostentare un’aggressività e
spavalderia non sue.
“Lei è Sabrina, vive sul
nostro piano … Sabrina lei è Susan, la ragazza australiana
di cui ti ho parlato.”
Si presentarono e Sabrina,
nell’incrociare lo sguardo di Susan, per un attimo, sembrò
abbassare la guardia. La cena si svolse nel migliore dei modi.
Durante l’anno Jeremy aveva insegnato a Susan le ricette
preferite di sua madre e lei era riuscita a stupire tutti. Era
un bravo ragazzo, studiava all’università letteratura e
sognava di diventare giornalista, non appena aveva un minuto
libero lavorava nel negozio di famiglia. Lui e Sabrina erano
molto amici e per un attimo, nella spontaneità del loro
rapporto, vide quella di lei e Russell. Era passato così
tanto tempo da quando l’aveva salutato all’aeroporto e
nonostante fosse sempre molto impegnata, nei momenti in cui
aveva un attimo di pausa per pensare a se stessa, il più
delle volte pensava a lui, a come stesse, a cosa stesse
facendo e soprattutto se stesse bene. Più volte aveva tentato
di chiamarlo. Ma non era mai riuscita ad andare oltre le prime
cifre del suo numero di telefono prima di riattaccare
nuovamente. Cercò di concentrarsi sul presente; quando anche
l’ultimo degli amici se n’era andato si guardò attorno
sospirando soddisfatta.
“Finalmente ho un posto
tutto mio.”
Nei mesi che seguirono anche
Sabrina e Susan erano diventate amiche. Susan non si era
sbagliata; quella di Sabrina era solo una facciata: era
aggressiva, scontrosa, non usava mai mezzi termini né
eufemismi per esprimere un’opinione o dire ciò che pensava,
ma lo faceva per difendersi e Susan ne ebbe la conferma la
sera in cui, dopo ormai mesi che si conoscevano e vivevano
nello stesso condominio, lei la invitò a cena nel suo
appartamento. Susan si presentò puntuale come sempre e una
volta entrata pensò immediatamente di essere finita nel bel
mezzo di un campo di battaglia. C’erano giocattoli sparsi
ovunque sul pavimento del salotto, riviste sul divano e un’immensa
pila di vestiti e vestitini da stirare. Sabrina, così dedusse
Susan, le aveva aperto la porta, ma subito dopo era schizzata
via dopo averle lanciato un frettoloso “accomodati!”
“Marlon! Non mi fare
arrabbiare che stasera non è serata! Devi farti il bagnetto,
non fare storie o le prendi!”
Una vocina da sotto il
divano gridò con tutta la forza che due piccoli polmoni
infantili potevano avere:
“No!”
“Marlon, stai facendo una
pessima figura davanti alla nostra ospite … sei un bambino
cattivo!”
“No!”
Esasperata oltre ogni limite
Sabrina non la smetteva di urlare.
“Marlon è la volta che le
prendi! Dico sul serio! … Susan scusami, fa così perché
gli ho detto che saresti venuta tu … deve sempre farmi
incazzare!”.
Sabrina si allontanò per un
attimo e Susan rimase sola nella stanza, si avvicinò al
divano e si chinò leggermente. Non appena ebbe sollevato il
copridivano si trovò davanti il musetto sorridente di una
bambino che non avrà avuto più di quattro anni. Biondo con
vispi occhi celesti. Susan gli sorrise e gli strizzò l’occhio.
“Ciao!”
Per tutta risposta il bimbo
gli mostrò la lingua.
Susan spalancò gli occhi
fingendosi scandalizzata e per tutta risposta il bambino
scoppiò in un’impertinente risata.
“Tu sei Marlon? … Io
sono Susan … te lo posso svelare un segreto?”
Incuriosito il bambino
rispose
“Quale?”
“Anche io odio fare il
bagnetto … ma se vieni fuori ti prometto che ti racconto una
storia.”
“Quale?”
“Quella che preferisci.”
“Ci sono i mostri?”
“Ti piacciono i mostri?”
“Sì, quelli che mangiano
le femmine!”
“Ma che mostri cattivi!”
“Non è vero!”
“Bè, le mie storie non
hanno i mostri … però hanno i canguri.”
“I canguri?”
“… e i koala …”
“Dimmene un pezzo …”
“Prima devi promettermi
che uscirai da lì …”
“No!”
“Allora niente canguri.”
Susan si alzò in piedi e
incominciò a passeggiare per la stanza sicura che la
curiosità del bambino sarebbe stata più forte del suo
orgoglio infantile. Non si sbagliò: qualche secondo più
tardi Marlon sgattaiolò fuori da sotto il divano con i
capelli tutti arruffati. Sabrina tornò in salotto con passo
deciso e rimase immobile con sguardo incredulo.
“Dimmi come hai fatto …
dimmi come ci sei riuscita?”
“Piccoli trucchetti … il
solito ricatto” le disse pronunciando la seconda parte della
frase con un tono più basso e divertito.
“Comunque grazie … e tu
adesso vieni, che mi hai già fatto perdere la pazienza.”
Prese Marlon di peso in
braccio mentre lui cercava di divincolarsi.
“Voglio i canguri ...
avevi promesso!” gridò puntando un dito verso Susan la
quale assisteva divertita alla scena.
“Dopo il bagnetto
arriveranno anche i canguri.”
“No, subito!”
La serata si concluse
tranquillamente, messo il bambino a letto dopo il tanto
sofferto bagnetto, Sabrina riordinava in cucina mentre Susan
manteneva la sua promessa. Marlon sembrava rapito dalle storie
che grazie alla fervida immaginazione di lei prendevano vita e
forma come se fossero stati cartoni animati.
“Ancora.”
“La prossima volta …
adesso dormi.”
“No.”
“Marlon … guarda che
anche i canguri devono dormire.”
“La prossima volta voglio
che i canguri mangino le femmine.”
Susan rise divertita. “Sarai
accontentato … buona notte, adesso dormi”.
“Come ci riesci?”
Susan e Sabrina erano
ritornate in salotto e si erano sedute godendosi finalmente la
loro tranquillità.
“I bambini mi piacciono
molto.”
“Le tue storie sono
bellissime … hai mai pensato di scriverle?”
“Continuamente.”
“Jeremy me l’ha detto
… che vuoi fare la scrittrice … hai già pubblicato
qualcosa?”
“Ci sto provando …
Marlon è un bambino bellissimo.”
“Già…come quel bastardo
di suo padre! … Ogni volta che lo guardo mi sembra di
rivedere lui, cazzo.”
Susan pensò di aver toccato
un tasto dolente, ma Sabrina sembrava avere voglia di aprirsi
con lei. Il solito aspetto aggressivo non esisteva senza il
trucco pesante dietro al quale si nascondeva e così, seduta
sul divano, con le gambe piegate sotto alle natiche, appariva
dolce e vulnerabile, incapace di cancellare il dolore di un’esperienza
che l’aveva fatta crescere in fretta e che l’avrebbe
accompagnata ogni giorno.
“Ho lasciato che a
scegliere il nome fosse mia madre … è fissata con Marlon
Brando … a me ha chiamato così per via del film … non che
io e la Hepburn abbiamo la stessa faccia … ma ci si può
sempre illudere.” Tirò una boccata dalla sigaretta.
Susan sorrise ascoltandola
in silenzio.
“… ad ogni modo, eccoci
qua, io e lui ... ma ce la caviamo benissimo. Se non fosse
stato per mia madre, però … e soprattutto per Jeremy …”
“Che ne è del padre?”
“Padre? Bè, sai com’è…succede
che un bel giorno dici al grande amore della tua vita, che per
altro ha giurato solo un attimo prima di amare solo te e che
non amerà nessun altra bla bla bla, che sei incinta, e per
tutta risposta lui ti chiede il test del DNA. Diciamo che non
è esattamente la prova d’amore che ti aspetteresti … lo
vuoi un consiglio? Non credere mai, mai alle promesse
preorgasmiche di un uomo! … E così mi sono ritrovata
incinta e siccome non credo nell’aborto ho deciso di tenerlo
… Il guaio è che a quell’età pensi di essere invincibile
… fai cazzate senza renderti conto che stai giocando col
fuoco, e adesso Marlon ne paga le spese: non ha un padre e
questo perché sua madre è stata un’idiota!”
“Tu non hai proprio nulla
da rimproverarti, hai fatto una scelta coraggiosa e questo fa
di te una buona madre. Credimi, dovresti essere orgogliosa,
sul serio.”.
“A volte penso che se non
ci fosse stato Jeremy forse non ce l’avrei fatta. Jeremy è
il migliore amico che una donna potrebbe desiderare … a
volte mi chiedo … se sia davvero un uomo.” Rise divertita
accendendosi un’altra sigaretta. Susan non smetteva di
ascoltarla.
“Mi ha aiutato lui per
quasi tutto il periodo della gravidanza, sarei stata persa
senza di lui.”
Susan sorrise e quelle
ultime parole la portarono lontano.
“Che c’è? … Scusa,
parlo troppo.”
“No figurati, è solo che
quando parli di te e Jeremy, mi viene in mente un mio amico e
il rapporto che avevo con lui.”
“Uno in Australia?”
“Sì.”
“Siete rimasti in
contatto?”
“A dire il vero è da un
po’ … più di un anno che non lo sento. Un sacco di tempo.
È un po’ impegnato, è difficile trovarlo in casa.”
“E da quanto tempo ne sei
innamorata?”
Susan spalancò gli occhi
colpita dalla schiettezza di quella domanda.
“Come dici?”
“Ti brillano gli occhi
quando parli di lui, riconosco i sintomi.”
“No, non sono innamorata”
sorrise abbassando gli occhi come accadeva ogni volta che si
sentiva imbarazzata e sopraffatta dalla sua stessa timidezza.
“Lo conosco da tanto
tempo, gli voglio molto bene, questo è sicuro. E poi … a
lui piacciono le bionde … me lo ha detto una sera mentre
parlavamo di gusti estetici e cose così.
“L’hai baciato?”
Distrattamente cercò di
guardare altrove provando ad evitare la risposta, ma gli occhi
di Sabrina erano puntati su di lei e non la abbandonavano nel
loro fare inquisitorio.
Susan la guardò e rise
imbarazzata, di fronte al suo sguardo serio.
“Allora?”
“Bè … una volta sola,
ma eravamo all’aeroporto, stavo partendo, è stato un bacio
d’addio più che altro, niente di che...”
“Ma baciava bene.”
Affermò con tono sicuro.
Dopo un istante di silenzio
eloquente fu Sabrina a rispondere per lei.
“Ho capito, è uno che ci
sapeva fare, cazzo.”
Si guardarono e sorrisero
all’unisono come due adolescenti ad un pigiama party.
“Sì, decisamente ….”
“Nome?”
“Russell”
“Un bel nome sexy.”
“Ma ... Sabrina!”
“Cosa … insomma, non lo
senti mentre lo dici?”
“Non ci ho mai fatto caso.”
“Devi venirmi a trovare
più spesso … che fa nella vita il tuo amico?”
“Di tutto un po’, ha un
ranch, suona e canta in un gruppo, ma vorrebbe fare l’attore
… ha talento, ce la potrebbe fare. Penso che potrebbe fare
tutto quello che vuole.” Guardò fuori dalla finestra,
lontano nel pronunciare quella frase.
Susan fu molto felice di
quella serata, lei e Sabrina avevano scoperto grandi affinità
e nel tornare a casa prima di coricarsi, ripensò a tutto. A
lei e Jeremy, al piccolo Marlon e a Russell. Era vero, era
passato così tanto tempo e non si erano più parlati. Gli
mancava, lo aveva notato non appena aveva parlato di lui con
Sabrina. Tante volte aveva ripensato al giorno della sua
partenza in aeroporto, a lui corso da lei per salutarla. Si
era spesso chiesta fino a che punto potessero avere valore
delle parole pronunciate al momento di un addio. Le emozioni
sono tante, i sentimenti, forse, portati volutamente all’estremo,
ma solo per pochi istanti, perché si pensa che siano gli
ultimi; in realtà, tornati alla routine di ogni giorno,
quelle promesse appaiono come dissolte, non più presenti.
Sono tenute in vita da un ricordo, dal suo ricordo e da nient’altro.
Non una prova, non una conferma. La verità era che lei non
sapeva dove fosse, come stesse e che cosa stesse facendo.
Forse era anche lui uno dei tanti di passaggio, sebbene le
facesse male il solo pensarlo. Forse doveva smettere di
pensare a lui o a quanto speciale potesse essere un rapporto
con una persona che aveva preso chiaramente una strada diversa
dalla sua. Gli mancava? Sì, gli mancava il ricordo di lui,
quello che di lui c’era nel suo cuore; ma Russell, quello
lontano, non c’era e avrebbe dovuto accettarlo e continuare
con quello che la sua vita, quel presente, il suo lavoro e le
persone lì con lei in quel momento le stavano dando. Spense
la luce sul comodino, dopo aver scritto tutto quell’incessante
e incontrollabile flusso di pensieri. Chiuse gli occhi e si
addormentò scendendo definitivamente dalle nuvole che l’avevano
portata da Sidney a New York e disse addio al suo passato.
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