Le Fan Fiction di croweitalia

titolo: Ritrovarsi (Prima parte) (leggi la seconda parte) (leggi la terza parte) (leggi la quarta parte)
autrice: AleNash
e-mail: alessandradonnini@yahoo.it
data di edizione: 29 agosto 2003
argomento della storia: Susan Mc Arthur sogna di diventare scrittrice, il suo migliore amico di fare l'attore. Lei parte per l'America, lui rimane in Australia. Ma i loro cammini sono destinati a incrociarsi.
riassunto breve: Susan lascia Sidney per andare a New York a cercare di realizzare il suo sogno.
immagini: Ely
note:  Vorrei ringraziare di cuore prima di tutto Ely che con le sue bellissime immagini ha dato vita ai personaggi di questa storia più di quanto le parole che li descrivono avrebbero potuto fare; in secondo luogo ringrazio tutte coloro che mi hanno spronato a non smettere di scrivere. Ciccine, siete grandi … e nel caso la storia non sia di vostro gradimento, di sicuro lo saranno le figure. Ho iniziato a scrivere questa storia ormai quasi un anno fa, riferimenti a cose dette da persone casualmente note, lo giuro, sono assolutamente causali. (AleNash)

RITROVARSI

 

PARTE 1

Settembre 1989: Tra le nuvole da Sidney a New York.

L’incessante rimbombo del motore dell’aereo era diventato ormai un tutt’uno con l’atmosfera che circondava l’abitacolo del volo 757 che nel giro di poche ore sarebbe finalmente atterrato a New York.

Col viso appoggiato ad un lato del suo sedile, Susan stava guardando fuori dal finestrino da ormai non sapeva nemmeno lei quanto. Era riuscita a sonnecchiare solo per poche ore, ma non si sentiva stanca, ancora cullata da una serie di pensieri e ricordi che si mescolavano nella sua testa piacevolmente e che le facevano ogni volta rivivere gli istanti vissuti ore prima e ancora così vivi nella sua mente, nella sua anima e sulla sua pelle. Sorrise verso un soffice nulla di nuvole sottostanti. Non si sarebbe mai aspettata che lui, alla fine, sarebbe andato all’aeroporto per salutarla, non dopo quello che le aveva detto il giorno precedente, non dopo il loro feroce litigio e di certo non quella persona orgogliosa e testarda che era sempre stata il suo amico Russell. Lui non avrebbe voluto che lei partisse, per andare dove poi? In un paese così lontano che chissà quanto ancora più lontano l’avrebbe portata? E per fare cosa poi? Cercare di realizzare un sogno, diventare scrittrice, come se non avesse potuto cogliere la stessa opportunità lì dove era cresciuta, a Sidney o a Melbourne. Ma fin da quando era piccola Susan era sempre stata attratta da quel paese che chissà per quale ragione, le aveva fatto credere che potesse offrirle di più del suo. Cercava un’idea, la sua idea originale, un personaggio nuovo da plasmare, pronto a nascere dalla sua mente e pronto a vivere, pensare e agire sotto le sue mani lasciate libere di scorrere su pagine bianche con una penna oppure sulla tastiera di un computer. Per questo aveva deciso di partire; rimasta affascinata da un periodo di sei mesi trascorsi in un liceo vicino a New York, si era ripromessa di tornare in quella città che all’età di sedici anni le era sembrata così speciale e che ora, a ventitré, sembrava che sarebbe rientrata nella sua vita. A casa sua, in Australia aveva lasciato tante cose importanti, ma soprattutto un amico speciale, il migliore che lei aveva sempre creduto di avere. Anche lui aveva un suo sogno particolare, fare l’attore, e ne aveva il talento, Susan ne era più che sicura. Avrebbe girato un film, un regista l’aveva scelto per una parte da protagonista dopo tanto che ci sperava e avrebbe voluto essere in un certo senso vicino a lui in un momento così importante. “La mia piccola Yankee”, era così che lui la chiamava per questa sua forte passione che la legava a New York e le si strinse per l’ennesima volta il cuore quando ripercorse, con gli occhi della memoria, il momento in cui lei, sola in aeroporto con il cuore in pezzi, aveva sentito la sua voce chiamarla da un capo all’altro della sala d’aspetto, incurante di quale sarebbe potuto essere la reazione di tutti gli altri passeggeri presenti, giratisi stupiti di fronte a quella scena. Si conoscevano da così tanti anni che la sola idea di partire senza sentirlo dalla sua parte era qualcosa che non avrebbe mai potuto accettare. Gli ultimi mesi erano stati così confusi per lei che si sentiva costantemente soffocata dal timore che la loro amicizia potesse essere minacciata da chissà che fattore esterno; pensava fosse il momento di liberarsi da quella sorta di dipendenza che quel rapporto le stava dando e anche per questo aveva deciso di partire. Vedere la rabbiosa reazione di Russell davanti alla sua decisione l’aveva confusa, ma il vederlo poi lì, davanti a lei, al momento della partenza , quando ormai aveva smesso di sperarci, le aveva dato un’emozione tale che nemmeno lei stessa, che aveva fatto della parola scritta una sua arte, sarebbe riuscita a descrivere. Con fare casuale si sfiorò le labbra sulle quali ancora pulsava vivo il ricordo di un bacio, tanto intenso e appassionato quanto inaspettato, che l’aveva lasciata con una promessa, le sue parole “qualunque cosa accada, io e te ci saremo sempre”. Non sapeva se dare un vero valore a quel bacio o meno … in fondo era solo un bacio, dato ad un aeroporto poi, forse sarebbe svanito una volta toccata terra, ma in quel momento e per molto tempo ancora, non avrebbe voluto che se ne andasse via, quasi come se fosse stato il sigillo della promessa che lui le aveva fatto. In quel momento preferiva vedere le cose in quel modo mentre si allacciò la cintura di sicurezza pronta per l’atterraggio.

 

I primi mesi Susan li aveva trascorsi a casa di Michelle. Erano rimaste in contatto per tutto il tempo in cui lei era tornata a casa in Australia ed era stata la prima persona con la quale aveva legato fin dalle prime settimane in cui si era iscritta al liceo. Come prima cosa aveva intenzione di cercarsi un lavoro, uno qualsiasi. Sapeva quello che voleva fare, ma si rendeva anche conto che per imboccare la strada principale era spesso necessario percorrere anche vie secondarie, che avevano pur sempre il loro valore se un giorno l’avessero portata dove voleva lei. Sarebbe rimasta a casa di Michelle giusto per il tempo necessario a mettere da parte quanto le sarebbe bastato per andare a vivere per conto suo e nel frattempo non avrebbe abbandonato la sua più grande passione: scrivere, e nient’altro.

***

 

Susan entrò in casa lasciandosi cadere pesantemente sul letto: un’altra estenuante giornata trascorsa in giro per la città senza nulla di fatto era giunta al termine. Le settimane si susseguivano a velocità supersonica e sembrava che nessuno avesse bisogno di lei, né negozi di nessun genere e tipo, pub, persino il vecchio caro Mc Donald’s sembrava non aver bisogno di personale. Raccolse i lunghi capelli neri e li fermò con una matita. Stava fissando il vuoto quando tutta una serie di immagini nitide come su uno schermo le scorsero davanti. Era l’estate del 1985, l'anno in cui aveva conosciuto Russell.

 

Susan aveva trovato un lavoro in un locale di Sidney dove spesso suonavano musica dal vivo. Non sarebbe stata lì per sempre, questo lo sapeva, solo per il tempo necessario per mettersi da parte quanto le bastava per un viaggio importante. Certo, non avrebbe potuto prevedere che quell’estate avrebbe segnato il punto di partenza verso un viaggio ancora più importante. A Susan era toccato il turno del Mercoledì; era difficile che durante la settimana suonassero gruppi noti in città, a loro venivano riservate le serate del fine settimana. La stessa cosa sarebbe accaduta quella sera, due ragazzi che suonavano da un po’ di tempo insieme con un altro gruppo di amici, si sarebbero esibiti proprio quel Mercoledì. Avevano provato tutto il pomeriggio prima che il locale aprisse le porte alla serata da loro attesa. Susan era rimasta lì per gran parte del pomeriggio per preparare i tavoli; ogni tanto si fermava per ascoltarli e in momenti di maggiore calma, in parte presa da uno dei suoi soliti impulsi, in parte ispirata da quella musica, si sedeva e incominciava a scrivere con la testa china concentrata sul suo block notes. Alla fine fu una serata pesante per entrambi, per lei indaffarata tra i tavoli e per loro intenti a dare il meglio di loro. Il locale era piuttosto affollato, più di quanto avrebbe immaginato e Susan pensò che molti dovevano essere i vari amici dei membri del gruppo che però, doveva ammetterlo quando ascoltava e guardava di sfuggita, non erano affatto male.

 

“Me la daresti una birra?”

Un sorriso smagliante e due occhi vivaci richiamarono la sua attenzione mentre rimetteva ordine dietro al bancone. Quasi tutti se ne erano andati e i membri del gruppo stavano sistemando i loro strumenti. Il cantante si era avvicinato al bancone con un asciugamano sulle spalle per asciugare il sudore che gli luccicava sulla fronte.

“Certo.”

“Stanca?”

“Abbastanza … e tu? … Voi…” Chiese Susan porgendogli la bottiglia di birra e il bicchiere e accennando con la testa al resto del gruppo.

Con una smorfia sorridente dipinta sul viso il cantante la guardò iniziando a bere direttamente dalla bottiglia.

“È una stanchezza che mi piace questa … io sono Russell … Russ … o Rusty, come ti viene.” Le porse la mano per stringere la sua.

“Susan, Susie, … Sue …come ti viene.” Gli rispose stringendogli la mano smettendo per un attimo di asciugare uno dei bicchieri.

“È da molto che lavori qui?”

“Da qualche mese, ma non ci starò per sempre.”

Russell la guardò con un sorriso incuriosito, ogni tanto lei abbassava lo sguardo concentrata su quello stava facendo forse non abituata a dare troppa confidenza ai clienti al di là della semplice gentilezza che il suo ruolo richiedeva. Le sue mani erano belle e affusolate e pensava che assomigliassero più a quelle di una che suona il pianoforte piuttosto che a quelle di chi lava piatti e bicchieri per tutta la settimana.

“Che cosa stavi scrivendo?”

Con sguardo stupito e nel contempo interrogativo Susan alzò la testa guardandolo. Probabilmente doveva averla vista un istante prima mettere da parte, sotto il bancone, il suo blocco e la sua penna, ma forse si sbagliava.

“Come, scusa?” Con un gesto volto a nascondere il suo imbarazzo si sistemò i capelli dietro l’orecchio, sorrise lievemente rossa in viso.

Tenendo in mano la bottiglia di birra dalla quale bevve qualche sorso, il ragazzo fece un cenno verso lo sgabello dove poco prima Susan era seduta.

“Ti ho vista così intenta a scrivere poco fa…” la guardava con un sorriso e occhi verdi e solari, talmente intensi, curiosi e intriganti da farle abbassare lo sguardo. Quando lo sollevò nuovamente quel sorriso era sempre là, sorrise anche lei continuando ad asciugare il bicchiere che aveva in mano.

“Mi piace scrivere … quello che sento, quello che vedo …” alzò le spalle come per non dare peso alle sue stesse parole.

“Continua…”

Susan lo guardò con aria poco convinta.

“Sul serio, mi interessa.”

“Scrivo racconti, ci provo almeno. Sto seguendo un corso di scrittura creativa, lavoro qui da qualche mese per potermelo pagare e quando ho un minuto libero mi dedico ai miei racconti. Ogni tanto li mando a qualche giornale locale… sai, tanto per provare.”

“E come sta andando?”

“Diciamo che non ho ancora trovato la mia idea originale.” Lo guardò di sfuggita sorridendo.

“So che vuoi dire.”

Susan lo guardò mentre volse lo sguardo altrove e sentì all’improvviso una profonda fiducia in quello che lui le aveva appena detto. Le stesse parole pronunciate da mille altri sarebbero potute apparire casuali, ma quello sguardo e quella voce erano quelli di chi sul serio “sa cosa vuoi dire” e lo sentì vicino a sé quasi all’istante. Lo osservò a lungo mentre lui, attaccato alla sua birra, guardava, con una fessura verde azzurra negli occhi, il resto del gruppo che sistemava gli strumenti sul palco. Aveva un profilo perfetto, pensò.

“Siete stati bravi.” Aggiunse dopo.

“Grazie”

“È questo che vorresti fare tu? Il cantante in un gruppo rock?”

“Potrei farlo, secondo te?” Il suo sguardo era serio mentre la guardava dritta negli occhi. Cercava una conferma o lanciava una provocazione?

“Sì” rispose seria stavolta senza abbassare lo sguardo. Forse non stava dando una risposta affermativa solo a lui.

Russell tornò a sorridere e scosse la testa.

“In realtà … vorrei fare l’attore.”

Nei pochi minuti in cui lui le aveva parlato era riuscito a regalarle una miriade tale di espressioni diverse da lasciarle il cuore confuso; sì, non vi era alcun dubbio. Avrebbe potuto essere chi voleva.

Lo sguardo di Russell appariva sempre più interessato e Susan si sentì lusingata perché non erano molte le persone, in particolare quelle che le stavano vicine, che l’avevano presa sul serio.

“Vorrei trasferirmi a Sidney per un po’, ci sono più opportunità che a vivere fuori città. Ma gli affitti per vivere da sola sono quasi inaccessibili, per il momento.

“Dove viviamo io e Billy…” con un gesto della mano fece cenno ad uno dei membri del gruppo, che stava sistemando la sua chitarra, perché si avvicinasse “…il posto c’è. Se non hai pretese di vivere nel lusso."

“Non ho nessuna pretesa.”

“Hey Billy! … Ti presento Susie …. Susan, lui è Billy.

“Ciao Susie.”

“Ciao Billy”

“Susan cerca casa, e il nostro appartamento ha una stanza libera. Il tipo che c’era prima ha detto che c’era troppo rumore e non riusciva a studiare.” Russell le rivolse il solito sorriso. “se vuoi venire a vederlo, senza impegno…”

Susan rispose al suo sorriso. Era particolarmente incuriosita da quella serata. Parlarono tutti e tre a lungo per diverse ore ancora fino alla chiusura del locale e scoprirono di andare molto d’accordo. A Susan sembrava quasi impensabile considerando il poco tempo che avevano trascorso insieme. Suonare era la loro passione anche se Billy lavorava per un’associazione benefica di Sidney che si occupava del recupero di casi di emarginazione sociale e Russell sognava di fare l’attore; ogni tanto faceva la comparsa, tanti erano gli spot pubblicitari ai quali aveva partecipato e lavorava duramente per poter un giorno fare quello che voleva. Aveva pensato di trasferirsi per un certo periodo a Sidney, ma la sua casa era fuori città. Lontano da ogni sorta di rumore e disturbo, immerso nel verde e nella natura insieme alla sua famiglia e ai suoi animali: mucche, cani, cavalli.

Per quanto assurda fosse stata la dinamica con la quale si erano conosciuti Susan andò a vedere l’appartamento in cui vivevano e dopo una settimana si era già trasferita.

Non ci volle molto perché tutti e tre diventassero amici. La gente nella vita di Susan aveva sempre finito col disperdersi qua e là e lei aveva imparato ad apprezzare molto anche la sua solitudine; aveva finito persino col vedere qualcosa di romantico nel fatto che molti di loro fossero solo di passaggio nella sua vita. Ma per quanto fosse un po’ un vagabondo come lei, Russell era sempre stato in qualche modo presente. Lui tornava sempre e ritrovarlo anche a distanza di mesi non aveva mai creato un problema di comunicazione fra loro, si volevano bene e trascorrevano molto volentieri il tempo insieme. In pochi mesi avevano subito scoperto un’intesa particolare, era accaduto spesso che, dopo che Susan era tornata dal lavoro, anche a tarda notte, Russell fosse in cucina a guardare fuori dalla finestra con la sigaretta accesa in mano. Non appena la vedeva sorrideva come se la stesse aspettando e da una frase casuale incominciavano a parlare per ore ed ore di qualunque cosa possibile, incuranti del sonno o del fatto che si sarebbero dovuti svegliare presto il giorno successivo. Una volta Russell l’aveva invitata a casa sua, in mezzo al verde, e Susan era rimasta affascinata da quale mondo completamente diverso facesse parte di Russell, del Russell che aveva conosciuto la prima sera. Aveva conosciuto la sua famiglia e si era gustata qualche giorno di riposo lontana dalla città. Quello era nettare puro per la sua creatività. Susan sentiva profondamente quanto lui apprezzasse la sua compagnia quando, seduti sul dondolo della veranda, innumerevoli notti, lui ascoltava i suoi racconti con un braccio che le cingeva la vita e l’altro sempre impegnato a tenere la sigaretta in mano.

Una di quelle sere, ricordava come se fosse accaduto il giorno prima, lui le sorrise guardandola dall’alto in basso e porgendole la sua sigaretta.

“Vuoi provare?”

“No, meglio di No.”

“Dai prova.”

Alla fine riusciva sempre a farsi convincere non senza smettere di credere che in parte lui lo facesse per prenderla in giro dato che il tutto finiva sempre in un soffocamento continuo tra le risate di lui e l’incessante tossire di Susan che tra le lacrime agli occhi e le smorfie di disgusto, finiva sempre col capitolare e ridere di sé stessa anche lei.

 

C’erano così tanti bei ricordi che lo legavano a lui. Le ritornò in mente il momento in cui lui, più grande di lei di un paio d’anni, aveva avuto la “malsana” idea di insegnarle a guidare. ‘Allora, tu mi cambi le marce, mentre io tengo il volante.’ Altro ricordo vivissimo, era stato divertente anche se lui spesso aveva perso la pazienza e le aveva gridato contro di tutto perché non riusciva a fare le cose come lui gliele spiegava. Certe volte aveva un caratteraccio, era davvero da prendere a sberle, ma era così carino quando le chiedeva scusa e le sorrideva con quello sguardo buffo che metteva in evidenza l’incisivo scheggiato. Si abbracciò al cuscino mentre ripensava alle sue parole all’aeroporto. ‘Se ci fosse un momento, uno qualsiasi, in cui sentirai di aver bisogno di me voglio che tu mi chiami, capito?…Dovunque tu sia, a qualunque ora del giorno e della notte, non mi interessa … qualunque sia il motivo, lo devi fare, ok? Guardami, dimmi che sai che io per te ci sarò sempre.’ Era come una piacevole musica da ascoltare e riascoltare. Era come sapere che dall’altra parte del mondo ci fosse sempre un punto di riferimento per lei e le mancava molto quel punto di riferimento … forse se lo avesse chiamato avrebbe potuto per un attimo dimenticare quanto quella giornata l’avesse fatta sentire inutile. Prese la cornetta del telefono sul comodino, ma dopo le prime tre cifre riattaccò subito. Le mancava troppo per sopportare l’eventualità che non fosse in casa.

 

 

“Hey Sue, leggi qua, cercano del personale al negozio di videocassette a Brooklyn”. Comodamente sdraiata sul divano Michelle stava scorrendo gli annunci del giornale. “… la paga è buona”

“Fa vedere …”

“Il quartiere lo conosco, è pieno di italiani, … gente simpatica!”

“Li chiamo subito”

“Frena … qui dice di presentarsi di persona … forse vogliono vedere se hai la faccia da drogato o da maniaco … sai com’è …”

“Allora ci vado subito…qui c’è scritto che è aperto 24 ore su 24.”

 

Susan benedisse l’efficienza dei trasporti pubblici newyorchesi non appena sbucò, nemmeno venti minuti più tardi, dal tunnel della metropolitana che l’aveva portata a Brooklyn. Era già stata in quel quartiere e se lo ricordava bene. Grazie ad uno straordinario senso dell’orientamento che aveva preso da Russell, trovare la via che le interessava fu praticamente uno scherzo.

 

“Ti interessa il posto?”

“Sì, ho letto sull’annuncio che chiedevate di presentarsi di persona.”

“Ti fai di coca?”

La domanda lasciò Susan decisamente incredula, ma la sua risposta pronta non lo diede a vedere “No”.

“Hai altri vizietti strani … tipo fumare roba poco pulita o …”

“No, assolutamente.”

Una donna dai capelli scuri, uno scialle di lana di diversi colori avvolto su spalle massicce, che non sarà stata oltre la cinquantina, le rivolse, con un forte accento italiano, tutta un’altra serie di domande apparentemente assurde, ma alle quali Susan aveva risposto senza obbiezioni e con educazione. Sembrava che la donna, per qualche ragione che Susan ignorava, stesse sondando il terreno in modo più che diretto. Era soprattutto grazie al suo tono perentorio e severo che riusciva a capire se chi le stava davanti fosse sincero o meno: non lasciava infatti più di qualche secondo per rispondere prima di passare alla domanda successiva. Susan interpretò il suo silenzio in senso positivo, forse aveva passato il test.

La donna la guardò con aria diffidente. Riprese dopo una pausa.

“Tu non sei di qui, di dove sei?”

“Australiana … abito non lontano da Sidney.”

La donna si limitò ad emettere un suono con le labbra in segno di assenso.

“Seguimi … qui ci vanno i film d’epoca, sono tutti divisi per genere e messi in ordine alfabetico, da quella parte ci sono i film di cassetta, da quella le nuove uscite. Vedi di non confondere le cassette perché altrimenti ci rimani tu dopo la chiusura a rimetterle a posto … ah non sono ammessi ritardi, altrimenti sei fuori.”

Così come le si era presentata così sparì. Susan rimase per un attimo immobile dove la donna l’aveva lasciata. Si guardò intorno per un attimo non convinta che quell’episodio fosse avvenuto. Una voce alle sue spalle la riportò alla realtà.

 

“Le sei simpatica.”

Susan si voltò di scatto: un ragazzo dai capelli scuri, alto, con gli occhiali e una pila di videocassette in braccio era sbucato da chissà che altro dove. Con visibile difficoltà le porse la mano in segno di saluto, ci mancò poco che tutte le videocassette cadessero per terra.

“Aspetta, ti aiuto.”

“Grazie … fa la scontrosa, ma è tutta apparenza, credimi, le sei piaciuta.”

“Mi chiedo come mi avrebbe trattata se non le fossi piaciuta.”

“Fa così perché non sai che gente le è capitato di assumere tempo fa …”

“Assumere?”

“Sì perché?”

“Vuoi dire che…” Susan con sguardo incredulo fece un gesto con la mano indicando la porta dietro la quale la donna era sparita.

“Certo, sei dei nostri! Io sono Jeremy, benvenuta in America!”

“Susan, piacere di conoscerti.”

“Che ci fai qui?”

“Diciamo che sono tornata dopo una pausa di qualche anno a casa mia. Ho studiato per sei mesi in un liceo vicino a New York e ora sono qui … diciamo per una mia idea.”

“Quale idea.”

“Scrivere.”

“Vuoi fare la scrittrice?”

“Ci provo.”

“Bè, allora … buona fortuna e …bentornata in America.”

“Lei è la padrona?”

“È tutta roba della famiglia.”

“Famiglia?”

“È mia madre.” Disse strizzandole l’occhio.

Susan gli sorrise e ringraziò il cielo che aveva frenato il suo impulsivo desiderio di lasciarsi andare in ulteriori commenti su quella donna dall’aspetto bizzarro. Per uno strano senso di calore trasmessole dal sorriso cordiale di Jeremy si sentì all’improvviso di nuovo accolta in un paese così lontano da casa.

 

Susan era entusiasta di come le stavano andando le cose, nonostante fosse impegnata dal mattino alla sera amava tutte quello che stava facendo. Jeremy l’aveva aiutata molto i primi tempi e nonostante sua madre, JoeAnn, non parlasse molto e quel poco che diceva lo esprimeva a monosillabi perentori, era contenta di averci visto giusto assumendo quella ragazza. Era volenterosa, sempre puntuale, attenta ed entusiasta. A volte si chiedeva addirittura dove trovasse tutta l’energia che aveva in corpo. Spesso era lei a chiudere il negozio, la guardava mentre se ne stava seduta su uno sgabello, forse troppo alto per lei, dietro al banco della cassa. Quando non era occupata a servire qualche cliente o a mettere ordine sugli scaffali, la vedeva sempre intenta a scrivere su dei quaderni.

“Che cosa scrivi, bambina … il tuo diario segreto?”

“No” rispose con un sorriso cordiale, non intenzionata a lasciarsi andare in nessun tipo di conversazione con una donna che non le aveva mai dato l’impressione di voler occupare il tempo in chiacchiere.

“Di che si tratta? Lettere d’amore?”

“Racconti … idee che mi vengono, niente di importante.”

“Se sono cose tue devono per forza esserlo.”

Susan percepì un insolito atteggiamento cordiale, quasi materno nei suoi confronti e rispose annuendo con un sorriso.

“Jeremy mi ha detto che vorresti fare la scrittrice … voi giovani, … ne avete di idee per la testa, ma è bello sognare finché se ne ha l’occasione. Anzi, bisogna sognare in grande per sperare di cogliere almeno un sogno piccolo.” Riprese “Di’ un po’, i tuoi genitori ti hanno lasciata venire qui tutta sola?”

“Diciamo che in Australia si tende ad incoraggiare l’indipendenza dei figli.”

“Già, lo so. Io sono di origine italiana, nata qui, ma cresciuta secondo la mentalità di mia madre venuta qui molti anni fa. Lei veniva da un paese dell’Abruzzo. Conosci l’Abruzzo?”

Susan scosse la testa.

“Lo immaginavo.” JoeAnn sembrò per un attimo essersi persa nei ricordi dei racconti di sua madre quando pronunciò quelle parole con uno strano senso di nostalgia, ma proseguì.

“Non ti manca casa tua? Non hai un fidanzato?”

“No, non ho … tempo per un fidanzato.” Abbassò lo sguardo verso i suoi appunti, lievemente intimidita; aveva sentito molto la mancanza dei momenti in cui poteva parlare ed aprirsi con qualcuno che la volesse ascoltare, che le chiedesse di lei e per la prima volta sentì del sincero affetto nei confronti di JoeAnn, solo in apparenza burbera e taciturna. Tutte quelle domande le fecero capire che in tutti quei mesi non era stata per lei solo una presenza invisibile nel suo negozio.

“ Mia nonna diceva sempre ‘Trova la persona che ti fa ritrovare te stessa nei suoi occhi ed ecco che avrai tempo per un fidanzato’ ” disse strizzandole l’occhio, con un sorriso assolutamente privo di malizia, come se per chissà quale strano potere, fosse riuscita a leggere, dentro di lei, qualcosa di cui solo lei conosceva il significato. La neve che incominciò ad imbiancare le strade di Brooklyn segnavano l’avvicinarsi del secondo Natale che Susan avrebbe trascorso in quella città.

 

Dicembre 1990: "un posto tutto mio."

Era passato quasi un anno da quando Susan era tornata a New York. Michelle stava meditando di andare a vivere con il suo ragazzo Jimmy e lei aveva deciso che fosse arrivato il momento giusto di cercarsi un posto tutto suo. Aveva messo da parte abbastanza per potersi permettere tranquillamente di pagarsi una camera e magari qualcosa in più.

“Nel nostro condominio c’è un appartamentino, è ancora libero se ti può interessare. La zona è molto tranquilla e nessuno ti disturberà, la padrona è simpatica, se vuoi lo puoi venire a vedere.”

Susan accettò senza esitazione. Il posto era incantevole e c’era tutto quello di cui Susan aveva bisogno, soprattutto tanta luce, cosa alla quale non avrebbe mai saputo rinunciare. Si trasferì poco dopo Natale e festeggiò a Gennaio con una cenetta invitando qualche amico tra i quali Michelle, Jimmy e Jeremy.

“Porta chi vuoi, mi raccomando.”

 

“Jeremy si presentò con un ragazza molto carina, aveva i tratti molto marcati e lunghi capelli castani, labbra carnose e occhi scuri appesantiti da un trucco che più che essere segno di eccessivo esibizionismo, sembrava voler ostentare un’aggressività e spavalderia non sue.

“Lei è Sabrina, vive sul nostro piano … Sabrina lei è Susan, la ragazza australiana di cui ti ho parlato.”

Si presentarono e Sabrina, nell’incrociare lo sguardo di Susan, per un attimo, sembrò abbassare la guardia. La cena si svolse nel migliore dei modi. Durante l’anno Jeremy aveva insegnato a Susan le ricette preferite di sua madre e lei era riuscita a stupire tutti. Era un bravo ragazzo, studiava all’università letteratura e sognava di diventare giornalista, non appena aveva un minuto libero lavorava nel negozio di famiglia. Lui e Sabrina erano molto amici e per un attimo, nella spontaneità del loro rapporto, vide quella di lei e Russell. Era passato così tanto tempo da quando l’aveva salutato all’aeroporto e nonostante fosse sempre molto impegnata, nei momenti in cui aveva un attimo di pausa per pensare a se stessa, il più delle volte pensava a lui, a come stesse, a cosa stesse facendo e soprattutto se stesse bene. Più volte aveva tentato di chiamarlo. Ma non era mai riuscita ad andare oltre le prime cifre del suo numero di telefono prima di riattaccare nuovamente. Cercò di concentrarsi sul presente; quando anche l’ultimo degli amici se n’era andato si guardò attorno sospirando soddisfatta.

“Finalmente ho un posto tutto mio.”

 

 

Nei mesi che seguirono anche Sabrina e Susan erano diventate amiche. Susan non si era sbagliata; quella di Sabrina era solo una facciata: era aggressiva, scontrosa, non usava mai mezzi termini né eufemismi per esprimere un’opinione o dire ciò che pensava, ma lo faceva per difendersi e Susan ne ebbe la conferma la sera in cui, dopo ormai mesi che si conoscevano e vivevano nello stesso condominio, lei la invitò a cena nel suo appartamento. Susan si presentò puntuale come sempre e una volta entrata pensò immediatamente di essere finita nel bel mezzo di un campo di battaglia. C’erano giocattoli sparsi ovunque sul pavimento del salotto, riviste sul divano e un’immensa pila di vestiti e vestitini da stirare. Sabrina, così dedusse Susan, le aveva aperto la porta, ma subito dopo era schizzata via dopo averle lanciato un frettoloso “accomodati!”

 

“Marlon! Non mi fare arrabbiare che stasera non è serata! Devi farti il bagnetto, non fare storie o le prendi!”

Una vocina da sotto il divano gridò con tutta la forza che due piccoli polmoni infantili potevano avere:

“No!”

“Marlon, stai facendo una pessima figura davanti alla nostra ospite … sei un bambino cattivo!”

“No!”

Esasperata oltre ogni limite Sabrina non la smetteva di urlare.

“Marlon è la volta che le prendi! Dico sul serio! … Susan scusami, fa così perché gli ho detto che saresti venuta tu … deve sempre farmi incazzare!”.

Sabrina si allontanò per un attimo e Susan rimase sola nella stanza, si avvicinò al divano e si chinò leggermente. Non appena ebbe sollevato il copridivano si trovò davanti il musetto sorridente di una bambino che non avrà avuto più di quattro anni. Biondo con vispi occhi celesti. Susan gli sorrise e gli strizzò l’occhio.

“Ciao!”

Per tutta risposta il bimbo gli mostrò la lingua.

Susan spalancò gli occhi fingendosi scandalizzata e per tutta risposta il bambino scoppiò in un’impertinente risata.

“Tu sei Marlon? … Io sono Susan … te lo posso svelare un segreto?”

Incuriosito il bambino rispose

“Quale?”

“Anche io odio fare il bagnetto … ma se vieni fuori ti prometto che ti racconto una storia.”

“Quale?”

“Quella che preferisci.”

“Ci sono i mostri?”

“Ti piacciono i mostri?”

“Sì, quelli che mangiano le femmine!”

“Ma che mostri cattivi!”

“Non è vero!”

“Bè, le mie storie non hanno i mostri … però hanno i canguri.”

“I canguri?”

“… e i koala …”

“Dimmene un pezzo …”

“Prima devi promettermi che uscirai da lì …”

“No!”

“Allora niente canguri.”

Susan si alzò in piedi e incominciò a passeggiare per la stanza sicura che la curiosità del bambino sarebbe stata più forte del suo orgoglio infantile. Non si sbagliò: qualche secondo più tardi Marlon sgattaiolò fuori da sotto il divano con i capelli tutti arruffati. Sabrina tornò in salotto con passo deciso e rimase immobile con sguardo incredulo.

“Dimmi come hai fatto … dimmi come ci sei riuscita?”

“Piccoli trucchetti … il solito ricatto” le disse pronunciando la seconda parte della frase con un tono più basso e divertito.

“Comunque grazie … e tu adesso vieni, che mi hai già fatto perdere la pazienza.”

Prese Marlon di peso in braccio mentre lui cercava di divincolarsi.

“Voglio i canguri ... avevi promesso!” gridò puntando un dito verso Susan la quale assisteva divertita alla scena.

“Dopo il bagnetto arriveranno anche i canguri.”

“No, subito!”

 

La serata si concluse tranquillamente, messo il bambino a letto dopo il tanto sofferto bagnetto, Sabrina riordinava in cucina mentre Susan manteneva la sua promessa. Marlon sembrava rapito dalle storie che grazie alla fervida immaginazione di lei prendevano vita e forma come se fossero stati cartoni animati.

“Ancora.”

“La prossima volta … adesso dormi.”

“No.”

“Marlon … guarda che anche i canguri devono dormire.”

“La prossima volta voglio che i canguri mangino le femmine.”

Susan rise divertita. “Sarai accontentato … buona notte, adesso dormi”.

 

“Come ci riesci?”

Susan e Sabrina erano ritornate in salotto e si erano sedute godendosi finalmente la loro tranquillità.

“I bambini mi piacciono molto.”

“Le tue storie sono bellissime … hai mai pensato di scriverle?”

“Continuamente.”

“Jeremy me l’ha detto … che vuoi fare la scrittrice … hai già pubblicato qualcosa?”

“Ci sto provando … Marlon è un bambino bellissimo.”

“Già…come quel bastardo di suo padre! … Ogni volta che lo guardo mi sembra di rivedere lui, cazzo.”

Susan pensò di aver toccato un tasto dolente, ma Sabrina sembrava avere voglia di aprirsi con lei. Il solito aspetto aggressivo non esisteva senza il trucco pesante dietro al quale si nascondeva e così, seduta sul divano, con le gambe piegate sotto alle natiche, appariva dolce e vulnerabile, incapace di cancellare il dolore di un’esperienza che l’aveva fatta crescere in fretta e che l’avrebbe accompagnata ogni giorno.

“Ho lasciato che a scegliere il nome fosse mia madre … è fissata con Marlon Brando … a me ha chiamato così per via del film … non che io e la Hepburn abbiamo la stessa faccia … ma ci si può sempre illudere.” Tirò una boccata dalla sigaretta.

Susan sorrise ascoltandola in silenzio.

“… ad ogni modo, eccoci qua, io e lui ... ma ce la caviamo benissimo. Se non fosse stato per mia madre, però … e soprattutto per Jeremy …”

“Che ne è del padre?”

“Padre? Bè, sai com’è…succede che un bel giorno dici al grande amore della tua vita, che per altro ha giurato solo un attimo prima di amare solo te e che non amerà nessun altra bla bla bla, che sei incinta, e per tutta risposta lui ti chiede il test del DNA. Diciamo che non è esattamente la prova d’amore che ti aspetteresti … lo vuoi un consiglio? Non credere mai, mai alle promesse preorgasmiche di un uomo! … E così mi sono ritrovata incinta e siccome non credo nell’aborto ho deciso di tenerlo … Il guaio è che a quell’età pensi di essere invincibile … fai cazzate senza renderti conto che stai giocando col fuoco, e adesso Marlon ne paga le spese: non ha un padre e questo perché sua madre è stata un’idiota!”

“Tu non hai proprio nulla da rimproverarti, hai fatto una scelta coraggiosa e questo fa di te una buona madre. Credimi, dovresti essere orgogliosa, sul serio.”.

“A volte penso che se non ci fosse stato Jeremy forse non ce l’avrei fatta. Jeremy è il migliore amico che una donna potrebbe desiderare … a volte mi chiedo … se sia davvero un uomo.” Rise divertita accendendosi un’altra sigaretta. Susan non smetteva di ascoltarla.

“Mi ha aiutato lui per quasi tutto il periodo della gravidanza, sarei stata persa senza di lui.”

Susan sorrise e quelle ultime parole la portarono lontano.

“Che c’è? … Scusa, parlo troppo.”

“No figurati, è solo che quando parli di te e Jeremy, mi viene in mente un mio amico e il rapporto che avevo con lui.”

“Uno in Australia?”

“Sì.”

“Siete rimasti in contatto?”

“A dire il vero è da un po’ … più di un anno che non lo sento. Un sacco di tempo. È un po’ impegnato, è difficile trovarlo in casa.”

“E da quanto tempo ne sei innamorata?”

Susan spalancò gli occhi colpita dalla schiettezza di quella domanda.

“Come dici?”

“Ti brillano gli occhi quando parli di lui, riconosco i sintomi.”

“No, non sono innamorata” sorrise abbassando gli occhi come accadeva ogni volta che si sentiva imbarazzata e sopraffatta dalla sua stessa timidezza.

“Lo conosco da tanto tempo, gli voglio molto bene, questo è sicuro. E poi … a lui piacciono le bionde … me lo ha detto una sera mentre parlavamo di gusti estetici e cose così.

“L’hai baciato?”

Distrattamente cercò di guardare altrove provando ad evitare la risposta, ma gli occhi di Sabrina erano puntati su di lei e non la abbandonavano nel loro fare inquisitorio.

Susan la guardò e rise imbarazzata, di fronte al suo sguardo serio.

“Allora?”

“Bè … una volta sola, ma eravamo all’aeroporto, stavo partendo, è stato un bacio d’addio più che altro, niente di che...”

“Ma baciava bene.” Affermò con tono sicuro.

Dopo un istante di silenzio eloquente fu Sabrina a rispondere per lei.

“Ho capito, è uno che ci sapeva fare, cazzo.”

Si guardarono e sorrisero all’unisono come due adolescenti ad un pigiama party.

“Sì, decisamente ….”

“Nome?”

“Russell”

“Un bel nome sexy.”

“Ma ... Sabrina!”

“Cosa … insomma, non lo senti mentre lo dici?”

“Non ci ho mai fatto caso.”

“Devi venirmi a trovare più spesso … che fa nella vita il tuo amico?”

“Di tutto un po’, ha un ranch, suona e canta in un gruppo, ma vorrebbe fare l’attore … ha talento, ce la potrebbe fare. Penso che potrebbe fare tutto quello che vuole.” Guardò fuori dalla finestra, lontano nel pronunciare quella frase.

 

 

Susan fu molto felice di quella serata, lei e Sabrina avevano scoperto grandi affinità e nel tornare a casa prima di coricarsi, ripensò a tutto. A lei e Jeremy, al piccolo Marlon e a Russell. Era vero, era passato così tanto tempo e non si erano più parlati. Gli mancava, lo aveva notato non appena aveva parlato di lui con Sabrina. Tante volte aveva ripensato al giorno della sua partenza in aeroporto, a lui corso da lei per salutarla. Si era spesso chiesta fino a che punto potessero avere valore delle parole pronunciate al momento di un addio. Le emozioni sono tante, i sentimenti, forse, portati volutamente all’estremo, ma solo per pochi istanti, perché si pensa che siano gli ultimi; in realtà, tornati alla routine di ogni giorno, quelle promesse appaiono come dissolte, non più presenti. Sono tenute in vita da un ricordo, dal suo ricordo e da nient’altro. Non una prova, non una conferma. La verità era che lei non sapeva dove fosse, come stesse e che cosa stesse facendo. Forse era anche lui uno dei tanti di passaggio, sebbene le facesse male il solo pensarlo. Forse doveva smettere di pensare a lui o a quanto speciale potesse essere un rapporto con una persona che aveva preso chiaramente una strada diversa dalla sua. Gli mancava? Sì, gli mancava il ricordo di lui, quello che di lui c’era nel suo cuore; ma Russell, quello lontano, non c’era e avrebbe dovuto accettarlo e continuare con quello che la sua vita, quel presente, il suo lavoro e le persone lì con lei in quel momento le stavano dando. Spense la luce sul comodino, dopo aver scritto tutto quell’incessante e incontrollabile flusso di pensieri. Chiuse gli occhi e si addormentò scendendo definitivamente dalle nuvole che l’avevano portata da Sidney a New York e disse addio al suo passato.


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