Russell Crowe sulle riviste italiane... e non

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C'era una volta un sito... dalle pagine di crowie, "Il Gladiatore", raccolta di articoli vari, 2000

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Russell Crowe
Il Gladiatore
 
 
Il dipinto che ha ispirato il film Il Gladiatore
 
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Da Il Messaggero del 19.05.2000

Il Colosseo come la Casa Bianca: ”Gladiator” combatte la sua guerra politica fra tigri e bighe

NEI MOMENTI cruciali Maximus si china, raccoglie una manciata di terra, se la strofina fra le mani, a lungo, con calma. E’ il gesto che caratterizza l’eroe di Il gladiatore, e sarebbe bello sapere se è un’idea degli sceneggiatori o dell’interprete Russell Crowe, perché è uno di quei dettagli che fa il personaggio. Il generale Maximus è un contadino. Anche se in apertura stermina i barbari a colpi di catapulte e di frecce incendiarie; anche se l’imperatore Marco Aurelio (un regale Richard Harris) vuole metterlo sul trono, Maximus, che in tanti anni di battaglie non ha mai visto Roma, sogna solo la sua casa fra i campi di grano, la moglie, il figlioletto. Che poco dopo vedremo trucidare da soldati a cavallo, come in un western. Il valoroso Maximus insomma è un uomo giusto. Solo gli intrighi di Commodo (Joaquin Phoenix), figlio di Marco Aurelio, corrotto, parricida, innamorato della sorella (Connie Nielsen), lo costringono all’azione. E azione sarà.

Venduto come schiavo, formato alla dura scuola dei gladiatori in Africa, Maximus torna a Roma da campione. Non per riprendersi il trono, che non gli interessa, ma per vendicarsi. Come gli eroi dei vecchi western, che rispettavano la storia americana quanto Il gladiatore di Ridley Scott rispetta quella romana, cioè pochissimo. Perché stupirsi, del resto? Antica Roma al cinema è sinonimo di metafora. Qui, come in un controcampo a  Ogni maledetta domenica, si allude alla politica-spettacolo, al divismo dei campioni d’oggi, alla solitudine dell’America, unica potenza imperiale rimasta. Ma le platee, oggi come ieri, vogliono circenses. E ne avremo con ritmo, inventiva e dovizia di mezzi davvero inusitati. Maximus sfiderà Commodo nell’arena fra tigri, botole, bighe, armi di ogni foggia e dimensione, folle eccitate e plaudenti, in un mix micidiale di politica, alcova, violenza, che fa del Colosseo un incrocio fra Hollywood, la Cnn e la Casa Bianca. Misura e finezza non saranno il suo forte. Ma è dai tempi di Thelma e Louise che Ridley Scott non ci dava un film così robusto e coerente.
 

Da Il Corriere della Sera del 19.05.2000

"Il Gladiatore", tutti gli errori del kolossal
Il film di Ridley Scott visto dagli esperti di combattimento: falsi storici, armi sbagliate

Gladiatori reali contro gladiatori di celluloide. Arriva oggi in Italia "IL Gladiatore", il kolossal di Ridley Scott sulla Roma imperiale in testa al box office americano con oltre 150 miliardi di lire d'incassi.

Dopo le anteprime si è già scatenata la caccia al 'falso storico', all'errore. Gli studiosi criticano la coerenza fra storia e Storia, in Internet gli appassionati puntano il dito sugli anacronismi. "Dal punto di vista dello spettacolo il film è bellissimo, da quello storico è zeppo di errori" spiega Dario Battaglia, presidente dell'istituto 'Ars dimicandi' che a Curno (Bergamo) ha creato la prima scuola per gladiatori moderni.

Errore numero uno: "Gli equipaggiamenti e le armi utilizzate: nel film non c'e' un gladiatore che corrisponda alle figure storiche". Errore numero due: "Nell'antichità i gladiatori erano suddivisi in sei gruppi differenti in base alle armi: i duelli si facevano soltanto fra categorie definite per avere un equilibrio tecnologico. Nel film questo non è rispettato". Insomma come se oggi facessimo correre una Formula 1 contro una macchina da rally. Bocciate anche le tecniche di combattimento: "La scherma è arbitraria, Maximus muove la spada come si usa fare nelle specialità orientali o medievali: gesti ampi e fioriti, mentre quelli dei gladiatori erano più secchi e nervosi". E ancora "non si è mai visto un gladiatore scontrarsi come accade nella pellicola con animali feroci, quello era compito dei venatori".

Il cinema non ha mai trattato bene la categoria. L'elenco di imprecisioni finite sul grande schermo è sterminato. "In 60 film - aggiunge Battaglia - non c'è una rappresentazione azzeccata. Anche Kubrick con 'Spartacus' ha sbagliato e i suoi passi falsi sono più gravi perchè il suo voleva essere un film storico, mentre in quello di Scott è evidente l'aspetto fantastico". A voler essere pignoli anche i colori "troppo scuri e neutri" hanno poco a che fare con quelli della Roma imperiale, ma forse, aggiunge Battaglia (e Scott ringrazia), "sono un espediente per far risaltare con tonalità sgargianti i personaggi positivi come Marco Aurelio e Lucilla". Fuori dal tempo anche i tatuaggi che "all'epoca erano conosciuti solo in Tracia". Del resto lo stesso regista aveva detto, presagendo e anticipando le critiche, che non era nelle sue intenzioni "riscrivere con fedeltà una pagina dell'Impero romano".

Dibattito aperto sul sito www.ancientsites.com sulle incongruenze storiche. La più grave sembra quella di avere attribuito a Marco Aurelio la volontà di tornare alla Repubblica. Commodo, figlio dell'imperatore, non morì certo ucciso da Massimo nell'arena, ma strangolato dalle sue guardie e l'iconografia lo tramanda con il volto incorniciato dalla barba che scompare invece dal volto di Joaquin Phoenix. Altra svista le staffe: arrivarono in Occidente più tardi. Ma quello che appassiona di più è il dibattito sul pollice verso: significava parere favorevole o contrario alla condanna?

E la Roma così ben ricostruita al computer? In una scena alle spalle del Colosseo si vede uno specchio d'acqua. Nella zona c'era il lago della Domus Aurea, ma quello venne prosciugato proprio perchè lì doveva sorgere il Colosseo. E non è l'unico errore topografico. Matita blu nelle epigrafi: una scritta all'ingresso del Colosseo ricalca un motto medievale, un'altra ha un errore nella declinazione di una parola.

Andrea Laffranchi
 

IL PROTAGONISTA

Crowe nell'arena dopo i ciak con Pacino e Basinger

Scende nell'arena nei panni di Maximus: è Russell Crowe, protagonista di "Il gladiatore". Un ruolo che giunge ad un anno di distanza da un altro film che gli ha regalato la fama: "The insider" al fianco di Al Pacino, vestiva i panni di un dirigente capace di denunciare le malefatte delle multinazionali del tabacco. E nel '97 in "L.A. Confidential" accanto a Kim Basinger era un poliziotto duro dal cuore tenero. Crowe - nato in Nuova Zelanda il 7 aprile del '64 - è stato scoperto da Sharon Stone che lo ha voluto in "The quick and the dead".
 

Da Il Messaggero del 29.05.2000

Parla il protagonista del film di Scott, che anche in Italia sbanca i botteghini Crowe: io, Gladiatore vado al Maximus

di LEONARDO JATTARELLI

ROMA - Barba incolta, polo nera, fisico "palestrato". Si presenta così Russell Crowe, identico al suo Bud White, poliziotto rude dal cuore tenero di L.A. Confidential. Neozelandese cresciuto in Australia, col passaporto del divo dopo aver lavorato accanto a due stelle di nome Kim Basinger e Sharon Stone (con quest’ultima ha esordito nel western del ’95 Pronti a morire), Crowe adesso ha tutte le carte in regola per atteggiarsi a "fenomeno".
Il suo Maximus borchiato d’oro, generale-gladiatore con destino da schiavo nel colossale Gladiatore di Ridley Scott (in Italia sta sbancando i botteghini, 5 miliardi e seicento mila lire nella prima settimana), lo ha imposto definitivamente alle platee di tutto il mondo. Oggi si parla solo di lui, nuova (si fa per dire) faccia del firmamento hollywoodiano. Molti lo ricorderanno nel recente The Insider di Michael Mann nei panni del grassone (Crowe ha messo su 20 chili per interpretarlo) dottor Keffrey Wigand. Pochissimi lo rintracciano in quel Skinheads del ’91 che in qualche modo lo lanciò. Lui non se ne fa un problema: «Per me conta lavorare, ogni film è un’avventura che finisce con l’ultimo ciak - dice sorridendo e aggiunge - tutti mi chiedono perchè abbia accettato un ruolo così faticoso e pericoloso come quello di Maximus. E io rispondo che non ne avevo una gran voglia, è la verità. Ma quando mi ha chiamato un regista del talento di Ridley Scott dicendomi "Ho pensato a te. Devi essere un generale dell’impero romano", beh, non ho avuto più dubbi».
Ma chi è il suo eroe, grande stratega, valoroso combattente, costretto al ruolo di schiavodalla gelosia di Commodo, erede al trono di Marco Aurelio?
 «E’ una vittima del potere, uno che è entrato negli ingranaggi della politica del tempo e rischia di venire ucciso, schiacciato, martoriato, abbassato al rango di gladiatore. Insomma uno che ha combattuto e rischiato e ora deve uccidere. Maximus è davvero un brav’uomo».
Allenamenti da spezzare la schiena ad un elefante, ore e ore di lezioni («non ce la facevo più, qualche volta ho pensato "ma chi me lo fa fare, non stanno meglio i conducenti d’autobus?"») prese dal maestro Nicholas Powell prima del ciak, in terra d’Australia, Russell Crowe non ha dubbi: il suo Maximus che si dà in pasto a migliaia di spettatori con la bava alla bocca in un Colosseo riscotruito al computer «è’ un rugbista di oggi, altro che calciatore. Uno che prende un sacco di botte e risponde colpo su colpo. Uno che, come tanti atleti, diventa spesso il capro espiatorio di un sistema corrotto».
E il suo fascino?
«Quello del grande personaggio. Io lo adoro per questo. Avevo sempre sognato di interpretare un eroe al cinema e con Ridley ci sono riuscito».
Non ama parlare molto della sua infanzia il trentaseienne Crowe "faccia da schiaffi". Dice solo che i suoi genitori lavoravano nel cinema, «ma portavano i cestini agli attori. Mio nonno invece era direttore della fotografia. In fin dei conti, io sono stato l’unico della famiglia ad essere riuscito nell’impresa: piazzarmi davanti e non dietro l’obiettivo».
Chi l’ha spinta a lasciare l’Australia e andare a lavorare in America?
«Sharone Stone. Con lei avrei girato qualsiasi film. E’ capitato un western, e non lo rinnego».
Oggi Russell Crowe, la cui quotazione è vertiginosamente salita nel listino di Hollywood (15 milioni di dollari per averlo sul set), dopo il successo di Maximus ha un sacco di progetti, tra i quali Liberty streets con la Warner e A beautiful mind per la Universal. Lui fa finta di niente: «Un attore non si misura dai dollari che prende ma dalla passione che mette sul set. E io, pur amando le nuove tecnologie, come l’avvento del digitale, rimango della mia idea: se non ho una buona sceneggiatura, non mi sposto da casa».
 

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