INTRODUZIONE.
– Giungiamo ora ad un necessario capitolo conclusivo in cui
esaminare nel dettaglio le implicazioni giuridiche di questo nuovo
modello di diffusione e condivisione delle conoscenze e delle idee
creative. Analizzeremo dapprima i punti di attrito che esso incontra
con i principali ambiti giuridici, ci soffermeremo sulle istanze
innovative per il diritto d’autore e infine cercheremo di
tracciare un quadro prospettico delle possibili evoluzioni di questo
panorama complesso e ancora indefinito.
1.
COPYLEFT E DIRITTO PRIVATO. – Abbiamo già delineato
quali implicazioni con il diritto privato contrattuale possano avere
le licenze d’uso di software in generale, sottolineando l’atipicità
del rapporto fra autore del software (licenziante) e utente del
software (licenziatario) simile ad un rapporto di locazione del
bene-software. Tale impostazione giuridica può essere trasposta
anche sull’ambito delle licenze di software libero ed open
source che abbiamo esaminato, dato che l’oggetto del contratto
(l’uso del bene immateriale software, appunto) non cambia,
ma al massimo cambiano i limiti con cui il rapporto viene disciplinato.
Vediamo però ora di entrare nello specifico della delineazione
giuridica di questo nuovo tipo contrattuale (che è in generale
la licenza copyleft) alla luce dei principi fondamentali del diritto
delle obbligazioni contrattuali.
1.1.
IL COPYLEFT E I PRINCIPI GENERALI DEI CONTRATTI. – Il primo
aspetto è quello soggettivo: da un lato abbiamo l’autore
dell’opera, nonché titolare dei diritti di tutela e
di sfruttamento economico della stessa, e lo possiamo chiamare ‘licenziante’;
dall’altro lato abbiamo invece un soggetto ipotetico che è
utente dell’opera e destinatario dei termini del contratto-licenza
e lo possiamo chiamare ‘licenziatario’.
Per quanto riguarda l’aspetto oggettivo, abbiamo già
detto che si tratta di disciplinare mediante negozio giuridico i
termini con cui l’utente può usufruire del bene immateriale.
Si può dunque affermare che si tratta di un contratto a prestazioni
corrispettive (sinallagmatico) nel quale la prestazione del licenziante
consiste nel concedere la possibilità di utilizzare l’opera
(ed eventualmente di distribuirla, di modificarla ecc.), mentre
la prestazione del licenziatario consiste nel non fare ciò
che non viene espressamente autorizzato dall’altro soggetto
(obbligo di fare e di non fare).
Dal punto di vista della formazione del consenso, si può
correttamente fare riferimento alla disciplina istituzionale dei
cosiddetti contratti standard o ‘per adesione’, così
come delineata dal manuale di Torrente e Schlesinger: la licenza
copyleft sarebbe così equiparata a quei “contratti
di massa che un’impresa conclude con un gran numero di persone”
(come ad esempio i servizi telefonici, i servizi bancari ecc.).
Come chiariscono gli artt. 1341 e 1342 del codice civile, le condizioni
generali del contratto sono predisposte da uno solo dei due contraenti,
ma “sono efficaci solo se la parte che le ha predisposte abbia
fatto in modo di garantire che l’altro contraente, usando
l’ordinaria diligenza, sarebbe stato in grado di conoscerle”[234]
.
Alcuni autori si sono espressi per un’assimilazione delle
licenze come la GPL alla disciplina delle shrink-wrap licenses,
ovvero le cosiddette licenze a strappo[235] : licenze d’uso
di software che equiparano la rottura fisica della confezione del
prodotto ad un’accettazione in toto dei termini del contratto,
creando così una situazione paradossale dato che, nella maggior
parte dei casi, l’utente non può conoscere l’intero
complesso delle clausole dato che esse sono visibili solo all’interno
della confezione. Non è un caso che sia in Italia che all’estero
si sia stigmatizzata questa prassi alla luce dei principi di tutela
contro le clausole vessatorie[236] , principalmente per la carenza
del requisito della ‘conoscibilità per mezzo dell’ordinaria
diligenza’. Nel caso di opere multimediali o comunque trasmesse
in via telematica e quindi in forma immateriale, non si può
certo verificare una fase di vera e propria rottura della confezione,
ma piuttosto si potrebbe ravvisare tale passaggio, ad esempio, nell’atto
di downloading (acquisizione telematica) dell’opera.
Tuttavia, nonostante i dubbi di validità di contratti basati
su una sorta di esternazione automatica dal consenso, la maggior
parte delle licenze (ad esempio tutte le CCPL, nella loro versione
‘legal code’), riportano un disclaimer (avvertenza)
preliminare che sembra proprio fare riferimento ad una sorta di
automaticità: “Con l’esercizio di qualsiasi diritto
qui di seguito esplicato derivante dall’opera, tu accetti
e ti obblighi a rispettare i termini della presente licenza. Il
licenziante concede a te i diritti qui contenuti in virtù
dell’accettazione da parte tua dei termini e delle condizioni
suddette.” [237]
Un altro tipo di clausola giudicabile come vessatoria è quella
(tipica del copyleft ‘autentico’ prediletto da Stallman)
dello ‘share alike’ ovvero dell’obbligo di trasposizione
ad libitum dei diritti contenuti nella licenza; caratteristica che
in un certo senso soffoca con tale automatismo la capacità
di scelta del contraente.
I problemi derivanti dalla prospettata vessatorietà di certe
clausole sarebbero risolvibili mettendo l’utente-licenziatario
nella condizione di poter diligentemente conoscere i termini del
contratto prima di acquisire l’opera. Per esempio, nel caso
di opere copyleft scaricate da siti e archivi Internet, basterebbe
che, prima di effettuare il download dell’opera, appaia in
modo visibile un disclaimer che avverta sinteticamente sui termini
della licenza ed eventualmente rimandi al suo testo integrale per
dubbi e chiarimenti; similmente a quanto accade per i siti vietati
ai minori, per i quali vi è l’obbligo (anche se non
universalmente osservato) di avvisare il navigatore del contenuto
potenzialmente offensivo e volgare delle pagine richieste.
A tal proposito si veda la dottrina e la normativa relativa alle
cosiddette ‘informazioni sul regime dei diritti’, tema
diventato molto rilevante ora che i modelli di distribuzione si
fanno sempre più complessi e disparati. La direttiva europea
92/59/CE, relativa alla sicurezza generale dei prodotti, ma che
in via estensiva possiamo riferire anche alle opere dell’ingegno
in quanto prodotti editoriali, all’art. 3 “sancisce
l’obbligo del produttore di fornire al consumatore le informazioni
utili alla valutazione ed alla prevenzione dei pericoli derivanti
dall’uso normale, o ragionevolmente prevedibile, del prodotto,
se non immediatamente percettibili senza adeguate avvertenze”
[238] .
Oltre ai principi sull’aspetto consensuale dei contratti standard
in generale, il diritto privato italiano prevede una disciplina
specifica per una categoria ancora più ristretta di tale
tipo contrattuale: ci riferiamo agli artt. 1469 bis e seguenti del
codice civile riferiti ai cosiddetti contratti coi consumatori.
Si tratta di una serie di specifiche tutele resa necessaria dalle
nuove modalità (sempre più invasive) di diffusione
e reclamizzazione dei beni, le quali spesso pongono il singolo consumatore
in una posizione svantaggiata rispetto alle grandi strategie di
marketing messe in atto dalle imprese e dagli operatori del mercato;
tali tutele si aggiungono appunto a quelle già previste dagli
artt. 1341 ss. i quali rendono invalide le clausole che eludono
i principi di salvaguardia della buona fede in fase di formazione
della volontà contrattuale.
Detto questo si capisce in che modo anche l’assimilazione
a tale tipo contrattuale, benché utile per la comprensione
giuridica del fenomeno, risulti non del tutto appropriata. Per prima
cosa vacillerebbe la ratio dell’applicazione di questa particolare
disciplina visto che nel caso delle licenze copyleft l’utente
dell’opera non si troverebbe affatto in una posizione di svantaggio
rispetto a quella dell’autore; inoltre tale normativa si applica
“solo ai contratti conclusi tra il consumatore ed il professionista,
intendendosi per consumatore la persona fisica che agisce per scopi
estranei all’attività imprenditoriale o professionale
eventualmente svolta […] e per professionista la persona fisica
o giuridica […] che, nel quadro della sua attività
imprenditoriale o professionale, utilizza il contratto”[239]
; e infine gli artt. 1469 bis ss. sono concepiti per regolare un
ambito commerciale di scambio di beni prevalentemente dietro corrispettivo
in denaro, mentre le licenze copyleft attengono alla diffusione
di opere dell’ingegno e generalmente a titolo gratuito.
In ultima analisi bisogna considerare alcune caratteristiche delle
licenze che le avvicinano per i loro effetti alla categoria negoziale
delle promesse al pubblico: si tratta di quelle dichiarazioni unilaterali
che risultano vincolanti per il loro emittente non appena sono rese
pubbliche[240] . Consideriamo il caso in cui un autore abbia diffuso
un’opera sotto licenza copyleft con permesso di modifica,
ma successivamente si penta della sua scelta e voglia cambiare il
regime di tutela della licenza vietando la realizzazione di opere
derivate. I licenziatari che però abbiano già ricevuto
una copia dell’opera con un chiaro riferimento all’originario
regime di licenza potranno legittimamente usarla per realizzarne
opere derivate, dato che agirebbero in totale buona fede e non potrebbero
diligentemente risalire alla mutata volontà del licenziante.
1.2.
IL COPYLEFT E I CONTRATTI DI DIRITTO D’AUTORE. – Consideriamo
ora la possibilità di incanalare le licenze copyleft nei
modelli contrattuali classici del diritto d’autore italiano,
contemplati dal Titolo III, Capo II della legge 633/1941 (l.a.)
rubricato “Trasmissione dei diritti di utilizzazione”;
ci soffermiamo sulle norme della Sezione III dedicata al contratto
di edizione e della successiva sezione IV sui contratti di rappresentazione
ed esecuzione.
Secondo l’art. 118 l.a. il contratto di edizione è
“il contratto con cui l’autore concede ad un editore
l’esercizio del diritto di pubblicare per le stampe, per conto
e a spese dell’editore stesso, l’opera dell’ingegno”.
Già da questa prima laconica definizione possiamo rilevare
alcune non sottovalutabili incongruenze col modello copyleft. Per
prima cosa, dal lato soggettivo, abbiamo più volte specificato
che il rapporto regolato dalla licenza copyleft riguarda l’autore
e l’utente, lasciando totalmente estraneo l’editore;
potremmo addirittura ipotizzare che una delle funzioni primarie
di tutto il sistema del copyleft è proprio la modifica degli
stereotipi soggettivi del diritto d’autore che vedono l’editore
come fulcro delle trattative contrattuali sui diritti d’utilizzazione
dell’opera: l’autore che sceglie il modello copyleft
lo fa principalmente per evitare l’intermediazione di altri
soggetti nella fase di pubblicazione, cosa che è resa possibile
(e consigliabile) grazie al nuovo universo telematico e digitale.
Inoltre l’art. 118 fa esplicito riferimento alla pubblicazione
a mezzo stampa, quando nel caso di opere copyleft, diffuse quasi
esclusivamente in formato digitale, la pubblicazione cartacea invece
sopraggiunge come fase solo successiva ed eventuale. E d’altronde
né la giurisprudenza né la dottrina si sono ancora
espresse in modo uniforme su un’equiparazione giuridica fra
la stampa (tradizionalmente intesa) e le nuove possibilità
offerte dall’interconnessione telematica[241] .
Secondo l’art. 136 il contratto di rappresentazione (e per
analogia anche quello di esecuzione) è “il contratto
con il quale l’autore concede la facoltà di rappresentare
in pubblico un’opera drammatica, drammatico-musicale, coreografica,
pantomimica o qualunque altra opera destinata alla rappresentazione”.
In questo caso bisogna ammettere che l’applicazione in via
analogica di questa definizione al modello di licenza copyleft risulta
meno forzata, soprattutto per il fatto che gli artt. 136 ss. non
fanno preciso riferimento ad un soggetto con caratteristiche standardizzate
come l’editore, bensì ad un più generico ‘concessionario’,
concetto che si può meglio assimilare a quello di ‘licenziatario’
dell’opera copyleft. Bisogna però anche tener presente
il tenore piuttosto settoriale della definizione di ‘opera
destinata alla rappresentazione’, che, nonostante la formula
di apertura (“qualunque altra opera destinata alla rappresentazione”),
lascia scoperta tutta la gamma (decisamente rilevante) delle opere
puramente letterarie e documentali diffuse sotto copyleft.
1.3.
CONSIDERAZIONI SINTETICHE. – In via di sintesi possiamo quindi
constatare che la licenza copyleft non è stabilmente inquadrabile
in una delle tipologie contrattuali previste dal diritto privato
in generale, ma tuttavia è possibile delinearne le caratteristiche
giuridiche alla luce dei principi generali[242] : abbiamo dunque
a che fare con un contratto atipico, sinallagmatico, standardizzato,
a titolo (solitamente) gratuito, di tipo consensuale, di durata,
che ha ad oggetto una serie di obblighi di fare (per es. l’obbligo
di ulteriore condivisione, ‘share alike’) e di non fare
(per es. l’obbligo di non apporre modifiche, ‘no derivs’),
stipulato da un soggetto determinato (l’autore) e uno indeterminato
ma determinabile (l’utente). Tale tipo contrattuale presenta
alcuni problemi dal punto di vista soggettivo e soprattutto in fatto
di formazione del consenso di una parte, che però possono
essere ovviati applicando alcune comuni cautele.
2.
COPYLEFT E DIRITTO INTERNAZIONALE. – Un altro fondamentale
aspetto strettamente connesso con quanto appena detto e su cui è
opportuna una seria riflessione riguarda la validità delle
licenze copyleft in ambito internazionale[243] ; una simile ottica
ampliata è resa infatti necessaria dalla compagine globale
e interconnessa delle comunicazioni attuali. Data per acquisita
la loro natura di contratto, il testo normativo di maggior pregnanza
è la ‘Convenzione sulla legge applicabile alle obbligazioni
contrattuali’ sancita a Roma nel 1980[244] ; in seconda battuta
ci si riferirà alla Convenzione sulla competenza giurisdizionale
e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale
sancita a Bruxelles nel 1969[245] .
Innanzitutto questo tipo di approccio ci guida nella determinazione
della legge applicabile alle licenze copyleft, quando i soggetti
destinatari delle opere appartengano ad un ordinamento diverso da
quello dell’autore-licenziante; di conseguenza sarà
possibile alla luce di tale legge chiarire gli aspetti di validità
delle clausole del particolare tipo contrattuale e ottenere una
normativa di riferimento anche in campo processuale.
Iniziamo dal principio (fondamentale per il diritto internazionale
privato) della libertà di scelta della legge applicabile
da parte dei contraenti ex art. 3 della Convenzione di Roma: “Il
contratto è regolato dalla legge scelta dalle parti. La scelta
dev’essere espressa, o risultare in modo ragionevolmente certo
dalla disposizioni del contratto o dalle circostanze.” Passando
in rassegna i contenuti giuridici delle licenze copyleft in generale
è difficile trovare riferimenti espliciti ed inequivocabili
alla legge applicabile in caso di controversia legale; ovviamente
questo silenzio è voluto dai redattori delle licenze probabilmente
nell’intento di non precludere a priori vie di applicazione
di tali documenti giuridici.
Le licenze Creative Commons contengono nel loro preambolo una dicitura
piuttosto generica che vuole fare riferimento ai principi internazionali
in fatto di copyright e diritto d’autore: “l’opera
è protetta dal copyright e/o da altra normativa applicabile”.
Unico caso di licenza con esplicito riferimento è la Art
Libre License che alla sezione 8 (dedicata alla ‘Legge applicabile
al contratto’) sottopone la disciplina della stessa alla legge
francese; si può citare inoltre il testo della dichiarazione
che Creative Commons prevede per il rilascio di un’opera in
public domain, che specifica di essere basato sulla legge statunitense:
come abbiamo già precisato, tuttavia, essa non consiste in
una vera licenza-contratto, ma semplicemente in una dichiarazione
unilaterale.
Spetta dunque all’interprete, in mancanza di scelta, dedurre
il quadro normativo di riferimento. All’uopo soccorre l’art.
4 della Convenzione di Roma il quale appunto prevede che “nella
misura in cui la legge che regola il contratto non sia stata scelta
a norma dell’art. 3, il contratto è regolato dalla
legge del paese col quale presenta il collegamento più stretto.”
Bisogna dunque nel nostro caso considerare quali aspetti fattuali
e giuridici del fenomeno determinino tale collegamento. Il secondo
comma dell’art. 4 indica alcune fattispecie tipiche in cui
si presume la maggior aderenza del collegamento; questa lista, presentata
dal legislatore internazionale a titolo esemplificativo (e non tassativo)
è arricchita dall’intervento della dottrina[246] e
riguarda casi di fornitura di beni o servizi che quindi non si adattano
al caso della concessione d’uso di un’opera dell’ingegno.
Si ripropone, anche se in proporzioni diverse, l’identica
difficoltà di delimitazione del problema che abbiamo incontrato
in ambito di diritto privato; bisogna ancora una volta, dunque,
guardare alla disciplina dei contratti conclusi dai consumatori,
per ottenere maggiori punti di contatto. Tale disciplina è
prevista a livello internazionale dall’art. 5 della Convenzione
di Roma (e dall’art. 13 della Convenzione di Bruxelles per
quanto riguarda gli aspetti processuali ed esecutivi): secondo l’art.
5.3 tali contratti, in mancanza di scelta delle parti e in deroga
all’art. 4, “sono sottoposti alla legge del paese nel
quale il consumatore ha la sua residenza abituale”. Anche
in questo articolo si ritrova lo spirito di tutela del consumatore
in quanto parte svantaggiata, già incontrato negli artt.
1469 bis e seguenti del Codice Civile italiano, come dimostra la
ratio dell’art. 5.2: “In deroga all’art. 3, la
scelta ad opera della parti della legge applicabile non può
aver per risultato di privare il consumatore della protezione garantitagli
dalle disposizioni imperative della legge del paese nel quale risiede
abitualmente” in certi casi ben delineati nella parte successiva
del comma. Anche questi casi si riferiscono però ad attività
tipicamente commerciali di scambio di beni e di servizi che non
possono essere equiparabili al fenomeno del copyleft.
Tuttavia, in un’ottica internazionalistica, tale spirito di
tutela del consumatore-utente dell’opera copyleft (pur con
le cautele concettuali che abbiamo chiarito poco fa a proposito
di tale equiparazione), può essere invocato per tutelare
la buona fede di colui che riceve o ottiene l’opera prima
ancora di averne conosciuto il regime di licenza. Quindi, ad esempio,
se nel paese dell’autore-licenziante una licenza copyleft
con una clausola di accettazione automatica nello spirito shrink-wrap
(come le licenze Creative Commons) può essere considerata
valida a tutti gli effetti, in un paese (come l’Italia) in
cui tali clausole sono considerate invalide, la buona fede dell’utente-licenziatario
sarebbe tutelata fino ad una sua accettazione espressa dei termini
della licenza.
3.
ALCUNI RILIEVI PROCESSUALI. – I rilievi di diritto sostanziale
fin qui compiuti hanno un senso ovviamente se trasposti in una dimensione
di effettivo esercizio dei diritti derivanti dal contratto-licenza;
in altre parole, trattandosi di diritto privato contrattuale tutto
l’apparato normativo entra in azione in modo tangibile e concreto
nel momento in cui una delle parti chiami in causa l’altra
per la modificazione, definizione, estinzione dei diritti o per
l’eventualità di risarcimento di danni derivanti dal
mancato rispetto delle disposizioni negoziali (v. art. 158 l.a.[247]
). Non si vuole ovviamente svolgere una trattazione totale e dettagliata
di tutte le implicazioni che il copyleft può avere con il
diritto processuale, ma possiamo almeno soffermarci su alcune particolari
riflessioni.
L’aspetto più problematico in fatto di opere copyleft
e più in generale (come abbiamo già accennato) in
fatto di opere digitali e telematiche è quello probatorio.
Affinché un autore-licenziante chiami in giudizio un utente
che abbia in qualche modo infranto o ignorato le condizioni della
licenza dovrà in primo luogo dimostrare giudizialmente che
la controparte fosse stata messa al corrente in modo efficace dei
termini del contratto: ciò risulta veramente difficile a
livello pratico viste le caratteristiche di evanescenza e mutevolezza
derivanti dal sistema digitale e telematico.
E comunque, pur riuscendo a provare l’effettiva ricezione
della licenza, rimarrebbe il problema della prova della sua accettazione,
che, come abbiamo visto, comporta alcune delicate questioni di tutela
della buona fede e dell’ordinaria diligenza del licenziatario.
Gli stessi problemi legati alla difficoltà nel determinare
i soggetti della controversia si ripercuotono anche specularmente
nella sfera dell’autore che intenda mantenere l’anonimato,
diffondendo l’opera anonima o sotto pseudonimo, diritto peraltro
garantitogli dall’art. 9 l.a.
Consideriamo anche l’ipotesi dell’illecito di contraffazione.
E’ palese che nel caso di opere distribuite in formato digitale
per via telematica (come la maggioranza delle opere copyleft) tale
concetto non può essere riferito alla componente materiale
dell’opera (corpus mechanicum) e perciò non può
essere considerato (nell’impostazione tradizionale) come violazione
del diritto esclusivo di riproduzione[248] ex art. 13 l.a. Tuttavia
il catalogo delle difese e sanzioni per cosi dire tradizionali del
diritto d’autore (artt. 156 ss. l.a.) sono modellate sulla
materialità del concetto di riproduzione; mentre (lo ripetiamo
ulteriormente) le opere copyleft nascono e spesso rimangono in un
formato digitale, proprio con il precipuo scopo di diffondersi il
più liberamente possibile. Dal punto di vista delle sanzioni
penali, gli artt. 171 bis e seguenti l.a. inseriti dalla L. 248/2000
(Legge antipirateria) da un lato sono atti a disciplinare fenomeni
di carattere digitale o comunque immateriale (ad esempio l’art.
171 ter si riferisce esplicitamente alla duplicazione abusiva di
opere multimediali per mezzo di metodi digitali), ma non si riferisce
all’eventualità in cui sia l’autore stesso ad
autorizzare la copia a priori e tout court.
Dobbiamo quindi cercare tali risposte nell’ambito puramente
privatistico, considerando la contraffazione di un’opera copyleft
come il mancato rispetto dei termini della rispettiva licenza e
come un comune illecito contrattuale ex artt. 1218 ss. del Codice
Civile. Quindi un esempio di contraffazione di queste opere può
essere considerato il mancato rispetto del divieto di apporre modifiche
per crearne opere derivate: Tizio (licenziatario) scarica da un
archivio telematico un documento creato da Caio (licenziante) e
distribuito sotto una licenza di tipo ‘Attribution-NoDerivs’;
Tizio però, pur avendo avuto modo di conoscere i termini
della licenza non se ne cura e distribuisce una versione rivisitata
del documento, attribuendone comunque la paternità all’autore
originario (Caio). Quest’ultimo, che vede rispettata solo
una delle due condizioni base della licenza, può agire nei
confronti di Tizio per il risarcimento del danno per responsabilità
contrattuale[249] (e, qualora ne sussistano i presupposti, per contraffazione
ex artt. 156 ss. l.a.).
Si potrebbero addurre molti altri esempi resi particolarmente problematici
dalle difficoltà legate all’effettiva conoscibilità
dei soggetti in causa e alla malleabilità (e quindi innata
mutevolezza) delle opere in formato digitale. Ne citiamo alcuni,
quanto meno per destare l’attenzione su alcuni risvolti patologici
del fenomeno copyleft e che solo una costante e organica giurisprudenza
potrà ovviare in questi prossimi anni, quando avrà
le prime occasioni di esprimersi in proposito.
Il primo riguarda il caso in cui, un soggetto (sia esso in buona
o in cattiva fede) acquisisca un’opera proprietaria (ad esempio
un romanzo), la trasponga in formato digitale, vi alleghi una qualsiasi
licenza copyleft e la distribuisca liberamente via Internet. Simile
potrebbe essere il caso di un soggetto che inserisce in un’opera
aperta, collettiva e compilativa (come Wikipedia) un contributo
tratto però da un’opera proprietaria di cui non ha
titolo. Infine c’è il caso speculare del soggetto che
si attribuisce e distribuisce con criteri proprietari un’opera
sotto licenza copyleft, disconoscendo il legame fra l’opera
e la licenza e dichiarando di aver trovato l’opera priva di
alcun riferimento di copyright e di averla perciò creduta
di dominio pubblico.
A parere di chi scrive, una soluzione abbastanza percorribile per
ovviare almeno in parte al problema dell’indeterminatezza
dei soggetti potrebbe ravvisarsi nell’applicazione del modello
della “firma digitale”[250] (costituito da un sistema
di username e password) per accertare l’accettazione dei termini
della licenza. Ciò, anche se in effetti stride con i principi
etici di libera diffusione delle conoscenze, garantisce maggiormente
un corretto esercizio dei diritti che andrebbe a vantaggio di tutti.
Ad esempio una simile soluzione di duplice conferma via e-mail è
attuata da Creative Commons nella procedura prevista per rilasciare
un’opera sotto public domain.
4.
COPYLEFT E DIRITTO D’AUTORE. – Entriamo ora nella parte
più centrale e pregnante ai fini di questo studio riguardante
le implicazioni che il sistema di copyleft denota in rapporto con
il diritto d’autore in senso stretto; fonderemo la nostra
analisi più che altro sul diritto italiano, nelle sue classificazioni
dottrinali e in alcuni suoi aspetti fondamentali.
Per prima cosa cerchiamo di inserire la categoria che fin qui abbiamo
chiamato ‘opere copyleft’ all’interno del catalogo
di definizioni e classificazioni che provengono dalla dottrina classica
del diritto d’autore. Nello specifico ipotizzeremo una comparazione
trasversale fra le tre categorie di opere che presentano maggiori
punti di contatto con il fenomeno in esame, basato sulla condivisione
dei contenuti e sulla possibilità di modifica: le opere collettive,
le opere in comunione e le opere composte. In tale passaggio seguiremo
principalmente la traccia concettuale disegnata da Maurizio Ammendola
e da Luigi Carlo Ubertazzi[251] .
4.1.
L’OPERA COPYLEFT COME OPERA COLLETTIVA. – Come primo
passo, proviamo a verificare se l’opera copyleft generalmente
intesa possa essere in qualche modo ricondotta ad un particolare
tipo di opera collettiva. La definizione tradizionale di tale categoria
si riferisce ad un’opera “nella quale le singole parti,
dovute ad autori diversi, non si compenetrano reciprocamente, ma
rimangono distinte ed autonome […] pur nell’ambito di
un disegno unitario di coordinamento e di organizzazione creativa
[…].” Si tratta di una definizione palesemente prevista
per opere di compilazione come enciclopedie, riviste, giornali,
antologie, che sottolinea il requisito centrale dell’autonomia
dei singoli contributi.
Di conseguenza essa può trovarsi aderente al fenomeno delle
opere copyleft solo nei casi in cui la condivisione e la possibilità
di modifica dei contenuti preservino la distinzione dei diversi
contributi: è questo sicuramente il caso di opere inevitabilmente
di compilazione come Wikipedia, il dizionario AsSoLi, la rivista
telematica PLoS, la rivista cartacea Open Source, le quali hanno
appunto intrinseca tale caratteristica. Simile benché più
delicato e peculiare è anche il caso di opere di documentazione
rilasciate sotto licenza FDL la quale prevede alla sezione 4 un
apposito sistema di elencazione e identificazione delle modifiche
apportate, qualora le stesse consistano in parti agevolmente isolabili
dal contesto dell’opera. Di certo non può essere invece
il caso di opere copyleft di tipo musicale, nelle quali le modifiche
influirebbero in modo troppo penetrante su tutta l’espressività
dell’opera, salvo forse il caso in cui a modificarsi sia solamente
la parte testuale che si comporterebbe alla stregua di un’opera
letteraria indipendente.
Un’altra caratteristica fondamentale delle opere collettive
è l’esistenza di un soggetto titolare dei diritti sia
morali che patrimoniali sull’opera collettiva intesa come
struttura indipendente dai singoli contributi, “ovvero colui
che organizza e dirige la realizzazione dell’opera”[252]
. Tale figura è difficilmente ritrovabile nella specie delle
opere copyleft, né può essere identificata con la
figura dell’autore originario, il quale una volta distribuita
l’opera sotto licenza copyleft perde il controllo sulla realizzazione
di opere da essa derivate e sulla loro distribuzione.
4.2.
L’OPERA COPYLEFT COME OPERA REALIZZATA IN COMUNIONE. –
Ora cerchiamo di capire se l’opera copyleft generalmente intesa
possa essere invece ricondotta al tipo delle opere realizzate in
comunione. Queste opere, a differenza di quelle considerate poco
fa, costituiscono delle opere semplici e non composte, nelle quali
“la collaborazione creativa di più autori si configura
in modo tale che i singoli contributi sono indistinguibili ed inscindibili”[253]
. Dunque in questo caso non si hanno un autore dell’opera
collettiva e più autori di opere indipendenti in essa raccolte,
bensì un rapporto di comunione dei diritti d’autore
da parte di tutti i soggetti che hanno apportato il contributo creativo,
che vengono qualificati come coautori dell’unica opera semplice
(non composta).
Tale modello si adatta in modo più agevole alle esigenze
di tutela dei soggetti autori di opere copyleft, anche se, a ben
guardare, sarebbe necessaria una ponderazione (da effettuarsi nei
casi concreti) dell’effettivo valore dei singoli contributi.
In pratica, se appare corretto attribuire la qualifica di coautore
dell’opera a colui che ad esempio modifica interamente la
parte testuale di un brano musicale sotto licenza OpenMusic, risulta
piuttosto azzardato attribuire la stessa qualifica a colui che aggiorna
solo qualche formula informatica all’interno di un manuale
per software libero.
Il modello dell’opera in comunione, in generale, non si adatta
ad opere di compilazione (enciclopedie e banche dati), ma piuttosto
ad opere espressive come quelle musicali e come quella cinematografica.
E tuttavia risulta problematico per la carenza di un importante
aspetto soggettivo e per così dire ‘psicologico’,
cioè quello di un’effettiva e consapevole progettualità
comune fra i coautori: il concetto di comunione dei diritti d’autore
significa implicitamente anche una comune scelta di unire la capacità
creativa di più autori; nel caso dell’opera copyleft
l’autore crea l’opera in modo che essa sia già
completa e l’intervento di altri autori è un’ipotesi
solo successiva ed eventuale.
4.3.
L’OPERA COPYLEFT COME OPERA COMPOSTA. – A gran parte
delle opere copyleft si addice maggiormente una terza classificazione:
quella di opera composta, che mantiene il concetto di comunione
fra i coautori ma considera i vari contributi perfettamente identificabili,
pur rimanendo essi inscindibili dal tutto. Riprendiamo ancora una
volta l’enunciazione di Ammendola e Ubertazzi: “Si intende
per opera composta quell’opera nella quale i singoli contributi
conservano una propria autonomia che li rende suscettibili di utilizzazione
separata, e purtuttavia si configurano, nel risultato finale della
collaborazione, come elementi essenziali di un insieme organico
ove le attività creative dei vari soggetti si esprimono direttamente
e solidamente dando origine ad un effetto artistico unitario […].”
L’applicazione di tale definizione risolve molte delle incongruenze
create dalle due definizioni precedenti e si distingue per la sua
particolare elasticità: è infatti una categoria pensata
per ricomprendere opere drammatico-musicali, opere coreografiche
e pantomimiche[254] ed opere cinematografiche[255] , ma che ben
si adatta alle esigenze di multimedialità[256] , malleabilità
e plurisoggettività delle opere copyleft. Possiamo proporre
un esempio ipotetico in cui notare la congruità di tale qualificazione:
si pensi ad un’opera copyleft che nasce come testo letterario
e poi, nelle varie evoluzioni basate sulla libertà di distribuzione
e di modifica, si trasforma in un melodramma ed infine in una pellicola
cinematografica distribuita in formato digitale.
Lo stesso ragionamento vale indistintamente per le opere copyleft
di tipo software[257] e per la relativa documentazione; mentre,
come abbiamo già detto, non si adatta alle opere di compilazione
le quali appunto richiedono lo specifico inquadramento che abbiamo
dimostrato poco fa.
4.4.
COPYLEFT E LIBERE UTILIZZAZIONI. – Un altro aspetto del diritto
d’autore che presenta alcune occasioni di contatto con il
fenomeno copyleft e che merita una seppur breve trattazione è
quello delle libere utilizzazioni. Per libere utilizzazioni, espressione
corrispondente all’anglosassone ‘fair use’, si
intendono alcuni specifici e ben delineati casi eccezionali ai quali
non può applicarsi la tutela d’autore, poiché
questa risulterebbe inopportuna e contraria agli scopi di promozione
della cultura nell’interesse della collettività.
In questi casi, presi in considerazione dagli artt. 65 ss. l.a.,
l’opera può essere utilizzata liberamente senza alcuna
limitazione derivante dai diritti esclusivi dell’autore. Tale
istituto, essendo di carattere eccezionale, è sempre stato
sottoposto ad un’interpretazione di tipo restrittivo[258]
. Tuttavia negli ultimi anni si è via via cercato di adattare
il campo d’influenza del fair use alle nuove possibilità
di acquisizione delle opere offerte dalle nuove tecnologie; ci si
riferisce ai più comuni casi di realizzazione di copie non
autorizzate delle opere a scopi didattici e accademici, di diffusione
della cultura a livello volontaristico e no-profit, oppure a semplice
uso privato e casalingo: in pratica le opere letterarie realizzate
per mezzo di fotocopia e quelle musicali o audiovisive realizzate
per mezzo degli impianti audio-video casalinghi.[259]
L’avvento del modello di distribuzione del copyleft, a livello
per così dire formale, non incide sull’istituto delle
libere utilizzazioni. Le licenze copyleft disciplinano, pur con
permissività, l’utilizzo dell’opera, che però
non può andare oltre quanto espressamente previsto; nei casi
coperti da fair use, però l’utilizzo dell’opera
rimane disciplinato dall’apposita normativa e l’utilizzo
resta libero anche rispetto a quei diritti che la licenza non concede.
Il riferimento al fair use contenuto nelle licenze Creative Commons
(in versione sintetica) è piuttosto eloquente: “Il
diritto di fair use e altri diritti non sono in nessun modo influenzati
da quanto qui riportato.”
Al di là dell’aspetto meramente formale, il nuovo paradigma
di comunicazione del copyleft incide in via indiretta sui principi
posti a fondamento delle libere utilizzazioni, dato che, in teoria,
tutto il sistema di distribuzione copyleft, quando svolto a livello
telematico verso i singoli utenti, può essere inteso come
sottoposto a regime di fair use. Alcune licenze prevedono il divieto
di fare usi commerciali delle opere e quindi queste opere rimarranno
per definizione in un ambito no-profit; e in generale gran parte
del sistema di distribuzione copyleft si basa sull’uso personale
e privato dell’opera; e ancora tutte le opere di documentazione
informatica e scientifica (ad esempio i progetti Wikipedia e PLoS)
nascono con innati scopi didattici e di ricerca.
Il principio etico che regge il fenomeno culturale del copyleft
è lo stesso che giustifica in gran parte dei casi il diritto
di libera utilizzazione, ovvero la concreta promozione della diffusione
delle idee e delle conoscenze. Solo che nel diritto d’autore
tradizionale tale principio rappresenta l’eccezione, mentre
nel modello di copyleft rappresenta la regola, anzi lo scopo primario.
5. IL COPYLEFT COME NUOVO PARADIGMA DI PROPRIETÀ INTELLETTUALE.
– In chiusura dell’analisi giuridica, compiuta sulla
base dei principi delle varie branche del diritto chiamate in causa,
è il caso di interrogarsi su quali modifiche il fenomeno
copyleft sia in grado di apportare all’intera struttura della
proprietà intellettuale in generale. Da ciò sarà
possibile misurare, anche prospetticamente, in quali termini si
possa parlare di “rivoluzione” come molti autori hanno
voluto far notare[260] .
5.1.
IL COPYLEFT FRA DIRITTI MORALI E DIRITTI PATRIMONIALI. – Innanzitutto
è necessario interrogarsi sui riflessi che il copyleft può
avere su una dicotomia concettuale cara al diritto continentale
d’autore, cioè quella fra diritti morali e diritti
patrimoniali.
Come abbiamo già accennato, il copyright di matrice anglo-americana
non coglie tale dualismo e si fonda su una concezione monistica
del diritto d’autore, inteso principalmente come diritto esclusivo
di realizzare e distribuire copie dell’opera (letteralmente
infatti ‘copyright’ significa ‘diritto di copia’).
Ciò determina che, nell’ottica common law, il diritto
d’autore (nel senso di copyright) abbia sempre una valenza
di patrimonialità; inoltre tale sistema, per l’applicazione
della tutela giuridica, non richiede specifiche caratteristiche
di creatività e di conseguenza viene tutelato, in linea di
massima, tutto ciò che merita di essere tutelato in ragione
della sua commerciabilità.[261]
La tutela prevista invece dal diritto d’autore risulta più
pregnante e composita, dato che da un lato richiede alle opere un
certo standard minimo di tutelabilità (il requisito del “carattere
creativo” ex art. 1 l.a.) e dall’altro si estende alla
salvaguardia degli interessi, oltre che patrimoniali, anche morali
dell’autore legati alla sua reputazione: tali interessi si
estrinsecano tradizionalmente nel diritto alla rivendicazione alla
paternità dell’opera (art. 20 l.a.), il diritto alla
sua integrità (art. 20 l.a.) e il diritto di ritiro dal mercato
della stessa per gravi ragioni morali (artt. 142 e 143 l.a.). Per
i principi generali del diritto privato, i diritti patrimoniali
sono sempre sottoposti alla disponibilità del loro titolare
e quindi cedibili a titolo gratuito od oneroso; i diritti morali,
invece, in quanto diritti di natura personale, non sono cedibili
e permangono nella sfera del loro titolare originario.
Chiarita questa differenziazione, che può sembrare esaurirsi
in una disquisizione di tipo dottrinale, bisogna rilevare un dato
decisivo: tutte le licenze prese in esame in questo lavoro fanno
riferimento in modo più o meno esplicito ad un sistema di
copyright, salvo il caso isolato della Licence Art Libre, che abbiamo
visto riportare una clausola di riferimento alla legge francese.
E ciò è confermato dal fatto che i loro testi disciplinano
soprattutto aspetti che, nella normativa italiana, sono esplicitamente
ricondotti al lato patrimoniale del diritto d’autore: la libertà
di distribuzione, la libertà di riproduzione ecc.
Potrebbe sorgere qualche dubbio di compatibilità fra le licenze
basate sul copyright e il sistema continentale per quanto riguarda
la libertà di modifica prevista da molte di esse; infatti
il diritto morale all’integrità dell’opera garantisce
all’autore la possibilità di “opporsi a qualsiasi
deformazione, mutilazione o altra modificazione […] che possano
essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione.”[262]
E qualificandosi tale diritto come diritto morale, esso sta al di
là della facoltà di disporne da parte del suo titolare.
Dovremmo dunque pensare che tutte le clausole delle licenze copyleft
mirate ad autorizzare la modifica dell’opera siano da considerare
a priori invalide negli ordinamenti di civil law?
La risposta a tale quesito spetta da un lato alla dottrina di questi
ordinamenti, da parte della quale si auspica un’organica e
completa trattazione del fenomeno del copyleft; dall’altro
alla giurisprudenza che in Europa non ha ancora avuto modo di occuparsi
specificamente di controversie di diritto d’autore su opere
copyleft. L’occasione curiosa e interessante potrebbe derivare
dal caso in cui un autore (ad esempio italiano) di un’opera
distribuita sotto licenza CCPL ‘Attribution’ (con autorizzazione
alla modifica, quindi) veda lesa la sua reputazione da una modifica
effettuata e voglia far valere il suo diritto morale, inibendo la
distribuzione dell’opera derivata e derogando così
alla previsione contrattuale di libertà di modificazione.
In tal caso ovviamente l’autore dovrebbe innanzitutto riuscire
ad individuare il soggetto artefice delle modifiche per potergli
contestare l’inadempimento e, una volta citato in giudizio
tale soggetto, dovrebbe provare l’effettiva lesività
della modifica: come già mostrato, entrambi questi elementi
fondamentali risultano particolarmente difficili da determinare
in un contesto multimediale e telematico[263] .
5.2.
UN NUOVO MODELLO DI GESTIONE DEI DIRITTI DI PROPRIETÀ INTELLETTUALE.
– Nell’esposizione fin qui svolta si è dimostrato
l’assioma unanimemente condiviso che il diritto d’autore
“è un diritto soggettivo privato, il cui esercizio
è riservato [in via esclusiva] al titolare, che quindi è
il solo legittimato a perseguire le utilizzazioni abusive e a disporre
dei singoli diritti di utilizzazione”[264] ; è l’autore
dunque, nella prassi tradizionale, a scegliere, fra i diritti patrimoniali,
quali cedere, a chi cederli e come cederli. Tuttavia l’evoluzione
del mondo dell’imprenditoria editoriale e dello spettacolo
ha reso più complesso e articolato lo scenario in cui attuare
la gestione dei diritti, inserendo all’interno dell’originario
rapporto autore-utente l’interazione di altri soggetti che
hanno ruoli d’intermediazione a livello contrattuale: primo
fra tutti l’editore, ma anche figure intermedie come i manager
artistici o le agenzie, che spesso sono concessionari dei diritti
di esclusiva; oppure soggetti di gestione collettiva dei diritti
come l’italiana SIAE[265] .
Lo spirito copyleft di aperta condivisione e di libera distribuzione
delle opere, unito alle nuove possibilità dell’interconnessione
telematica e della multimedialità, incide profondamente sugli
stereotipi soggettivi del diritto d’autore e, in un certo
senso, rende superfluo (se non addirittura scomodo) l’intervento
di figure simili. Come abbiamo già rilevato, grazie alle
nuove opportunità offerte dalla tecnologia e dalla comunicazione,
al giorno d’oggi un autore può benissimo essere anche
editore, promotore e distributore della propria opera, appunto contrattando
i termini di utilizzo della stessa direttamente con il singolo utente.
La stessa riflessione potrebbe svolgersi, con le peculiarità
del caso, a proposito di organi preposti alla gestione collettiva
dei diritti d’utilizzazione sulle opere, come ad esempio la
Società Italiana Autori ed Editori (SIAE). Il ruolo (peraltro
fondamentale) di tale organo è basato su una considerazione
che però vedremo essere vacillante: come precisa Auteri,
“al singolo autore o titolare è spesso difficile, quando
non impossibile, esercitare il diritto di esclusiva quando l’opera
può essere utilizzata ed è per sua natura destinata
ad essere utilizzata da numerosi soggetti sparsi in più luoghi”[266]
. Se si circoscrive a questo la giustificazione dell’operato
della SIAE, dunque, in un sistema di copyleft non avrebbe più
ragion d’essere un organo di questo tipo, che si configurerebbe
per una mera funzione di controllo sulle attività creative,
stridendo palesemente con i diritti di libera espressione (ex art.
21 Cost.) e di libera disponibilità dei diritti patrimoniali
(ex art. 107 l.a.).
Ciò - lo si deve sottolineare - è però realizzabile
appieno solo in una prospettiva no-profit o comunque di ristretto
target, dato che una grossa iniziativa editoriale necessita sempre
e comunque un ampio investimento, il quale (salvo casi di filantropia
assoluta) prevede un ritorno economico; e un’ampia diffusione
delle opere con scopi di lucro richiede necessariamente una gestione
centralizzata e ramificata dei diritti di utilizzazione. Tuttavia,
grazie al movimento Opensource, si è aperto uno spiraglio,
diventato man mano un ampio sbocco, per tutta quella fetta (sempre
più consistente) di persone dedite ad attività creative
e comunicative per il solo desiderio di esprimersi e di arricchire
il bagaglio culturale della collettività.
5.3.
CRITICHE AL TRADIZIONALE SIGNIFICATO DI ‘PROPRIETÀ
INTELLETTUALE’. – Il fenomeno del copyleft come nuovo
modello di distribuzione, di software in origine e di altre opere
poi, è sorto in esplicita contrapposizione dell’impostazione
proprietaria della distribuzione di opere dell’ingegno in
generale. Ci si chiede perciò se in un panorama in cui il
copyleft si sta ritagliando sempre più ampi spazi sia ancora
il caso di parlare di ‘proprietà intellettuale’,
con un’espressione che invece sottolinea il concetto di privativa
e di esclusiva[267] insito nei principi di diritto d’autore.
Bisogna tener presente che il copyright quanto il brevetto si comportano
come dei veri e propri monopoli[268] (pur con durata limitata) concessi
dal sistema giuridico all’autore (o inventore) affinché
costui possa massimizzare i proventi dello sfruttamento economico
dell’opera[269] .
Molti giuristi autorevoli hanno dubitato dell’opportunità
di trattare allo stesso modo la proprietà sui beni materiali
(quella ereditata più o meno intatta dal diritto romano)
e quella sui beni immateriali (derivante dalla rivoluzione industriale)
quali appunto sono le opere dell’ingegno in generale[270]
. Riportiamo una storica riflessione di Thomas Jefferson che ci
illumina in modo insuperabile sulla questione:
“Se
la natura ha creato una cosa meno soggetta delle altre alla proprietà
esclusiva, questa è l’azione della potenza del pensiero
chiamata idea, che un singolo può possedere in maniera esclusiva
finché la tiene per sé; ma nel momento in cui essa
è divulgata, costringe se stessa a essere proprietà
di ognuno, e chi la riceve non può restituirla… Colui
il quale riceve un’idea da me, riceve istruzioni senza diminuire
le mie, così come colui il quale accende la propria candela
con la mia, riceve luce senza toglierla a me.”[271]
Questo
approccio era filosoficamente incontrovertibile a metà del
1800 e lo è tuttora; anzi lo è soprattutto ora che
tutte le informazioni rientrano nel grande calderone del cyberspazio,
nel quale “tutto è liquido e tutto è mutabile”[272]
. La differenza fra i tempi di Jefferson e i nostri non va tanto
ricercata in una dimensione filosofico-giuridica, dato che i concetti
di idea e di informazione sono gli stessi e a cambiare sono stati
solo i modi con cui essi si estrinsecano; va piuttosto ricercata
in una dimensione politico-economica, dato che la realtà
del mercato della comunicazione è invece radicalmente cambiata,
sia nella forma che nella sostanza, ma soprattutto nelle proporzioni.
Inoltre, altre critiche alla formula ‘proprietà intellettuale’
derivano dalla sua genericità e dalla sua equivocabilità;
a questo proposito si esprime Stallman, esortando a non usare quell’espressione
poiché quel termine suggerirebbe “un’eccessiva
generalizzazione tra copyright, brevetti e marchi commerciali. Si
tratta di elementi dagli effetti talmente diversi tra loro che è
del tutto folle discuterne come di un unico insieme.”[273]
Tuttavia riteniamo che simili argomentazioni di tipo puramente semantico
risultino superflue o comunque meno pregnanti e determinanti di
quelle a proposito del concetto stesso di ‘proprietà’
applicato a beni che per natura sono insofferenti a circoscrizioni
giuridiche di questo tipo. Il movimento Opensource e il fenomeno
copyleft si fanno appunto portavoce dell’esigenza di una rivisitazione
dell’impostazione proprietaria di beni ‘evanescenti’
come le idee e le informazioni su cui si fonda ormai solidamente
la nostra società postmoderna.
6.
IL COPYLEFT COME INVERSIONE DI TENDENZA. – Quanto fin qui
elaborato fa sorgere l’interrogativo di quale ruolo di impulso
innovativo possa concretamente rivestire il fenomeno emergente del
copyleft su tutto il panorama della proprietà intellettuale
e in particolar modo sulla sfera del diritto d’autore (inteso
anche come copyright). Vedremo che appunto la prassi ormai diffusa
delle licenze per la libera distribuzione delle opere ha ridisegnato
alcuni aspetti base dell’impostazione tradizionale, innescando
un’inversione di tendenza nelle esigenze di tutela del mondo
della cultura e della creatività.
6.1.
COPYLEFT E INTERESSE PUBBLICO. – Il principale aspetto che
viene investito da tale inversione di tendenza è il concetto
d’interesse pubblico (o come alcuni preferiscono dire, d’interesse
collettivo)[274] . Partiamo da un principio cardine del diritto
d’autore, relativo alla originaria ratio giuridica della tutela
delle opere dell’ingegno, così come enunciato da Auteri
a proposito di libere utilizzazioni:
“[…]la
tutela del diritto d’autore, trova la sua giustificazione
ultima nell’interesse della collettività alla promozione
e alla diffusione della cultura e si estende fino al punto in cui
è giustificata e insieme compatibile con l’interesse
generale alla diffusione delle conoscenze, delle idee e delle opinioni,
ma anche delle opere in cui quelle trovano espressione. La determinazione
del contenuto del diritto e dei suoi limiti rappresenta, secondo
le valutazioni di politica legislativa del momento storico, il punto
di equilibrio fra l’interesse individuale dell’autore
e gli interessi generali.”[275]
Come
abbiamo visto in questo stesso capitolo e come d’altronde
ricorda Auteri, nell’ambito del diritto d’autore tradizionale
il simbolico punto d’incontro fra gli interessi dell’autore
e quelli della collettività è ravvisabile nell’istituto
delle libere utilizzazioni: una sorta di ‘zona franca’
in cui le limitazioni derivanti dal diritto d’autore ‘si
piegano’ ai legittimi interessi generali di incentivo del
progresso scientifico e culturale. Sottolinea infatti anche Niccolò
Abriani: “Il diritto d’autore è del resto da
sempre il frutto di un intreccio dialettico e osmotico tra le prerogative
accordate ai creatori delle opere e ai loro aventi causa, e i diritti
di libera utilizzazione riconosciuti alla collettività, dall’altro.”[276]
Tuttavia, in un universo digitale e multimediale in cui gran parte
della dottrina vede radicarsi un vero e proprio diritto ad essere
informati[277] (o diritto d’accesso alle informazioni), uno
spiraglio così ristretto e – ricordiamolo – solo
di tipo eccezionale risulta alquanto insufficiente a garantire l’agognato
‘equilibrio fra gli interessi’.
Il principio degli equilibri fra interessi pubblici e privati è
uno degli argomenti centrali di tutto il diritto dell’informazione
e trae le sue origini dal dibattito interpretativo della libertà
d’espressione costituzionalmente tutelata dall’art.
21 della Costituzione Italiana e dal Primo Emendamento della Costituzione
Statunitense[278] . Tale libertà si estrinseca infatti in
due riflessi paralleli e speculari che sono da un lato il diritto
di esprimere liberamente il proprio pensiero e la propria creatività,
quindi per estensione il diritto ad informare la collettività;
e dall’altro lato il diritto ad essere informati e quindi
anche il diritto di accesso all’informazione[279] . Tali principi,
radicati già nei principi filosofici dell’illuminismo,
hanno però trovato il loro habitat congeniale nell’attuale
società dell’informazione e quindi, oggi più
che mai, necessitano una particolare attenzione da parte del mondo
giuridico[280] .
E’ giusto sottolineare che tali principi si riferiscono squisitamente
all’ambito dell’informazione; ambito che, pur intersecandosi
per moltissimi aspetti con quello delle creazioni artistico-espressive,
mantiene una certa peculiarità rispetto al diritto d’autore.
Tuttavia queste istanze ci devono far riflettere sulle possibilità
di rivisitazione del concetto d’interesse pubblico, anche
in fatto di proprietà intellettuale, soprattutto ora che
il diffondersi della filosofia della libera distribuzione di idee
e opere comporta un nuovo inevitabile assetto degli equilibri.
6.2.
LA GIUSTIFICAZIONE GIURIDICO-ECONOMICA DELL’ATTUALE SISTEMA
DI DIRITTO D’AUTORE. – L’interrogativo da porsi
è dunque se il diritto d’autore così come si
è evoluto negli ultimi decenni, quindi sempre più
in rispondenza a scelte di politica economica, stia veramente rispettando
gli equilibri fra i vari interessi in gioco oppure se stia solamente
irrigidendo il mercato della creatività e della conoscenza.
In quest’ultimo senso si esprime ovviamente un personaggio
come Stallman che, nel suo saggio “L’interpretazione
sbagliata sul copyright: una serie di errori”[281] , fondando
le sue teoria su principi di matrice costituzionale e giurisprudenziale,
sostiene: “[…] il copyright esiste a beneficio degli
utenti, non nell’interesse degli editori o degli autori.”;
successivamente riporta il dettato dell’art. 8 sez. 1 della
Costituzione U.S.A secondo cui “il Congresso avrà il
potere di promuovere il progresso della scienza e delle arti utili,
garantendo per periodi di tempo limitati ad autori e inventori il
diritto esclusivo ai rispettivi testi scritti e invenzioni.”.
Da ciò l’hacker prende le mosse per sottolineare che
nel corso degli ultimi decenni gli intenti del costituente americano
abbiano subito una sempre maggior distorsione in ossequio alle esigenze
imprenditoriali del mondo dell’editoria prima e della comunicazione
multimediale poi.
Inoltre prospetta tre errori basilari nell’individuazione
del fondamento giuridico del copyright. Il primo errore sarebbe
la ricerca di un equilibrio fra gli interessi: Stallman è
contrario a tale impostazione, che abbiamo visto essere per certi
versi la prima ratio del sistema di copyright: risulterebbe infatti
palese - a suo dire - che l’intenzione del costituente fosse
solo ed esclusivamente la promozione del progresso a favore della
collettività degli utenti, senza alcun compromesso di tipo
economico. Il secondo errore riguarderebbe il privilegio attribuito
dal diritto americano al solo aspetto patrimoniale e commerciale
della creatività; il terzo sarebbe quello di voler ottenere
un incentivo della creatività massimizzando il potere degli
editori.
E’ evidente che questa posizione radicale dipende in gran
parte dal ruolo pseudo-politico di una figura rappresentativa come
Stallman portavoce a livello mondiale delle esigenze della comunità
hacker. Però l’affermarsi del copyleft come fenomeno
culturale di massa ci invita (o forse ci obbliga) ad una seria considerazione
di tali critiche al modello tradizionale di diritto d’autore
e precisamente a quello di origine common law. Si deve anche tenere
presente che posizioni come quella di Stallman non sono in assoluto
le più radicali, se ci riferiamo a tutto il movimento cyberpunk
o no-copyright[282] ‘votato’ alla totale liberalizzazione
del file-sharing e in certi casi anche della pirateria vera e propria.
Invece, basta rifarsi a quanto detto sull’origine storica
del concetto di copyleft in fatto di software, Stallman (e tutto
il movimento culturale da lui ispirato) non si esprime a favore
di una totale eliminazione del copyright[283] , il quale, se usato
correttamente e non abusato, è realmente il miglior incentivo
per l’arte e la cultura; con buona pace di tutti coloro che
nella rivoluzione Opensource ha voluto vedere la “morte del
copyright”.[284]
Alcuni autori di dottrina giuridica hanno riflettuto approfonditamente
sull’ipotesi di un mondo senza diritto d’autore e di
eventuali alternative per la tutela e la promozione della creatività,
proprio alla luce delle nuove esigenze e quindi dei diversi interessi
(pubblici e privati) del mondo attuale. Capostipite di questa scuola
di pensiero, di matrice giuridica ma con ampie contaminazioni di
sociologia, è Lawrence Lessig (www.lessig.org), lo stesso
giurista statunitense incontrato fra i fondatori di Creative Commons
e che attualmente siede anche fra i membri della Electronic Frontier
Foundation[285] ; nel suo libro “Il futuro delle idee”[286]
del 2001 prospetta i rischi che corre la collettività degli
utenti in mondo interconnesso, il quale se da un lato può
rappresentare uno sterminato spettro di possibilità di espressione
e comunicazione, dall’altro può risolversi in un più
invasivo controllo della creatività, se permangono le distorsioni
e le rigidità dell’impostazione attuale.
Un altro studio molto interessante e perspicace (e più strettamente
di dottrina giuridica) sulla ridefinizione dell’interesse
pubblico come giustificazione del copyright è quello compiuto
dal britannico Gillian Davies nel libro appunto intitolato “Copyright
and the public interest”[287] edito nel 2002. Dopo aver passato
in rassegna, in un’ottica sia storica che comparatistica,
il nesso fra tutela d’autore e interesse pubblico nei principali
ordinamenti occidentali (Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Germania),
entra nel merito delle rinnovate esigenze per la collettività
derivanti dal nuovo contesto delle comunicazioni.
Per prima cosa Davies sottolinea che l’interesse personale
dell’autore non è sufficiente di per sé per
attribuirgli dei diritti esclusivi; e successivamente fa notare
che gran parte dei creativi non producono opere principalmente per
la prospettiva della retribuzione economica quanto piuttosto per
uno spirito innato di creatività, mirando più che
altro ad un riconoscimento morale della loro reputazione d’autori[288]
. E’ necessario dunque affinché si applichi una tutela
esclusiva sulle opere dell’ingegno che essa concorra all’affermazione
di un più ampio e generale interesse allo stimolo della produzione
artistico-culturale e un rafforzamento della sfera economica ed
imprenditoriale a ciò connessa[289] .
I dubbi fin qui prospettati sulla legittimità di un’applicazione
troppo pervasiva del copyright si condensano in un dilemma: nel
panorama attuale, gli autori realizzano opere perché il copyright
esiste oppure il copyright esiste perché gli autori realizzano
opere?
Davies cerca di rispondere a tale inevitabile quesito ipotizzando
il funzionamento dell’editoria e della comunicazione in un
mondo privo di copyright e avanzando alcune ipotesi per l’applicazione
di tutele alternative alle opere creative. L’alternativa più
percorribile sarebbe quella di una sorta di ‘dominio pubblico
pagante’[290] nel quale sia lo Stato a retribuire lo sforzo
creativo dell’autore mentre all’imprenditoria editoriale
competerebbe la realizzazione concreta delle iniziative editoriali.
In questo modo, sarebbe possibile incoraggiare la creatività
non tanto prospettando la possibilità per l’autore
di un futuro e solo eventuale sfruttamento dell’opera; bensì
sostenendo concretamente l’autore durante il lavoro di ricerca
o di realizzazione, attribuendo un ruolo fondamentale alle associazioni
no-profit e agli istituti di ricerca[291] . Inoltre l’abolizione
del copyright comporterebbe da un lato l’eliminazione dei
costi per amministrare i diritti d’autore e per ottenere le
relative licenze d’uso dell’opera; dall’altro
si agevolerebbe così una contrattazione diretta fra autori
ed utenti, proprio come nel modello di copyleft.[292]
L’autore, tuttavia, nella sua dissertazione ipotetica sviluppa
successivamente alcune argomentazioni[293] di carattere economico
e pratico che fanno intuire quanto sarebbe rischioso un annullamento
totale delle prerogative esclusive dell’autore: innanzitutto
i rischi (già accennati) sulla difficoltà di gestire
in modo efficace e certo i diritti in un modello di libera contrattazione
autore-utente nel caso di grandi iniziative editoriali con un target
indefinito; poi il rischio che il valore di un’opera venga
ridotto al puro costo della sua realizzazione materiale, il che
porterebbe ad un appiattimento delle variegate istanze creative
e ad un loro mancato (o comunque insufficiente) incentivo.[294]
D’altronde, come fa notare Ubertazzi, “comprimere il
diritto d’autore significherebbe far ingiustamente gravare
su una particolare categoria di cittadini, e precisamente sui creativi/autori,
i costi della crescita dell’industria culturale di altri.”[295]
Quindi dobbiamo esprimerci più opportunamente e realisticamente
per una soluzione compromissoria: una situazione in cui possa essere
rimarcata e ampliata la sfera d’influenza del fair use[296]
, in cui siano chiariti e abbreviati i limiti di tempo per lo sfruttamento
esclusivo dell’opera e soprattutto in cui sia l’autore
il vero gestore dei propri interessi.
6.3.
IL RITORNO AD UN DIRITTO D’AUTORE “PURO”. –
Si introduce così un altro aspetto centrale dell’impulso
innovativo derivante dall’avvento del copyleft, cioè
l’esigenza di rifocalizzare l’attenzione del diritto
d’autore sulla tutela della opera e della creatività
del suo autore, contro una sempre più marcata tendenza alla
tutela delle altre attività di tipo imprenditoriale concernenti
la diffusione dell’opera.
Per comprendere al meglio la questione bisogna ricollegarsi a quanto
abbiamo detto poco fa a proposito delle diverse impostazioni del
copyright secondo common law e del diritto d’autore secondo
civil law e soprattutto a proposito della diversa sensibilità
nei confronti degli aspetti patrimoniali e morali del sistema di
tutela. Ci soccorre nella riflessione un passo di Paolo Spada che
cristallizza al meglio la situazione di disparità:
“L’enfasi
che gli ordinamenti continentali danno alla personalità creatrice
dell’autore fa sì che il diritto d’autore si
presenti come modalità di tutela di interessi tipicamente
antindustriali: dell’interesse dello scrittore contro l’editore,
dell’interesse dell’autore di lavori drammatici contro
l’impresario teatrale.
Diverso è l’approccio del diritto anglosassone […].
Piuttosto che alle ragioni degli autori l’esperienza giuridica
anglosassone sviluppa una forte sensibilità alle ragioni
degli editori e, poi, degli altri intermediari imprenditoriali nella
fruizione estetica dell’opera.”[297]
Questo
panorama d’altronde, con l’ingigantirsi del business
legato all’editoria e alla comunicazione multimediale e con
il conseguente aumento degli interessi economici in gioco, ha subito
le già citate distorsioni sulla funzione del copyright, trasformando
quest’ultimo in certi casi in una “arma impropria”
nelle mani dell’imprenditoria per controllare capillarmente
tutto il mercato della comunicazione. Oltre tutto, tale distorsione
si è man mano ripercossa sui sistemi continentali che, benché
si reggano su una diversa concezione del diritto d’autore,
rientrano in un unico grande mercato occidentale in cui gli interessi
economici sono troppo rilevanti (e tali da creare delle vere e proprie
lobby di potere).
Non è un caso che gran parte delle scelte di politica legislativa
dei paesi europei si sia sempre di più ispirata ai modelli
proposti dalla legislazione statunitense: si consideri l’esempio
più emblematico del parallelismo esistente fra il DMCA (U.S.A.,
1998) e la EUCD (Comunità Europea, 2001). Ricordiamoci, infatti,
che gli U.S.A. sono il fulcro di tutta l’industria cinematografica,
informatica e discografica mondiale: quindi gli interessi della
Disney, della Microsoft o della Sony Records non possono fare a
meno di essere anche quelli della cinematografia, dell’informatica
e della produzione musicale europee.
E’ sulla base di questa realtà evidente che si è
spesso parlato di un diritto d’autore trasformato in un diritto
degli investitori e di conseguenza di un diritto nato principalmente
per la tutela delle opere trasformato in un diritto mirato principalmente
alla tutela degli investimenti ad esse connessi. Così si
esprime inequivocabilmente Federica Gioia in un saggio del 2002
in cui, riferendosi proprio ai cambiamenti nel lato soggettivo derivanti
dal nuovo contesto delle comunicazioni, dice: “Non stupisce
allora che al legislatore europeo sia stato rimproverato di aver
trascurato gli interessi degli autori e di averli sacrificati alle
esigenze e alle pressioni dei titolari dei diritti connessi. Nemmeno
stupisce la segnalazione dell’avvento di un ‘diritto
imprenditoriale d’autore’ del quale la direttiva 2001/29
[cioè la EUCD] costituirebbe il primo atto.”[298]
Di fronte a questo panorama delicato e - per così dire -
patologico, ecco che il copyleft, nel senso di fenomeno sia giuridico
che culturale, si presenta come una ‘salutare valvola di sfogo’
che permette agli autori di recuperare le loro naturali prerogative[299]
e di riportare ad una posizione più equilibrata l’ago
della bilancia della gestione dei diritti. E questo è possibile
e legittimo in nome dei principi di diritto d’autore e in
generale del diritto privato che garantiscono al titolare dei diritti
la totale libertà e autonomia nelle scelte su come gestire
l’aspetto patrimoniale della sua opera. Normative che irrigidiscono
il mercato delle creazioni intellettuali costringendo gli autori
a percorrere determinate vie per diffondere le proprie opere sono
da ritenere lesive di tali principi cardine.
Il copyleft, a dispetto di normative che tendono sempre più
al controllo dei formati e delle copie delle opere, vuole riaffermare
queste libertà che sono nate e devono rimanere nella libera
disponibilità dell’autore: “l’autore acquista
a titolo originario […] i diritti esclusivi di utilizzazione
[…]. Tali diritti gli consentono di controllare l’utilizzazione
dell’opera, decidendo se e in che modo utilizzarla o farla
utilizzare, e quindi di trarre profitto dalla stessa e di soddisfare
gli altri interessi patrimoniali, personali o ideali, connessi con
la divulgazione dell’opera.”[300] Grazie a questo fenomeno
spontaneo si può dunque parlare di un ritorno ad un vero
diritto d’autore che si occupa della tutela delle opere e
dei diritti degli autori, piuttosto che di un diritto d’autore
che si preoccupa della tutela del mercato della creatività:
cioè di un ritorno a quello che potremmo chiamare un diritto
d’autore “puro”.
Le argomentazioni qui presentate vengono efficacemente cristallizzate
nel preambolo della licenza Art Libre, che – come abbiamo
già rilevato – essendo di origine francese denota una
maggiore sensibilità ad alcuni aspetti peculiari del diritto
d’autore classico di matrice continentale. Vi si legge appunto:
“Questa licenza non ignora affatto i diritti d’autore,
anzi li riconosce e li protegge. Essa ne riformula lo spirito consentendo
al pubblico di fare un uso creativo delle opere d’arte. […]
L’intenzione è di rendere l’opera accessibile
e permettere l’utilizzo dei suoi contenuti da parte di più
persone possibili […] nel rispetto degli autori con il riconoscimento
e la difesa del loro diritto morale. […] La ragione essenziale
di questa licenza Art Libre è promuovere e tutelare l’esercizio
dell’arte libero dalle regole imposte dall’economia
di mercato.”
7.
LA CENTRALITÀ DELLA LIBERA DISPONIBILITÀ DEI DIRITTI.
CONLUSIONI. – Abbiamo dunque appena visto che il diritto d’autore,
in quanto permeato dai principi del diritto privato classico, si
conforma ad una libera disponibilità delle prerogative dell’autore,
o per lo meno di quelle patrimoniali. Tuttavia argomentazioni di
carattere per lo più economico hanno svilito questa libertà
e hanno portato l’autore ad una posizione di passività
e di debolezza contrattuale, così da dover necessariamente
favorire l’intervento di soggetti intermediari e predisporre
dei meccanismi di predefinizione ed incanalatura dei rapporti contrattuali
legati al mondo dell’impresa culturale[301] .
La giustificazione di un simile approccio era stata a suo tempo
basata sulla supposizione che “di regola l’autore non
è in grado di esercitare direttamente i suoi diritti, almeno
non nel senso di riprodurre l’opera, di distribuire gli esemplari
e di compiere le varie attività attraverso cui l’opera
viene comunicata al pubblico.”[302] Bisogna però iniziare
ad ammettere che questa impostazione tradizionale non ha più
un fondamento assoluto in un panorama di comunicazione come quella
che abbiamo fin qui diffusamente delineato.
D’altronde, allo stesso modo in cui viene garantito a livello
costituzionale il diritto al singolo utente di poter acquisire delle
conoscenze che possono essere utili alla collettività (diritto
ad informarsi), di riflesso un’identica garanzia di matrice
costituzionale è garantita (e dev’essere garantita)
a coloro che vogliano trasmettere con la massima libertà
le loro idee creative (diritto ad informare). L’utente di
un servizio d’informazione o di arricchimento culturale deve
avere la possibilità di scegliere liberamente nella vasta
offerta che caratterizza il nuovo mercato derivante dalla comunicazione
multimediale; deve essere libero di scegliere fra informarsi o non
informarsi, fra pagare molto o poco e quindi fra avere un servizio
più efficiente o uno più scadente, fra vedere una
televisione pubblica e una televisione privata, fra collegarsi ad
un server italiano o un server straniero ecc. Allo stesso modo,
però, anche gli operatori attivi del nuovo sistema globale
di comunicazione, intesi come i singoli operatori (gli autori, i
giornalisti, gli artisti) e non le imprese del settore, devono poter
scegliere liberamente come distribuire le loro creazioni, se a pagamento
o gratuitamente, se in formato materiale o in formato digitale,
se su supporto interattivo o su supporto statico ecc.
In pratica, se un musicista vuole distribuire una sua canzone liberamente
su Internet deve aver la possibilità di usare un programma
di file-sharing e inserire l’opera nel formato a lui più
congeniale e rilasciarla con permesso di utilizzo o anche permesso
di copia o addirittura con permesso di modifica. Ma se a proprio
si rende illecito a priori l’uso di tali programmi, ad esempio
per preservare (per altro legittimamente) il mercato discografico
dalla pirateria, si rischia di soffocare eccessivamente anche la
possibilità di questi singoli utenti-autori che rappresentano
una buona fetta della comunità globale. E ancora, se quel
musicista vuole diffondere la canzone su un supporto materiale deve
essere libero di scegliere di gestire i suoi diritti in modo autonomo
e di distribuire i CD o le cassette indipendentemente dalla vidimazione
del supporto da parte della SIAE (art. 181 bis l.a.)
Una normativa che dedichi la sua attenzione ad un controllo capillare
della diffusione delle opere ad esempio rendendo indissolubile il
legame fra opere e supporti materiali oppure attribuendo ad organi
come la SIAE funzioni che eccedono il tradizionale aspetto della
gestione collettiva dei diritti sono destinate ad una scarsa compatibilità
con la realtà emergente e inarrestabile delle comunicazioni
peer-to-peer. Bisogna piuttosto ricreare “un collegamento
diretto fra il titolare dei diritti e gli utenti e incrementare
i meccanismi contrattuali che governano le condizioni di accesso
alle opere”[303] .
Come già detto, è necessario riportare l’attenzione
della tutela sulle caratteristiche dell’opera e sulle prerogative
dell’autore, inaugurando una politica legislativa che eviti
di attribuire eccessiva pervasività nei rapporti contrattuali
a soggetti che fondano il loro intervento su interessi puramente
economici e che necessariamente si esprimono per una concezione
conservatrice della proprietà intellettuale.
Il diritto d’autore (e soprattutto il copyright) e tutto l’apparato
dell’editoria e della produzione di opere, se impostati su
una base di rigidità e centralizzazione nella gestione dei
diritti, sono destinati a collassare in un mondo come quello attuale
delle comunicazioni di massa[304] . Internet è il media decentrato
per eccellenza, in cui tutti possono essere autori ed editori, quindi
il diritto d’autore per armonizzarsi a questa realtà
inestirpabile e per non uscirne travolto, deve sapersi adattare
a questa nuova compagine di soggetti ed interessi. Le nuove scelte
di politica legislativa dovrebbero cercare di incoraggiare tale
decentralizzazione e incentivare il più possibile la formazione
di un sistema basato sulla contrattazione diretta dei diritti sulle
opere e sui servizi ad esse relativi: ad esempio creando dei database
in cui sia possibile conoscere con precisione le caratteristiche
delle opere e il loro regime di tutela, oltre che risalire al relativo
autore ed eventualmente contrattare i termini d’uso dell’opera.
O comunque, pur senza riformare l’intera impostazione del
diritto d’autore internazionale, sarebbe opportuno un generale
allentamento della rigidità di tale tutela, eventualmente
abbreviando la durata dei diritti di utilizzazione ed elevando gli
standard minimi di creatività affinché un’opera
sia coperta da copyright[305] . Tutto ciò deve inoltre essere
concepito necessariamente in un’ottica di armonizzazione delle
discipline internazionali, possibilmente con un avvicinamento da
parte delle politiche legislative di common law al modello di proprietà
intellettuale europeo (e non viceversa come è successo negli
ultimi decenni)[306] .
In attesa di simili auspicabili sviluppi, il copyleft, nei modi
e nelle forme delineati in questo lavoro di ricerca, si pone come
una legittima e interessante prospettiva per un’informale
innovazione dei criteri di fondo che ispirano la diffusione della
cultura e della creatività nella cosiddetta società
dell’informazione.
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NOTE
AL CAPITOLO VI
[234]- Cfr. v. TORRENTE e SCHLESINGER, Manuale di diritto privato
(XV edizione), Giuffrè, Milano, 1997, par. 295; al paragrafo
292 dello stesso manuale si riporta con grande espressività
che “proposta e accettazione si fondono in una volontà
unica, la volontà contrattuale”.
[235]- A tal proposito v. supra Cap. III, par. 3 e relative note.
Si veda anche D’ARRIGO, Prospettive della c.d. licenza a strappo
nel nostro ordinamento, in Dir. Inf. 1996, pp. 462-468; DE SANCTIS
e FABIANI, I contratti di diritto d’autore, Giuffrè,
Milano 2000, p. 373.
[236]- A tal proposito v. LENER, La nuova disciplina delle clausole
vessatorie nei contratti dei consumatori, in Foro it. 1996, V, pp.
146 ss.
[237]- Cfr. il testo delle Creative Commons Public License. Allo
stesso modo si veda l’art. 5 della Licence Art Libre che dice:
“Questa licenza prende effetto dalla vostra accettazione delle
sue disposizioni. Il fatto di copiare, diffondere o modificare l’opera
costituisce una tacita accettazione.”
[238]- Cfr. SCOGNAMIGLIO, Le informazioni sul regime dei diritti,
in AIDA, 2002, p. 273.
[239]- Cfr. TORRENTE e SCHLESINGER, op. cit., par. 295.
[240]- A tal proposito v. TORRENTE e SCHLESINGER, op. cit., par.
364.
[241]- Per un approfondimento su questo aspetto v. CHITI, La disciplina
giuridica dell’editoria elettronica: analisi e prospettive,
in Inf. e dir., 2003, pp. 7 ss; e DE VIVO, op. cit.
[242]- Per i parametri di classificazione scelti si veda il par.
287 (La classificazione dei contratti) di TORRENTE e SCHLESINGER,
op. cit..
[243]- Per le implicazioni soggettive del diritto d’autore
in ambito internazionale, v. L.C. UBERTAZZI, I diritti d’autore
e connessi. (cit.), cap. IV, par. 12, p. 55 ss.
[244]- Recepita dall’art. 57 della L. 31 maggio 1995, n. 218
(Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato).
[245]- Entrambi i testi sono interamente riportati e organicamente
commentati in MOSCONI, Diritto internazionale privato e processuale
- Parte generale e contratti, UTET, Torino, 1999.
[246]- Cfr. fra tutti MOSCONI, op. cit., cap. VI, par. 6.
[247]- Si riporta il testo dell’articolo: “Chi venga
leso nell’esercizio di un diritto di utilizzazione economica
a lui spettante può agire in giudizio per ottenere che sia
distrutto o rimosso lo stato di fatto da cui risulta la violazione
o per ottenere il risarcimento del danno.”
[248]- A tal proposito v. supra Cap. IV, par. 3.2.
[249]- Per il chiarimento di questo concetto v. TORRENTE e SCHLESINGER,
op. cit., par. 394.
[250]- Per il chiarimento di tale concetto e per le sue implicazioni
giuridiche (in particolare a livello probatorio), v. COMOGLIO, FERRI,
TARUFFO, Lezioni sul processo civile, Il Mulino, Bologna, 1998,
Cap. 23, par. 5; per l’applicazione di tale meccanismo in
fatto di diritto d’autore v. DAVIES, Copyright and the public
interest, Sweet & Maxwell, London, 2002, Cap. 12, par. 013,
p. 324.
[251]- In particolare ci si riferirà alle definizioni che
si trovano alla voce “Diritto d’autore” all’interno
del Digesto delle discipline privatistiche (sezione commerciale).
[252]- Così AMMENDOLA e UBERTAZZI, Diritto d’autore,
in Dig. Priv. Comm., par. 9, p. 389. Per la disciplina di queste
opere si vedano gli artt. 38 ss. l.a.
[253]- Cfr. AMMENDOLA e UBERTAZZI, op. cit.., par. 10, p. 392. La
definizione riprende il dettato dell’art. 10 l.a.
[254]- v. artt. 33 ss. l.a.
[255]- v. artt. 44 ss. l.a.
[256]- Degli aspetti a favore e a detrimento dell’assimilazione
fra opere multimediali e opere cinematografiche si è già
detto (Cap. IV, par. 4.2).
[257]- Così SANTO, Le licenze pubbliche GNU, tesi di laurea,
Università degli Studi di Pavia, Fac. di Giurisprudenza,
aprile 2003; cap. VIII, par. 3.
[258]- Così AUTERI, Diritto d’autore, in AA.VV., Diritto
Industriale - Proprietà intellettuale e concorrenza, Giappichelli,
Torino, 2001, p. 575.
[259]- Per un approfondimento su alcuni aspetti peculiari delle
libere utilizzazioni, in particolar modo riferite ai principi della
società dell’informazione, si veda: ABRIANI, Le utilizzazioni
libere nella società dell’informazione: considerazioni
generali, in AIDA, 2002, pp. 98-126; DI RIENZO, Le utilizzazioni
libere: non profit, in AIDA, 2002, pp.235-270; GALLETTI, Le utilizzazioni
libere: copia privata, in AIDA, 2002, pp. 146-193; GALLI, Le utilizzazioni
libere: ricerca, in AIDA, 2002, pp. 135-145; GATT, Le utilizzazioni
libere: di opere d’arte, in AIDA, 2002, pp. 194-218; v. anche
RICOLFI, Internet e le libere utilizzazioni, in AIDA, 1996, pp.
115 ss.
[260]- Il titolo stesso di questo paragrafo riecheggia quelli di
alcuni interessanti saggi statunitensi: v. MAHER, Open source: the
success of an alternative intellectual property incentive paradigm,
in Fordham Intell. Prop. Media & Entert. L. Journ. 2000, p.
620; e soprattutto STRASSER, A new paradigm in intellectual property
law?: the case against open sources, in Stanf. Tech. L. Rev. 2001,
4.
[261]- Per una chiara spiegazione delle differenze fra sistema di
diritto d’autore e sistema di copyright, v. SPADA, Introduzione
in AA.VV., Diritto Industriale - Proprietà intellettuale
e concorrenza, Giappichelli, Torino, 2001, par. 9, p. 28.
[262]- Cfr. art. 20 l.a.
[263]- In generale sulle difficoltà dell’attuazione
dei diritti d’autore in un contesto telematico v. SCHLACHTER,
The intellectual property renaissance in cyberspace: why copyright
law could be unimportant on the internet, in Intell. Prop. L. Rev.,
1999; pp. 545-581 (originariamente pubblicato in Berkeley Tech.
L. Journ., 1997).
[264]- Cfr. AUTERI, Diritto d’autore, in AA.VV., op. cit.,
p. 571.
[265]- Sui cambiamenti nell’lato soggettivo dei diritti d’autore
nella società dell’informazione, v. GIOIA, I soggetti
dei diritti, in AIDA, 2002, pp. 80-97.
[266]- AUTERI, Diritto d’autore, in AA.VV., op. cit., p. 571.
[267] - “Quando un’attività economica, o integrata
in un’attività economica, è riservata, si parla
di ‘privativa’ od ‘esclusiva’.” Cfr.
SPADA, Introduzione in AA.VV., op. cit., par. 5, p. 14.
[268]- Sulla possibilità di abusi di tali posizioni monopolistiche
e quindi sulle intersezioni fra diritto d’autore e normativa
antitrust, v. SARTI, Antitrust e diritto d’autore, in AIDA,
1995, pp. 103 ss.; SARTI, Antitrust e diritti esclusivi: osservazioni
in margine al caso Panini, in Concorrenza e mercato, 1997, pp. 279
ss.; RICOLFI, Diritto d’autore e abuso di posizione dominante,
in Riv. Dir. Ind. 4/5-2001.
[269]- Per le ragioni che giustificano la protezione di diritto
d’autore v. AUTERI, Diritto d’autore, in AA.VV., op.
cit., p. 484; v. diffusamente SPADA, Introduzione in AA.VV., op.
cit..
[270]- Per un chiarimento della dicotomia fra beni materiali e beni
immateriali v. principalmente ASCARELLI, Teoria della concorrenza
e dei beni immateriali, Giuffrè, Milano, 1960; v. anche SPADA,
Introduzione in AA.VV., op. cit., par. 4, p. 8; LEONE, La concessione
del software fra licenza e locazione, in ALPA e ZENO-ZENCOVICH (a
cura di), I contratti d’informatica, Giuffrè, Milano,
1987, pp. 349-360; TORRENTE e SCHLESINGER, op. cit., par. 59.
[271]- JEFFERSON, Writings of Thomas Jefferson, vol. VI, H.A. Washington
Ed., 1854, pp. 180-181 come riportato da SAMUELSON, L’informazione
è proprietà?, in VALVOLA SCELSI (a cura di) No copyright
- nuovi diritti nel 2000, Shake Underground, Milano, 1994, p. 134.
Tale riflessione è ribadita anche da John Barlow che con
toni più colloquiali dice: “se io rubo la vostra informazione,
voi ce l’avete ancora. Se rubo il vostro cavallo, non potete
più cavalcare.” Cfr. VALVOLA SCELSI (a cura di), No
copyright - nuovi diritti nel 2000, Shake Underground, Milano, 1994,
p. 42.
[272]- Cfr. VALVOLA SCELSI, op. cit., p. 42.
[273]- Cfr. WILLIAMS, Codice libero - Richard Stallman e la crociata
per il software libero, Apogeo, Milano, 2003 (cap. 9, nota 88).
[274]- Su questo argomento fondamentale si veda in generale DAVIES,
Copyright and the public interest, Sweet & Maxwell, London,
2002; LESSIG, The Future of Ideas: the fate of the commons in a
connected world, Random House, U.S.A., 2001.
[275]- Cfr. AUTERI, Diritto d’autore (cit.), cap. IV, par.
15, p. 574; a tal proposito v. anche SPADA, Introduzione (cit.),
par. 11, p. 35.
[276]- Cfr. ABRIANI, Le utilizzazioni libere nella società
dell’informazione: considerazioni generali, in AIDA, 2002,
p. 100.
[277]- Per una dettagliata trattazione del concetto di interesse
pubblico legato al mondo delle comunicazioni di massa e del diritto
d’informazione come riflesso speculare della libertà
d’espressione ex art. 21 Cost. v. TONOLETTI, Principi costituzionali
dell’attività radiotelevisiva, in AA.VV., Percorsi
di diritto dell’informazione, Giappichelli, Torino, 2003,
pp. 215 ss.; VIGEVANI, Diritto di cronaca e di critica, in AA.VV.,
Percorsi di diritto dell’informazione, Giappichelli, Torino,
2003, pp. 37 ss.; CARETTI, Diritto dell’informazione e della
comunicazione, Il Mulino, Bologna, 2001.
[278]- A tal proposito v. NETANEL, Locating copyright within the
first amendment skein, in Intell. Prop. L. Rev. 2002, pp. 439-524.
[279]- Di diritto d’accesso parla anche DAVIES, op. cit.,
cap. 12, par. 003, pp. 309 ss.
[280]- Su tutti questi aspetti in generale si veda RUBENFELD, The
freedom of Imagination: Copyright’s Constitutionality, in
Intell. Prop. L. Rev., 2003; pp. 323-382; CARETTI, Diritto dell’informazione
e della comunicazione, Il Mulino, Bologna, 2001.
[281]- Cfr. il saggio L’interpretazione sbagliata sul copyright:
una serie di errori in STALLMAN, Software libero, pensiero libero
(cit.).
[282]- A tal proposito v. in generale lo spirito del libro VALVOLA
SCELSI, op. cit., p. 134; oppure anche l’accenno compiuto
da L.C. UBERTAZZI, I diritti d’autore e connessi. (cit.),
p. 29; oppure si vedano siti web come www.copyfight.org o www.negativland.com;
di ‘no-copyright’ parla diffusamente anche DE VIVO,
L’informazione in rete, con che diritto?, in Inf. e dir.,
2000, pp. 136 ss.
[283]- Con buona pace di Maurizio Barbarisi che sembra non aver
colto per nulla il pensiero di Stallman e tanto meno il senso del
fenomeno copyleft: “Ben può rilevarsi quanto possa
apparire utopico il desiderio del famoso hacker Richard Stallman
circa l’avvento prossimo di un mondo completamente libero
dal copyright.” Cfr. BARBARISI, La tutela della proprietà
intellettuale, in TOSI, (a cura di) I problemi giuridici di Internet.
Dall’E-commerce all’E-business, Giuffrè, Milano,
2001, p. 217.
[284]- In tal senso (come è facilmente intuibile dai titoli)
si esprimono i saggi MOGLEN, Il trionfo dell’anarchia: il
software libero e la morte del copyright,1999 disponibile sul sito
http://moglen.law.columbia.edu/publications/anarchism-it.html; BOBKO,
Open source software and the demise of copyright, in Rutgers Computer.
& Tech. L. Journ., 2001, 51.
[285]- v. supra Cap. V, par. 8.
[286]- LESSIG, The Future of Ideas (cit.); informazioni sul libro
e suoi estratti si possono trovare su http://cyberlaw.stanford.edu/future/
oppure su http://the-future-of-ideas.com/.
[287]- DAVIES, Copyright and the public interest, Sweet & Maxwell,
London, 2002.
[288]- v. DAVIES, op. cit., Cap. 9, par. 004, pp. 247 ss.
[289]- v. DAVIES, op. cit., Cap. 9, par. 006, pp. 249 ss.
[290]- Sul concetto di ‘dominio pubblico pagante’ in
fatto di diritto d’autore, v. SPADA, Introduzione in AA.VV.,
op. cit., par. 10.4, p. 33.
[291]- v. DAVIES, op. cit., Cap. 9, par. 010, pp. 256 ss.
[292]- v. DAVIES, op. cit., Cap. 9, par. 007, pp. 251 ss.
[293]- v. DAVIES, op. cit., Cap. 9, par. 008, pp. 253 ss.
[294]- v. DAVIES, op. cit., Cap. 9, par. 009, pp. 255 ss.
[295]- Cfr. L.C. UBERTAZZI, I diritti d’autore e connessi.
(Scritti, quaderni di AIDA n.5), Giuffrè, Milano, 2000, cap.
III, par. 2, p. 30.
[296]- A tal proposito v. l’intero capitolo 10 di v. DAVIES,
op. cit. (pp. 265 ss.).
[297]- SPADA, Introduzione in AA.VV., op. cit., par. 9, p. 29.
[298]- Cfr. GIOIA, I soggetti dei diritti, in AIDA, 2002, p. 94.
[299]- Molti autori hanno parlato di una componente giusnaturalistica
dei diritti d’autore. Fra tutti v. AUTERI, Diritto d’autore,
in AA.VV., op. cit., cap. I, par. 1, p. 485: “La protezione
dell’autore è stata però anche giustificata
con la concezione di impronta giusnaturalistica che riconosce a
qualsiasi persona la proprietà dei risultati (soprattutto
creativi) del proprio lavoro.”
[300]- AUTERI, Diritto d’autore, in AA.VV., op. cit., cap.
VI, par. 1, p. 603.
[301]- Su questi aspetti riferiti specificamente al sistema statunitense
di copyright v. ELKIN-KOREN, Copyright policy and the limits of
freedom of contract, in Intell. Prop. L. Rev., 1998, pp. 451 ss.
[302]- Cfr. AUTERI, Diritto d’autore, in AA.VV., op. cit.,
cap. VI, par. 1, p. 603.
[303]- Cfr. DAVIES, Copyright and the public interest, Sweet &
Maxwell, London, 2002, cap. 12, par. 013, p. 324.
[304]- Su questo aspetto e in generale sui problemi di compatibilità
del copyright con l’attuale mondo delle comunicazioni v. SCHLACHTER,
The intellectual property renaissance in cyberspace: why copyright
law could be unimportant on the internet, in Intell. Prop. L. Rev.,
1999; pp. 545-581 (originariamente pubblicato in Berkeley Tech.
L. Journ., 1997).
[305]- Si esprime diversamente Pierfrancesco Catarinella: “l’attuale
ius conditus, che ovunque si limita a riconoscere ad ogni autore
la facoltà di rinunciare ai propri diritti patrimoniali,
pare perfettamente sufficiente, di massima, alla promozione della
creatività.” Cfr. CATARINELLA, Appunti comparativi
sul diritto d’autore in internet, in IDA., 3/2003, p. 347.
[306]- Sui problemi di disparità dei due modelli e sulle
derivanti difficoltà per l’armonizzazione, v. DAVIES,
op. cit., cap. 13, pp. 327 ss.
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