CAPITOLO VI
IMPLICAZIONI GIURIDICHE E PROSPETTIVE
DEL FENOMENO COPYLEFT

INTRODUZIONE. – Giungiamo ora ad un necessario capitolo conclusivo in cui esaminare nel dettaglio le implicazioni giuridiche di questo nuovo modello di diffusione e condivisione delle conoscenze e delle idee creative. Analizzeremo dapprima i punti di attrito che esso incontra con i principali ambiti giuridici, ci soffermeremo sulle istanze innovative per il diritto d’autore e infine cercheremo di tracciare un quadro prospettico delle possibili evoluzioni di questo panorama complesso e ancora indefinito.

1. COPYLEFT E DIRITTO PRIVATO. – Abbiamo già delineato quali implicazioni con il diritto privato contrattuale possano avere le licenze d’uso di software in generale, sottolineando l’atipicità del rapporto fra autore del software (licenziante) e utente del software (licenziatario) simile ad un rapporto di locazione del bene-software. Tale impostazione giuridica può essere trasposta anche sull’ambito delle licenze di software libero ed open source che abbiamo esaminato, dato che l’oggetto del contratto (l’uso del bene immateriale software, appunto) non cambia, ma al massimo cambiano i limiti con cui il rapporto viene disciplinato. Vediamo però ora di entrare nello specifico della delineazione giuridica di questo nuovo tipo contrattuale (che è in generale la licenza copyleft) alla luce dei principi fondamentali del diritto delle obbligazioni contrattuali.

1.1. IL COPYLEFT E I PRINCIPI GENERALI DEI CONTRATTI. – Il primo aspetto è quello soggettivo: da un lato abbiamo l’autore dell’opera, nonché titolare dei diritti di tutela e di sfruttamento economico della stessa, e lo possiamo chiamare ‘licenziante’; dall’altro lato abbiamo invece un soggetto ipotetico che è utente dell’opera e destinatario dei termini del contratto-licenza e lo possiamo chiamare ‘licenziatario’.
Per quanto riguarda l’aspetto oggettivo, abbiamo già detto che si tratta di disciplinare mediante negozio giuridico i termini con cui l’utente può usufruire del bene immateriale. Si può dunque affermare che si tratta di un contratto a prestazioni corrispettive (sinallagmatico) nel quale la prestazione del licenziante consiste nel concedere la possibilità di utilizzare l’opera (ed eventualmente di distribuirla, di modificarla ecc.), mentre la prestazione del licenziatario consiste nel non fare ciò che non viene espressamente autorizzato dall’altro soggetto (obbligo di fare e di non fare).
Dal punto di vista della formazione del consenso, si può correttamente fare riferimento alla disciplina istituzionale dei cosiddetti contratti standard o ‘per adesione’, così come delineata dal manuale di Torrente e Schlesinger: la licenza copyleft sarebbe così equiparata a quei “contratti di massa che un’impresa conclude con un gran numero di persone” (come ad esempio i servizi telefonici, i servizi bancari ecc.). Come chiariscono gli artt. 1341 e 1342 del codice civile, le condizioni generali del contratto sono predisposte da uno solo dei due contraenti, ma “sono efficaci solo se la parte che le ha predisposte abbia fatto in modo di garantire che l’altro contraente, usando l’ordinaria diligenza, sarebbe stato in grado di conoscerle”[234] .
Alcuni autori si sono espressi per un’assimilazione delle licenze come la GPL alla disciplina delle shrink-wrap licenses, ovvero le cosiddette licenze a strappo[235] : licenze d’uso di software che equiparano la rottura fisica della confezione del prodotto ad un’accettazione in toto dei termini del contratto, creando così una situazione paradossale dato che, nella maggior parte dei casi, l’utente non può conoscere l’intero complesso delle clausole dato che esse sono visibili solo all’interno della confezione. Non è un caso che sia in Italia che all’estero si sia stigmatizzata questa prassi alla luce dei principi di tutela contro le clausole vessatorie[236] , principalmente per la carenza del requisito della ‘conoscibilità per mezzo dell’ordinaria diligenza’. Nel caso di opere multimediali o comunque trasmesse in via telematica e quindi in forma immateriale, non si può certo verificare una fase di vera e propria rottura della confezione, ma piuttosto si potrebbe ravvisare tale passaggio, ad esempio, nell’atto di downloading (acquisizione telematica) dell’opera.
Tuttavia, nonostante i dubbi di validità di contratti basati su una sorta di esternazione automatica dal consenso, la maggior parte delle licenze (ad esempio tutte le CCPL, nella loro versione ‘legal code’), riportano un disclaimer (avvertenza) preliminare che sembra proprio fare riferimento ad una sorta di automaticità: “Con l’esercizio di qualsiasi diritto qui di seguito esplicato derivante dall’opera, tu accetti e ti obblighi a rispettare i termini della presente licenza. Il licenziante concede a te i diritti qui contenuti in virtù dell’accettazione da parte tua dei termini e delle condizioni suddette.” [237]
Un altro tipo di clausola giudicabile come vessatoria è quella (tipica del copyleft ‘autentico’ prediletto da Stallman) dello ‘share alike’ ovvero dell’obbligo di trasposizione ad libitum dei diritti contenuti nella licenza; caratteristica che in un certo senso soffoca con tale automatismo la capacità di scelta del contraente.
I problemi derivanti dalla prospettata vessatorietà di certe clausole sarebbero risolvibili mettendo l’utente-licenziatario nella condizione di poter diligentemente conoscere i termini del contratto prima di acquisire l’opera. Per esempio, nel caso di opere copyleft scaricate da siti e archivi Internet, basterebbe che, prima di effettuare il download dell’opera, appaia in modo visibile un disclaimer che avverta sinteticamente sui termini della licenza ed eventualmente rimandi al suo testo integrale per dubbi e chiarimenti; similmente a quanto accade per i siti vietati ai minori, per i quali vi è l’obbligo (anche se non universalmente osservato) di avvisare il navigatore del contenuto potenzialmente offensivo e volgare delle pagine richieste.
A tal proposito si veda la dottrina e la normativa relativa alle cosiddette ‘informazioni sul regime dei diritti’, tema diventato molto rilevante ora che i modelli di distribuzione si fanno sempre più complessi e disparati. La direttiva europea 92/59/CE, relativa alla sicurezza generale dei prodotti, ma che in via estensiva possiamo riferire anche alle opere dell’ingegno in quanto prodotti editoriali, all’art. 3 “sancisce l’obbligo del produttore di fornire al consumatore le informazioni utili alla valutazione ed alla prevenzione dei pericoli derivanti dall’uso normale, o ragionevolmente prevedibile, del prodotto, se non immediatamente percettibili senza adeguate avvertenze” [238] .
Oltre ai principi sull’aspetto consensuale dei contratti standard in generale, il diritto privato italiano prevede una disciplina specifica per una categoria ancora più ristretta di tale tipo contrattuale: ci riferiamo agli artt. 1469 bis e seguenti del codice civile riferiti ai cosiddetti contratti coi consumatori. Si tratta di una serie di specifiche tutele resa necessaria dalle nuove modalità (sempre più invasive) di diffusione e reclamizzazione dei beni, le quali spesso pongono il singolo consumatore in una posizione svantaggiata rispetto alle grandi strategie di marketing messe in atto dalle imprese e dagli operatori del mercato; tali tutele si aggiungono appunto a quelle già previste dagli artt. 1341 ss. i quali rendono invalide le clausole che eludono i principi di salvaguardia della buona fede in fase di formazione della volontà contrattuale.
Detto questo si capisce in che modo anche l’assimilazione a tale tipo contrattuale, benché utile per la comprensione giuridica del fenomeno, risulti non del tutto appropriata. Per prima cosa vacillerebbe la ratio dell’applicazione di questa particolare disciplina visto che nel caso delle licenze copyleft l’utente dell’opera non si troverebbe affatto in una posizione di svantaggio rispetto a quella dell’autore; inoltre tale normativa si applica “solo ai contratti conclusi tra il consumatore ed il professionista, intendendosi per consumatore la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta […] e per professionista la persona fisica o giuridica […] che, nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale, utilizza il contratto”[239] ; e infine gli artt. 1469 bis ss. sono concepiti per regolare un ambito commerciale di scambio di beni prevalentemente dietro corrispettivo in denaro, mentre le licenze copyleft attengono alla diffusione di opere dell’ingegno e generalmente a titolo gratuito.
In ultima analisi bisogna considerare alcune caratteristiche delle licenze che le avvicinano per i loro effetti alla categoria negoziale delle promesse al pubblico: si tratta di quelle dichiarazioni unilaterali che risultano vincolanti per il loro emittente non appena sono rese pubbliche[240] . Consideriamo il caso in cui un autore abbia diffuso un’opera sotto licenza copyleft con permesso di modifica, ma successivamente si penta della sua scelta e voglia cambiare il regime di tutela della licenza vietando la realizzazione di opere derivate. I licenziatari che però abbiano già ricevuto una copia dell’opera con un chiaro riferimento all’originario regime di licenza potranno legittimamente usarla per realizzarne opere derivate, dato che agirebbero in totale buona fede e non potrebbero diligentemente risalire alla mutata volontà del licenziante.

1.2. IL COPYLEFT E I CONTRATTI DI DIRITTO D’AUTORE. – Consideriamo ora la possibilità di incanalare le licenze copyleft nei modelli contrattuali classici del diritto d’autore italiano, contemplati dal Titolo III, Capo II della legge 633/1941 (l.a.) rubricato “Trasmissione dei diritti di utilizzazione”; ci soffermiamo sulle norme della Sezione III dedicata al contratto di edizione e della successiva sezione IV sui contratti di rappresentazione ed esecuzione.
Secondo l’art. 118 l.a. il contratto di edizione è “il contratto con cui l’autore concede ad un editore l’esercizio del diritto di pubblicare per le stampe, per conto e a spese dell’editore stesso, l’opera dell’ingegno”. Già da questa prima laconica definizione possiamo rilevare alcune non sottovalutabili incongruenze col modello copyleft. Per prima cosa, dal lato soggettivo, abbiamo più volte specificato che il rapporto regolato dalla licenza copyleft riguarda l’autore e l’utente, lasciando totalmente estraneo l’editore; potremmo addirittura ipotizzare che una delle funzioni primarie di tutto il sistema del copyleft è proprio la modifica degli stereotipi soggettivi del diritto d’autore che vedono l’editore come fulcro delle trattative contrattuali sui diritti d’utilizzazione dell’opera: l’autore che sceglie il modello copyleft lo fa principalmente per evitare l’intermediazione di altri soggetti nella fase di pubblicazione, cosa che è resa possibile (e consigliabile) grazie al nuovo universo telematico e digitale. Inoltre l’art. 118 fa esplicito riferimento alla pubblicazione a mezzo stampa, quando nel caso di opere copyleft, diffuse quasi esclusivamente in formato digitale, la pubblicazione cartacea invece sopraggiunge come fase solo successiva ed eventuale. E d’altronde né la giurisprudenza né la dottrina si sono ancora espresse in modo uniforme su un’equiparazione giuridica fra la stampa (tradizionalmente intesa) e le nuove possibilità offerte dall’interconnessione telematica[241] .
Secondo l’art. 136 il contratto di rappresentazione (e per analogia anche quello di esecuzione) è “il contratto con il quale l’autore concede la facoltà di rappresentare in pubblico un’opera drammatica, drammatico-musicale, coreografica, pantomimica o qualunque altra opera destinata alla rappresentazione”. In questo caso bisogna ammettere che l’applicazione in via analogica di questa definizione al modello di licenza copyleft risulta meno forzata, soprattutto per il fatto che gli artt. 136 ss. non fanno preciso riferimento ad un soggetto con caratteristiche standardizzate come l’editore, bensì ad un più generico ‘concessionario’, concetto che si può meglio assimilare a quello di ‘licenziatario’ dell’opera copyleft. Bisogna però anche tener presente il tenore piuttosto settoriale della definizione di ‘opera destinata alla rappresentazione’, che, nonostante la formula di apertura (“qualunque altra opera destinata alla rappresentazione”), lascia scoperta tutta la gamma (decisamente rilevante) delle opere puramente letterarie e documentali diffuse sotto copyleft.

1.3. CONSIDERAZIONI SINTETICHE. – In via di sintesi possiamo quindi constatare che la licenza copyleft non è stabilmente inquadrabile in una delle tipologie contrattuali previste dal diritto privato in generale, ma tuttavia è possibile delinearne le caratteristiche giuridiche alla luce dei principi generali[242] : abbiamo dunque a che fare con un contratto atipico, sinallagmatico, standardizzato, a titolo (solitamente) gratuito, di tipo consensuale, di durata, che ha ad oggetto una serie di obblighi di fare (per es. l’obbligo di ulteriore condivisione, ‘share alike’) e di non fare (per es. l’obbligo di non apporre modifiche, ‘no derivs’), stipulato da un soggetto determinato (l’autore) e uno indeterminato ma determinabile (l’utente). Tale tipo contrattuale presenta alcuni problemi dal punto di vista soggettivo e soprattutto in fatto di formazione del consenso di una parte, che però possono essere ovviati applicando alcune comuni cautele.

2. COPYLEFT E DIRITTO INTERNAZIONALE. – Un altro fondamentale aspetto strettamente connesso con quanto appena detto e su cui è opportuna una seria riflessione riguarda la validità delle licenze copyleft in ambito internazionale[243] ; una simile ottica ampliata è resa infatti necessaria dalla compagine globale e interconnessa delle comunicazioni attuali. Data per acquisita la loro natura di contratto, il testo normativo di maggior pregnanza è la ‘Convenzione sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali’ sancita a Roma nel 1980[244] ; in seconda battuta ci si riferirà alla Convenzione sulla competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale sancita a Bruxelles nel 1969[245] .
Innanzitutto questo tipo di approccio ci guida nella determinazione della legge applicabile alle licenze copyleft, quando i soggetti destinatari delle opere appartengano ad un ordinamento diverso da quello dell’autore-licenziante; di conseguenza sarà possibile alla luce di tale legge chiarire gli aspetti di validità delle clausole del particolare tipo contrattuale e ottenere una normativa di riferimento anche in campo processuale.
Iniziamo dal principio (fondamentale per il diritto internazionale privato) della libertà di scelta della legge applicabile da parte dei contraenti ex art. 3 della Convenzione di Roma: “Il contratto è regolato dalla legge scelta dalle parti. La scelta dev’essere espressa, o risultare in modo ragionevolmente certo dalla disposizioni del contratto o dalle circostanze.” Passando in rassegna i contenuti giuridici delle licenze copyleft in generale è difficile trovare riferimenti espliciti ed inequivocabili alla legge applicabile in caso di controversia legale; ovviamente questo silenzio è voluto dai redattori delle licenze probabilmente nell’intento di non precludere a priori vie di applicazione di tali documenti giuridici.
Le licenze Creative Commons contengono nel loro preambolo una dicitura piuttosto generica che vuole fare riferimento ai principi internazionali in fatto di copyright e diritto d’autore: “l’opera è protetta dal copyright e/o da altra normativa applicabile”. Unico caso di licenza con esplicito riferimento è la Art Libre License che alla sezione 8 (dedicata alla ‘Legge applicabile al contratto’) sottopone la disciplina della stessa alla legge francese; si può citare inoltre il testo della dichiarazione che Creative Commons prevede per il rilascio di un’opera in public domain, che specifica di essere basato sulla legge statunitense: come abbiamo già precisato, tuttavia, essa non consiste in una vera licenza-contratto, ma semplicemente in una dichiarazione unilaterale.
Spetta dunque all’interprete, in mancanza di scelta, dedurre il quadro normativo di riferimento. All’uopo soccorre l’art. 4 della Convenzione di Roma il quale appunto prevede che “nella misura in cui la legge che regola il contratto non sia stata scelta a norma dell’art. 3, il contratto è regolato dalla legge del paese col quale presenta il collegamento più stretto.” Bisogna dunque nel nostro caso considerare quali aspetti fattuali e giuridici del fenomeno determinino tale collegamento. Il secondo comma dell’art. 4 indica alcune fattispecie tipiche in cui si presume la maggior aderenza del collegamento; questa lista, presentata dal legislatore internazionale a titolo esemplificativo (e non tassativo) è arricchita dall’intervento della dottrina[246] e riguarda casi di fornitura di beni o servizi che quindi non si adattano al caso della concessione d’uso di un’opera dell’ingegno.
Si ripropone, anche se in proporzioni diverse, l’identica difficoltà di delimitazione del problema che abbiamo incontrato in ambito di diritto privato; bisogna ancora una volta, dunque, guardare alla disciplina dei contratti conclusi dai consumatori, per ottenere maggiori punti di contatto. Tale disciplina è prevista a livello internazionale dall’art. 5 della Convenzione di Roma (e dall’art. 13 della Convenzione di Bruxelles per quanto riguarda gli aspetti processuali ed esecutivi): secondo l’art. 5.3 tali contratti, in mancanza di scelta delle parti e in deroga all’art. 4, “sono sottoposti alla legge del paese nel quale il consumatore ha la sua residenza abituale”. Anche in questo articolo si ritrova lo spirito di tutela del consumatore in quanto parte svantaggiata, già incontrato negli artt. 1469 bis e seguenti del Codice Civile italiano, come dimostra la ratio dell’art. 5.2: “In deroga all’art. 3, la scelta ad opera della parti della legge applicabile non può aver per risultato di privare il consumatore della protezione garantitagli dalle disposizioni imperative della legge del paese nel quale risiede abitualmente” in certi casi ben delineati nella parte successiva del comma. Anche questi casi si riferiscono però ad attività tipicamente commerciali di scambio di beni e di servizi che non possono essere equiparabili al fenomeno del copyleft.
Tuttavia, in un’ottica internazionalistica, tale spirito di tutela del consumatore-utente dell’opera copyleft (pur con le cautele concettuali che abbiamo chiarito poco fa a proposito di tale equiparazione), può essere invocato per tutelare la buona fede di colui che riceve o ottiene l’opera prima ancora di averne conosciuto il regime di licenza. Quindi, ad esempio, se nel paese dell’autore-licenziante una licenza copyleft con una clausola di accettazione automatica nello spirito shrink-wrap (come le licenze Creative Commons) può essere considerata valida a tutti gli effetti, in un paese (come l’Italia) in cui tali clausole sono considerate invalide, la buona fede dell’utente-licenziatario sarebbe tutelata fino ad una sua accettazione espressa dei termini della licenza.

3. ALCUNI RILIEVI PROCESSUALI. – I rilievi di diritto sostanziale fin qui compiuti hanno un senso ovviamente se trasposti in una dimensione di effettivo esercizio dei diritti derivanti dal contratto-licenza; in altre parole, trattandosi di diritto privato contrattuale tutto l’apparato normativo entra in azione in modo tangibile e concreto nel momento in cui una delle parti chiami in causa l’altra per la modificazione, definizione, estinzione dei diritti o per l’eventualità di risarcimento di danni derivanti dal mancato rispetto delle disposizioni negoziali (v. art. 158 l.a.[247] ). Non si vuole ovviamente svolgere una trattazione totale e dettagliata di tutte le implicazioni che il copyleft può avere con il diritto processuale, ma possiamo almeno soffermarci su alcune particolari riflessioni.
L’aspetto più problematico in fatto di opere copyleft e più in generale (come abbiamo già accennato) in fatto di opere digitali e telematiche è quello probatorio. Affinché un autore-licenziante chiami in giudizio un utente che abbia in qualche modo infranto o ignorato le condizioni della licenza dovrà in primo luogo dimostrare giudizialmente che la controparte fosse stata messa al corrente in modo efficace dei termini del contratto: ciò risulta veramente difficile a livello pratico viste le caratteristiche di evanescenza e mutevolezza derivanti dal sistema digitale e telematico.
E comunque, pur riuscendo a provare l’effettiva ricezione della licenza, rimarrebbe il problema della prova della sua accettazione, che, come abbiamo visto, comporta alcune delicate questioni di tutela della buona fede e dell’ordinaria diligenza del licenziatario. Gli stessi problemi legati alla difficoltà nel determinare i soggetti della controversia si ripercuotono anche specularmente nella sfera dell’autore che intenda mantenere l’anonimato, diffondendo l’opera anonima o sotto pseudonimo, diritto peraltro garantitogli dall’art. 9 l.a.
Consideriamo anche l’ipotesi dell’illecito di contraffazione. E’ palese che nel caso di opere distribuite in formato digitale per via telematica (come la maggioranza delle opere copyleft) tale concetto non può essere riferito alla componente materiale dell’opera (corpus mechanicum) e perciò non può essere considerato (nell’impostazione tradizionale) come violazione del diritto esclusivo di riproduzione[248] ex art. 13 l.a. Tuttavia il catalogo delle difese e sanzioni per cosi dire tradizionali del diritto d’autore (artt. 156 ss. l.a.) sono modellate sulla materialità del concetto di riproduzione; mentre (lo ripetiamo ulteriormente) le opere copyleft nascono e spesso rimangono in un formato digitale, proprio con il precipuo scopo di diffondersi il più liberamente possibile. Dal punto di vista delle sanzioni penali, gli artt. 171 bis e seguenti l.a. inseriti dalla L. 248/2000 (Legge antipirateria) da un lato sono atti a disciplinare fenomeni di carattere digitale o comunque immateriale (ad esempio l’art. 171 ter si riferisce esplicitamente alla duplicazione abusiva di opere multimediali per mezzo di metodi digitali), ma non si riferisce all’eventualità in cui sia l’autore stesso ad autorizzare la copia a priori e tout court.
Dobbiamo quindi cercare tali risposte nell’ambito puramente privatistico, considerando la contraffazione di un’opera copyleft come il mancato rispetto dei termini della rispettiva licenza e come un comune illecito contrattuale ex artt. 1218 ss. del Codice Civile. Quindi un esempio di contraffazione di queste opere può essere considerato il mancato rispetto del divieto di apporre modifiche per crearne opere derivate: Tizio (licenziatario) scarica da un archivio telematico un documento creato da Caio (licenziante) e distribuito sotto una licenza di tipo ‘Attribution-NoDerivs’; Tizio però, pur avendo avuto modo di conoscere i termini della licenza non se ne cura e distribuisce una versione rivisitata del documento, attribuendone comunque la paternità all’autore originario (Caio). Quest’ultimo, che vede rispettata solo una delle due condizioni base della licenza, può agire nei confronti di Tizio per il risarcimento del danno per responsabilità contrattuale[249] (e, qualora ne sussistano i presupposti, per contraffazione ex artt. 156 ss. l.a.).
Si potrebbero addurre molti altri esempi resi particolarmente problematici dalle difficoltà legate all’effettiva conoscibilità dei soggetti in causa e alla malleabilità (e quindi innata mutevolezza) delle opere in formato digitale. Ne citiamo alcuni, quanto meno per destare l’attenzione su alcuni risvolti patologici del fenomeno copyleft e che solo una costante e organica giurisprudenza potrà ovviare in questi prossimi anni, quando avrà le prime occasioni di esprimersi in proposito.
Il primo riguarda il caso in cui, un soggetto (sia esso in buona o in cattiva fede) acquisisca un’opera proprietaria (ad esempio un romanzo), la trasponga in formato digitale, vi alleghi una qualsiasi licenza copyleft e la distribuisca liberamente via Internet. Simile potrebbe essere il caso di un soggetto che inserisce in un’opera aperta, collettiva e compilativa (come Wikipedia) un contributo tratto però da un’opera proprietaria di cui non ha titolo. Infine c’è il caso speculare del soggetto che si attribuisce e distribuisce con criteri proprietari un’opera sotto licenza copyleft, disconoscendo il legame fra l’opera e la licenza e dichiarando di aver trovato l’opera priva di alcun riferimento di copyright e di averla perciò creduta di dominio pubblico.
A parere di chi scrive, una soluzione abbastanza percorribile per ovviare almeno in parte al problema dell’indeterminatezza dei soggetti potrebbe ravvisarsi nell’applicazione del modello della “firma digitale”[250] (costituito da un sistema di username e password) per accertare l’accettazione dei termini della licenza. Ciò, anche se in effetti stride con i principi etici di libera diffusione delle conoscenze, garantisce maggiormente un corretto esercizio dei diritti che andrebbe a vantaggio di tutti. Ad esempio una simile soluzione di duplice conferma via e-mail è attuata da Creative Commons nella procedura prevista per rilasciare un’opera sotto public domain.

4. COPYLEFT E DIRITTO D’AUTORE. – Entriamo ora nella parte più centrale e pregnante ai fini di questo studio riguardante le implicazioni che il sistema di copyleft denota in rapporto con il diritto d’autore in senso stretto; fonderemo la nostra analisi più che altro sul diritto italiano, nelle sue classificazioni dottrinali e in alcuni suoi aspetti fondamentali.
Per prima cosa cerchiamo di inserire la categoria che fin qui abbiamo chiamato ‘opere copyleft’ all’interno del catalogo di definizioni e classificazioni che provengono dalla dottrina classica del diritto d’autore. Nello specifico ipotizzeremo una comparazione trasversale fra le tre categorie di opere che presentano maggiori punti di contatto con il fenomeno in esame, basato sulla condivisione dei contenuti e sulla possibilità di modifica: le opere collettive, le opere in comunione e le opere composte. In tale passaggio seguiremo principalmente la traccia concettuale disegnata da Maurizio Ammendola e da Luigi Carlo Ubertazzi[251] .

4.1. L’OPERA COPYLEFT COME OPERA COLLETTIVA. – Come primo passo, proviamo a verificare se l’opera copyleft generalmente intesa possa essere in qualche modo ricondotta ad un particolare tipo di opera collettiva. La definizione tradizionale di tale categoria si riferisce ad un’opera “nella quale le singole parti, dovute ad autori diversi, non si compenetrano reciprocamente, ma rimangono distinte ed autonome […] pur nell’ambito di un disegno unitario di coordinamento e di organizzazione creativa […].” Si tratta di una definizione palesemente prevista per opere di compilazione come enciclopedie, riviste, giornali, antologie, che sottolinea il requisito centrale dell’autonomia dei singoli contributi.
Di conseguenza essa può trovarsi aderente al fenomeno delle opere copyleft solo nei casi in cui la condivisione e la possibilità di modifica dei contenuti preservino la distinzione dei diversi contributi: è questo sicuramente il caso di opere inevitabilmente di compilazione come Wikipedia, il dizionario AsSoLi, la rivista telematica PLoS, la rivista cartacea Open Source, le quali hanno appunto intrinseca tale caratteristica. Simile benché più delicato e peculiare è anche il caso di opere di documentazione rilasciate sotto licenza FDL la quale prevede alla sezione 4 un apposito sistema di elencazione e identificazione delle modifiche apportate, qualora le stesse consistano in parti agevolmente isolabili dal contesto dell’opera. Di certo non può essere invece il caso di opere copyleft di tipo musicale, nelle quali le modifiche influirebbero in modo troppo penetrante su tutta l’espressività dell’opera, salvo forse il caso in cui a modificarsi sia solamente la parte testuale che si comporterebbe alla stregua di un’opera letteraria indipendente.
Un’altra caratteristica fondamentale delle opere collettive è l’esistenza di un soggetto titolare dei diritti sia morali che patrimoniali sull’opera collettiva intesa come struttura indipendente dai singoli contributi, “ovvero colui che organizza e dirige la realizzazione dell’opera”[252] . Tale figura è difficilmente ritrovabile nella specie delle opere copyleft, né può essere identificata con la figura dell’autore originario, il quale una volta distribuita l’opera sotto licenza copyleft perde il controllo sulla realizzazione di opere da essa derivate e sulla loro distribuzione.

4.2. L’OPERA COPYLEFT COME OPERA REALIZZATA IN COMUNIONE. – Ora cerchiamo di capire se l’opera copyleft generalmente intesa possa essere invece ricondotta al tipo delle opere realizzate in comunione. Queste opere, a differenza di quelle considerate poco fa, costituiscono delle opere semplici e non composte, nelle quali “la collaborazione creativa di più autori si configura in modo tale che i singoli contributi sono indistinguibili ed inscindibili”[253] . Dunque in questo caso non si hanno un autore dell’opera collettiva e più autori di opere indipendenti in essa raccolte, bensì un rapporto di comunione dei diritti d’autore da parte di tutti i soggetti che hanno apportato il contributo creativo, che vengono qualificati come coautori dell’unica opera semplice (non composta).
Tale modello si adatta in modo più agevole alle esigenze di tutela dei soggetti autori di opere copyleft, anche se, a ben guardare, sarebbe necessaria una ponderazione (da effettuarsi nei casi concreti) dell’effettivo valore dei singoli contributi. In pratica, se appare corretto attribuire la qualifica di coautore dell’opera a colui che ad esempio modifica interamente la parte testuale di un brano musicale sotto licenza OpenMusic, risulta piuttosto azzardato attribuire la stessa qualifica a colui che aggiorna solo qualche formula informatica all’interno di un manuale per software libero.
Il modello dell’opera in comunione, in generale, non si adatta ad opere di compilazione (enciclopedie e banche dati), ma piuttosto ad opere espressive come quelle musicali e come quella cinematografica. E tuttavia risulta problematico per la carenza di un importante aspetto soggettivo e per così dire ‘psicologico’, cioè quello di un’effettiva e consapevole progettualità comune fra i coautori: il concetto di comunione dei diritti d’autore significa implicitamente anche una comune scelta di unire la capacità creativa di più autori; nel caso dell’opera copyleft l’autore crea l’opera in modo che essa sia già completa e l’intervento di altri autori è un’ipotesi solo successiva ed eventuale.

4.3. L’OPERA COPYLEFT COME OPERA COMPOSTA. – A gran parte delle opere copyleft si addice maggiormente una terza classificazione: quella di opera composta, che mantiene il concetto di comunione fra i coautori ma considera i vari contributi perfettamente identificabili, pur rimanendo essi inscindibili dal tutto. Riprendiamo ancora una volta l’enunciazione di Ammendola e Ubertazzi: “Si intende per opera composta quell’opera nella quale i singoli contributi conservano una propria autonomia che li rende suscettibili di utilizzazione separata, e purtuttavia si configurano, nel risultato finale della collaborazione, come elementi essenziali di un insieme organico ove le attività creative dei vari soggetti si esprimono direttamente e solidamente dando origine ad un effetto artistico unitario […].”
L’applicazione di tale definizione risolve molte delle incongruenze create dalle due definizioni precedenti e si distingue per la sua particolare elasticità: è infatti una categoria pensata per ricomprendere opere drammatico-musicali, opere coreografiche e pantomimiche[254] ed opere cinematografiche[255] , ma che ben si adatta alle esigenze di multimedialità[256] , malleabilità e plurisoggettività delle opere copyleft. Possiamo proporre un esempio ipotetico in cui notare la congruità di tale qualificazione: si pensi ad un’opera copyleft che nasce come testo letterario e poi, nelle varie evoluzioni basate sulla libertà di distribuzione e di modifica, si trasforma in un melodramma ed infine in una pellicola cinematografica distribuita in formato digitale.
Lo stesso ragionamento vale indistintamente per le opere copyleft di tipo software[257] e per la relativa documentazione; mentre, come abbiamo già detto, non si adatta alle opere di compilazione le quali appunto richiedono lo specifico inquadramento che abbiamo dimostrato poco fa.

4.4. COPYLEFT E LIBERE UTILIZZAZIONI. – Un altro aspetto del diritto d’autore che presenta alcune occasioni di contatto con il fenomeno copyleft e che merita una seppur breve trattazione è quello delle libere utilizzazioni. Per libere utilizzazioni, espressione corrispondente all’anglosassone ‘fair use’, si intendono alcuni specifici e ben delineati casi eccezionali ai quali non può applicarsi la tutela d’autore, poiché questa risulterebbe inopportuna e contraria agli scopi di promozione della cultura nell’interesse della collettività.
In questi casi, presi in considerazione dagli artt. 65 ss. l.a., l’opera può essere utilizzata liberamente senza alcuna limitazione derivante dai diritti esclusivi dell’autore. Tale istituto, essendo di carattere eccezionale, è sempre stato sottoposto ad un’interpretazione di tipo restrittivo[258] . Tuttavia negli ultimi anni si è via via cercato di adattare il campo d’influenza del fair use alle nuove possibilità di acquisizione delle opere offerte dalle nuove tecnologie; ci si riferisce ai più comuni casi di realizzazione di copie non autorizzate delle opere a scopi didattici e accademici, di diffusione della cultura a livello volontaristico e no-profit, oppure a semplice uso privato e casalingo: in pratica le opere letterarie realizzate per mezzo di fotocopia e quelle musicali o audiovisive realizzate per mezzo degli impianti audio-video casalinghi.[259]
L’avvento del modello di distribuzione del copyleft, a livello per così dire formale, non incide sull’istituto delle libere utilizzazioni. Le licenze copyleft disciplinano, pur con permissività, l’utilizzo dell’opera, che però non può andare oltre quanto espressamente previsto; nei casi coperti da fair use, però l’utilizzo dell’opera rimane disciplinato dall’apposita normativa e l’utilizzo resta libero anche rispetto a quei diritti che la licenza non concede. Il riferimento al fair use contenuto nelle licenze Creative Commons (in versione sintetica) è piuttosto eloquente: “Il diritto di fair use e altri diritti non sono in nessun modo influenzati da quanto qui riportato.”
Al di là dell’aspetto meramente formale, il nuovo paradigma di comunicazione del copyleft incide in via indiretta sui principi posti a fondamento delle libere utilizzazioni, dato che, in teoria, tutto il sistema di distribuzione copyleft, quando svolto a livello telematico verso i singoli utenti, può essere inteso come sottoposto a regime di fair use. Alcune licenze prevedono il divieto di fare usi commerciali delle opere e quindi queste opere rimarranno per definizione in un ambito no-profit; e in generale gran parte del sistema di distribuzione copyleft si basa sull’uso personale e privato dell’opera; e ancora tutte le opere di documentazione informatica e scientifica (ad esempio i progetti Wikipedia e PLoS) nascono con innati scopi didattici e di ricerca.
Il principio etico che regge il fenomeno culturale del copyleft è lo stesso che giustifica in gran parte dei casi il diritto di libera utilizzazione, ovvero la concreta promozione della diffusione delle idee e delle conoscenze. Solo che nel diritto d’autore tradizionale tale principio rappresenta l’eccezione, mentre nel modello di copyleft rappresenta la regola, anzi lo scopo primario.

5. IL COPYLEFT COME NUOVO PARADIGMA DI PROPRIETÀ INTELLETTUALE. – In chiusura dell’analisi giuridica, compiuta sulla base dei principi delle varie branche del diritto chiamate in causa, è il caso di interrogarsi su quali modifiche il fenomeno copyleft sia in grado di apportare all’intera struttura della proprietà intellettuale in generale. Da ciò sarà possibile misurare, anche prospetticamente, in quali termini si possa parlare di “rivoluzione” come molti autori hanno voluto far notare[260] .

5.1. IL COPYLEFT FRA DIRITTI MORALI E DIRITTI PATRIMONIALI. – Innanzitutto è necessario interrogarsi sui riflessi che il copyleft può avere su una dicotomia concettuale cara al diritto continentale d’autore, cioè quella fra diritti morali e diritti patrimoniali.
Come abbiamo già accennato, il copyright di matrice anglo-americana non coglie tale dualismo e si fonda su una concezione monistica del diritto d’autore, inteso principalmente come diritto esclusivo di realizzare e distribuire copie dell’opera (letteralmente infatti ‘copyright’ significa ‘diritto di copia’). Ciò determina che, nell’ottica common law, il diritto d’autore (nel senso di copyright) abbia sempre una valenza di patrimonialità; inoltre tale sistema, per l’applicazione della tutela giuridica, non richiede specifiche caratteristiche di creatività e di conseguenza viene tutelato, in linea di massima, tutto ciò che merita di essere tutelato in ragione della sua commerciabilità.[261]
La tutela prevista invece dal diritto d’autore risulta più pregnante e composita, dato che da un lato richiede alle opere un certo standard minimo di tutelabilità (il requisito del “carattere creativo” ex art. 1 l.a.) e dall’altro si estende alla salvaguardia degli interessi, oltre che patrimoniali, anche morali dell’autore legati alla sua reputazione: tali interessi si estrinsecano tradizionalmente nel diritto alla rivendicazione alla paternità dell’opera (art. 20 l.a.), il diritto alla sua integrità (art. 20 l.a.) e il diritto di ritiro dal mercato della stessa per gravi ragioni morali (artt. 142 e 143 l.a.). Per i principi generali del diritto privato, i diritti patrimoniali sono sempre sottoposti alla disponibilità del loro titolare e quindi cedibili a titolo gratuito od oneroso; i diritti morali, invece, in quanto diritti di natura personale, non sono cedibili e permangono nella sfera del loro titolare originario.
Chiarita questa differenziazione, che può sembrare esaurirsi in una disquisizione di tipo dottrinale, bisogna rilevare un dato decisivo: tutte le licenze prese in esame in questo lavoro fanno riferimento in modo più o meno esplicito ad un sistema di copyright, salvo il caso isolato della Licence Art Libre, che abbiamo visto riportare una clausola di riferimento alla legge francese. E ciò è confermato dal fatto che i loro testi disciplinano soprattutto aspetti che, nella normativa italiana, sono esplicitamente ricondotti al lato patrimoniale del diritto d’autore: la libertà di distribuzione, la libertà di riproduzione ecc.
Potrebbe sorgere qualche dubbio di compatibilità fra le licenze basate sul copyright e il sistema continentale per quanto riguarda la libertà di modifica prevista da molte di esse; infatti il diritto morale all’integrità dell’opera garantisce all’autore la possibilità di “opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione o altra modificazione […] che possano essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione.”[262] E qualificandosi tale diritto come diritto morale, esso sta al di là della facoltà di disporne da parte del suo titolare. Dovremmo dunque pensare che tutte le clausole delle licenze copyleft mirate ad autorizzare la modifica dell’opera siano da considerare a priori invalide negli ordinamenti di civil law?
La risposta a tale quesito spetta da un lato alla dottrina di questi ordinamenti, da parte della quale si auspica un’organica e completa trattazione del fenomeno del copyleft; dall’altro alla giurisprudenza che in Europa non ha ancora avuto modo di occuparsi specificamente di controversie di diritto d’autore su opere copyleft. L’occasione curiosa e interessante potrebbe derivare dal caso in cui un autore (ad esempio italiano) di un’opera distribuita sotto licenza CCPL ‘Attribution’ (con autorizzazione alla modifica, quindi) veda lesa la sua reputazione da una modifica effettuata e voglia far valere il suo diritto morale, inibendo la distribuzione dell’opera derivata e derogando così alla previsione contrattuale di libertà di modificazione. In tal caso ovviamente l’autore dovrebbe innanzitutto riuscire ad individuare il soggetto artefice delle modifiche per potergli contestare l’inadempimento e, una volta citato in giudizio tale soggetto, dovrebbe provare l’effettiva lesività della modifica: come già mostrato, entrambi questi elementi fondamentali risultano particolarmente difficili da determinare in un contesto multimediale e telematico[263] .

5.2. UN NUOVO MODELLO DI GESTIONE DEI DIRITTI DI PROPRIETÀ INTELLETTUALE. – Nell’esposizione fin qui svolta si è dimostrato l’assioma unanimemente condiviso che il diritto d’autore “è un diritto soggettivo privato, il cui esercizio è riservato [in via esclusiva] al titolare, che quindi è il solo legittimato a perseguire le utilizzazioni abusive e a disporre dei singoli diritti di utilizzazione”[264] ; è l’autore dunque, nella prassi tradizionale, a scegliere, fra i diritti patrimoniali, quali cedere, a chi cederli e come cederli. Tuttavia l’evoluzione del mondo dell’imprenditoria editoriale e dello spettacolo ha reso più complesso e articolato lo scenario in cui attuare la gestione dei diritti, inserendo all’interno dell’originario rapporto autore-utente l’interazione di altri soggetti che hanno ruoli d’intermediazione a livello contrattuale: primo fra tutti l’editore, ma anche figure intermedie come i manager artistici o le agenzie, che spesso sono concessionari dei diritti di esclusiva; oppure soggetti di gestione collettiva dei diritti come l’italiana SIAE[265] .
Lo spirito copyleft di aperta condivisione e di libera distribuzione delle opere, unito alle nuove possibilità dell’interconnessione telematica e della multimedialità, incide profondamente sugli stereotipi soggettivi del diritto d’autore e, in un certo senso, rende superfluo (se non addirittura scomodo) l’intervento di figure simili. Come abbiamo già rilevato, grazie alle nuove opportunità offerte dalla tecnologia e dalla comunicazione, al giorno d’oggi un autore può benissimo essere anche editore, promotore e distributore della propria opera, appunto contrattando i termini di utilizzo della stessa direttamente con il singolo utente.
La stessa riflessione potrebbe svolgersi, con le peculiarità del caso, a proposito di organi preposti alla gestione collettiva dei diritti d’utilizzazione sulle opere, come ad esempio la Società Italiana Autori ed Editori (SIAE). Il ruolo (peraltro fondamentale) di tale organo è basato su una considerazione che però vedremo essere vacillante: come precisa Auteri, “al singolo autore o titolare è spesso difficile, quando non impossibile, esercitare il diritto di esclusiva quando l’opera può essere utilizzata ed è per sua natura destinata ad essere utilizzata da numerosi soggetti sparsi in più luoghi”[266] . Se si circoscrive a questo la giustificazione dell’operato della SIAE, dunque, in un sistema di copyleft non avrebbe più ragion d’essere un organo di questo tipo, che si configurerebbe per una mera funzione di controllo sulle attività creative, stridendo palesemente con i diritti di libera espressione (ex art. 21 Cost.) e di libera disponibilità dei diritti patrimoniali (ex art. 107 l.a.).
Ciò - lo si deve sottolineare - è però realizzabile appieno solo in una prospettiva no-profit o comunque di ristretto target, dato che una grossa iniziativa editoriale necessita sempre e comunque un ampio investimento, il quale (salvo casi di filantropia assoluta) prevede un ritorno economico; e un’ampia diffusione delle opere con scopi di lucro richiede necessariamente una gestione centralizzata e ramificata dei diritti di utilizzazione. Tuttavia, grazie al movimento Opensource, si è aperto uno spiraglio, diventato man mano un ampio sbocco, per tutta quella fetta (sempre più consistente) di persone dedite ad attività creative e comunicative per il solo desiderio di esprimersi e di arricchire il bagaglio culturale della collettività.

5.3. CRITICHE AL TRADIZIONALE SIGNIFICATO DI ‘PROPRIETÀ INTELLETTUALE’. – Il fenomeno del copyleft come nuovo modello di distribuzione, di software in origine e di altre opere poi, è sorto in esplicita contrapposizione dell’impostazione proprietaria della distribuzione di opere dell’ingegno in generale. Ci si chiede perciò se in un panorama in cui il copyleft si sta ritagliando sempre più ampi spazi sia ancora il caso di parlare di ‘proprietà intellettuale’, con un’espressione che invece sottolinea il concetto di privativa e di esclusiva[267] insito nei principi di diritto d’autore. Bisogna tener presente che il copyright quanto il brevetto si comportano come dei veri e propri monopoli[268] (pur con durata limitata) concessi dal sistema giuridico all’autore (o inventore) affinché costui possa massimizzare i proventi dello sfruttamento economico dell’opera[269] .
Molti giuristi autorevoli hanno dubitato dell’opportunità di trattare allo stesso modo la proprietà sui beni materiali (quella ereditata più o meno intatta dal diritto romano) e quella sui beni immateriali (derivante dalla rivoluzione industriale) quali appunto sono le opere dell’ingegno in generale[270] . Riportiamo una storica riflessione di Thomas Jefferson che ci illumina in modo insuperabile sulla questione:

“Se la natura ha creato una cosa meno soggetta delle altre alla proprietà esclusiva, questa è l’azione della potenza del pensiero chiamata idea, che un singolo può possedere in maniera esclusiva finché la tiene per sé; ma nel momento in cui essa è divulgata, costringe se stessa a essere proprietà di ognuno, e chi la riceve non può restituirla… Colui il quale riceve un’idea da me, riceve istruzioni senza diminuire le mie, così come colui il quale accende la propria candela con la mia, riceve luce senza toglierla a me.”[271]

Questo approccio era filosoficamente incontrovertibile a metà del 1800 e lo è tuttora; anzi lo è soprattutto ora che tutte le informazioni rientrano nel grande calderone del cyberspazio, nel quale “tutto è liquido e tutto è mutabile”[272] . La differenza fra i tempi di Jefferson e i nostri non va tanto ricercata in una dimensione filosofico-giuridica, dato che i concetti di idea e di informazione sono gli stessi e a cambiare sono stati solo i modi con cui essi si estrinsecano; va piuttosto ricercata in una dimensione politico-economica, dato che la realtà del mercato della comunicazione è invece radicalmente cambiata, sia nella forma che nella sostanza, ma soprattutto nelle proporzioni.
Inoltre, altre critiche alla formula ‘proprietà intellettuale’ derivano dalla sua genericità e dalla sua equivocabilità; a questo proposito si esprime Stallman, esortando a non usare quell’espressione poiché quel termine suggerirebbe “un’eccessiva generalizzazione tra copyright, brevetti e marchi commerciali. Si tratta di elementi dagli effetti talmente diversi tra loro che è del tutto folle discuterne come di un unico insieme.”[273] Tuttavia riteniamo che simili argomentazioni di tipo puramente semantico risultino superflue o comunque meno pregnanti e determinanti di quelle a proposito del concetto stesso di ‘proprietà’ applicato a beni che per natura sono insofferenti a circoscrizioni giuridiche di questo tipo. Il movimento Opensource e il fenomeno copyleft si fanno appunto portavoce dell’esigenza di una rivisitazione dell’impostazione proprietaria di beni ‘evanescenti’ come le idee e le informazioni su cui si fonda ormai solidamente la nostra società postmoderna.

6. IL COPYLEFT COME INVERSIONE DI TENDENZA. – Quanto fin qui elaborato fa sorgere l’interrogativo di quale ruolo di impulso innovativo possa concretamente rivestire il fenomeno emergente del copyleft su tutto il panorama della proprietà intellettuale e in particolar modo sulla sfera del diritto d’autore (inteso anche come copyright). Vedremo che appunto la prassi ormai diffusa delle licenze per la libera distribuzione delle opere ha ridisegnato alcuni aspetti base dell’impostazione tradizionale, innescando un’inversione di tendenza nelle esigenze di tutela del mondo della cultura e della creatività.

6.1. COPYLEFT E INTERESSE PUBBLICO. – Il principale aspetto che viene investito da tale inversione di tendenza è il concetto d’interesse pubblico (o come alcuni preferiscono dire, d’interesse collettivo)[274] . Partiamo da un principio cardine del diritto d’autore, relativo alla originaria ratio giuridica della tutela delle opere dell’ingegno, così come enunciato da Auteri a proposito di libere utilizzazioni:

“[…]la tutela del diritto d’autore, trova la sua giustificazione ultima nell’interesse della collettività alla promozione e alla diffusione della cultura e si estende fino al punto in cui è giustificata e insieme compatibile con l’interesse generale alla diffusione delle conoscenze, delle idee e delle opinioni, ma anche delle opere in cui quelle trovano espressione. La determinazione del contenuto del diritto e dei suoi limiti rappresenta, secondo le valutazioni di politica legislativa del momento storico, il punto di equilibrio fra l’interesse individuale dell’autore e gli interessi generali.”[275]

Come abbiamo visto in questo stesso capitolo e come d’altronde ricorda Auteri, nell’ambito del diritto d’autore tradizionale il simbolico punto d’incontro fra gli interessi dell’autore e quelli della collettività è ravvisabile nell’istituto delle libere utilizzazioni: una sorta di ‘zona franca’ in cui le limitazioni derivanti dal diritto d’autore ‘si piegano’ ai legittimi interessi generali di incentivo del progresso scientifico e culturale. Sottolinea infatti anche Niccolò Abriani: “Il diritto d’autore è del resto da sempre il frutto di un intreccio dialettico e osmotico tra le prerogative accordate ai creatori delle opere e ai loro aventi causa, e i diritti di libera utilizzazione riconosciuti alla collettività, dall’altro.”[276]
Tuttavia, in un universo digitale e multimediale in cui gran parte della dottrina vede radicarsi un vero e proprio diritto ad essere informati[277] (o diritto d’accesso alle informazioni), uno spiraglio così ristretto e – ricordiamolo – solo di tipo eccezionale risulta alquanto insufficiente a garantire l’agognato ‘equilibrio fra gli interessi’.
Il principio degli equilibri fra interessi pubblici e privati è uno degli argomenti centrali di tutto il diritto dell’informazione e trae le sue origini dal dibattito interpretativo della libertà d’espressione costituzionalmente tutelata dall’art. 21 della Costituzione Italiana e dal Primo Emendamento della Costituzione Statunitense[278] . Tale libertà si estrinseca infatti in due riflessi paralleli e speculari che sono da un lato il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero e la propria creatività, quindi per estensione il diritto ad informare la collettività; e dall’altro lato il diritto ad essere informati e quindi anche il diritto di accesso all’informazione[279] . Tali principi, radicati già nei principi filosofici dell’illuminismo, hanno però trovato il loro habitat congeniale nell’attuale società dell’informazione e quindi, oggi più che mai, necessitano una particolare attenzione da parte del mondo giuridico[280] .
E’ giusto sottolineare che tali principi si riferiscono squisitamente all’ambito dell’informazione; ambito che, pur intersecandosi per moltissimi aspetti con quello delle creazioni artistico-espressive, mantiene una certa peculiarità rispetto al diritto d’autore. Tuttavia queste istanze ci devono far riflettere sulle possibilità di rivisitazione del concetto d’interesse pubblico, anche in fatto di proprietà intellettuale, soprattutto ora che il diffondersi della filosofia della libera distribuzione di idee e opere comporta un nuovo inevitabile assetto degli equilibri.

6.2. LA GIUSTIFICAZIONE GIURIDICO-ECONOMICA DELL’ATTUALE SISTEMA DI DIRITTO D’AUTORE. – L’interrogativo da porsi è dunque se il diritto d’autore così come si è evoluto negli ultimi decenni, quindi sempre più in rispondenza a scelte di politica economica, stia veramente rispettando gli equilibri fra i vari interessi in gioco oppure se stia solamente irrigidendo il mercato della creatività e della conoscenza.
In quest’ultimo senso si esprime ovviamente un personaggio come Stallman che, nel suo saggio “L’interpretazione sbagliata sul copyright: una serie di errori”[281] , fondando le sue teoria su principi di matrice costituzionale e giurisprudenziale, sostiene: “[…] il copyright esiste a beneficio degli utenti, non nell’interesse degli editori o degli autori.”; successivamente riporta il dettato dell’art. 8 sez. 1 della Costituzione U.S.A secondo cui “il Congresso avrà il potere di promuovere il progresso della scienza e delle arti utili, garantendo per periodi di tempo limitati ad autori e inventori il diritto esclusivo ai rispettivi testi scritti e invenzioni.”. Da ciò l’hacker prende le mosse per sottolineare che nel corso degli ultimi decenni gli intenti del costituente americano abbiano subito una sempre maggior distorsione in ossequio alle esigenze imprenditoriali del mondo dell’editoria prima e della comunicazione multimediale poi.
Inoltre prospetta tre errori basilari nell’individuazione del fondamento giuridico del copyright. Il primo errore sarebbe la ricerca di un equilibrio fra gli interessi: Stallman è contrario a tale impostazione, che abbiamo visto essere per certi versi la prima ratio del sistema di copyright: risulterebbe infatti palese - a suo dire - che l’intenzione del costituente fosse solo ed esclusivamente la promozione del progresso a favore della collettività degli utenti, senza alcun compromesso di tipo economico. Il secondo errore riguarderebbe il privilegio attribuito dal diritto americano al solo aspetto patrimoniale e commerciale della creatività; il terzo sarebbe quello di voler ottenere un incentivo della creatività massimizzando il potere degli editori.
E’ evidente che questa posizione radicale dipende in gran parte dal ruolo pseudo-politico di una figura rappresentativa come Stallman portavoce a livello mondiale delle esigenze della comunità hacker. Però l’affermarsi del copyleft come fenomeno culturale di massa ci invita (o forse ci obbliga) ad una seria considerazione di tali critiche al modello tradizionale di diritto d’autore e precisamente a quello di origine common law. Si deve anche tenere presente che posizioni come quella di Stallman non sono in assoluto le più radicali, se ci riferiamo a tutto il movimento cyberpunk o no-copyright[282] ‘votato’ alla totale liberalizzazione del file-sharing e in certi casi anche della pirateria vera e propria. Invece, basta rifarsi a quanto detto sull’origine storica del concetto di copyleft in fatto di software, Stallman (e tutto il movimento culturale da lui ispirato) non si esprime a favore di una totale eliminazione del copyright[283] , il quale, se usato correttamente e non abusato, è realmente il miglior incentivo per l’arte e la cultura; con buona pace di tutti coloro che nella rivoluzione Opensource ha voluto vedere la “morte del copyright”.[284]
Alcuni autori di dottrina giuridica hanno riflettuto approfonditamente sull’ipotesi di un mondo senza diritto d’autore e di eventuali alternative per la tutela e la promozione della creatività, proprio alla luce delle nuove esigenze e quindi dei diversi interessi (pubblici e privati) del mondo attuale. Capostipite di questa scuola di pensiero, di matrice giuridica ma con ampie contaminazioni di sociologia, è Lawrence Lessig (www.lessig.org), lo stesso giurista statunitense incontrato fra i fondatori di Creative Commons e che attualmente siede anche fra i membri della Electronic Frontier Foundation[285] ; nel suo libro “Il futuro delle idee”[286] del 2001 prospetta i rischi che corre la collettività degli utenti in mondo interconnesso, il quale se da un lato può rappresentare uno sterminato spettro di possibilità di espressione e comunicazione, dall’altro può risolversi in un più invasivo controllo della creatività, se permangono le distorsioni e le rigidità dell’impostazione attuale.
Un altro studio molto interessante e perspicace (e più strettamente di dottrina giuridica) sulla ridefinizione dell’interesse pubblico come giustificazione del copyright è quello compiuto dal britannico Gillian Davies nel libro appunto intitolato “Copyright and the public interest”[287] edito nel 2002. Dopo aver passato in rassegna, in un’ottica sia storica che comparatistica, il nesso fra tutela d’autore e interesse pubblico nei principali ordinamenti occidentali (Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Germania), entra nel merito delle rinnovate esigenze per la collettività derivanti dal nuovo contesto delle comunicazioni.
Per prima cosa Davies sottolinea che l’interesse personale dell’autore non è sufficiente di per sé per attribuirgli dei diritti esclusivi; e successivamente fa notare che gran parte dei creativi non producono opere principalmente per la prospettiva della retribuzione economica quanto piuttosto per uno spirito innato di creatività, mirando più che altro ad un riconoscimento morale della loro reputazione d’autori[288] . E’ necessario dunque affinché si applichi una tutela esclusiva sulle opere dell’ingegno che essa concorra all’affermazione di un più ampio e generale interesse allo stimolo della produzione artistico-culturale e un rafforzamento della sfera economica ed imprenditoriale a ciò connessa[289] .
I dubbi fin qui prospettati sulla legittimità di un’applicazione troppo pervasiva del copyright si condensano in un dilemma: nel panorama attuale, gli autori realizzano opere perché il copyright esiste oppure il copyright esiste perché gli autori realizzano opere?
Davies cerca di rispondere a tale inevitabile quesito ipotizzando il funzionamento dell’editoria e della comunicazione in un mondo privo di copyright e avanzando alcune ipotesi per l’applicazione di tutele alternative alle opere creative. L’alternativa più percorribile sarebbe quella di una sorta di ‘dominio pubblico pagante’[290] nel quale sia lo Stato a retribuire lo sforzo creativo dell’autore mentre all’imprenditoria editoriale competerebbe la realizzazione concreta delle iniziative editoriali. In questo modo, sarebbe possibile incoraggiare la creatività non tanto prospettando la possibilità per l’autore di un futuro e solo eventuale sfruttamento dell’opera; bensì sostenendo concretamente l’autore durante il lavoro di ricerca o di realizzazione, attribuendo un ruolo fondamentale alle associazioni no-profit e agli istituti di ricerca[291] . Inoltre l’abolizione del copyright comporterebbe da un lato l’eliminazione dei costi per amministrare i diritti d’autore e per ottenere le relative licenze d’uso dell’opera; dall’altro si agevolerebbe così una contrattazione diretta fra autori ed utenti, proprio come nel modello di copyleft.[292]
L’autore, tuttavia, nella sua dissertazione ipotetica sviluppa successivamente alcune argomentazioni[293] di carattere economico e pratico che fanno intuire quanto sarebbe rischioso un annullamento totale delle prerogative esclusive dell’autore: innanzitutto i rischi (già accennati) sulla difficoltà di gestire in modo efficace e certo i diritti in un modello di libera contrattazione autore-utente nel caso di grandi iniziative editoriali con un target indefinito; poi il rischio che il valore di un’opera venga ridotto al puro costo della sua realizzazione materiale, il che porterebbe ad un appiattimento delle variegate istanze creative e ad un loro mancato (o comunque insufficiente) incentivo.[294] D’altronde, come fa notare Ubertazzi, “comprimere il diritto d’autore significherebbe far ingiustamente gravare su una particolare categoria di cittadini, e precisamente sui creativi/autori, i costi della crescita dell’industria culturale di altri.”[295]
Quindi dobbiamo esprimerci più opportunamente e realisticamente per una soluzione compromissoria: una situazione in cui possa essere rimarcata e ampliata la sfera d’influenza del fair use[296] , in cui siano chiariti e abbreviati i limiti di tempo per lo sfruttamento esclusivo dell’opera e soprattutto in cui sia l’autore il vero gestore dei propri interessi.

6.3. IL RITORNO AD UN DIRITTO D’AUTORE “PURO”. – Si introduce così un altro aspetto centrale dell’impulso innovativo derivante dall’avvento del copyleft, cioè l’esigenza di rifocalizzare l’attenzione del diritto d’autore sulla tutela della opera e della creatività del suo autore, contro una sempre più marcata tendenza alla tutela delle altre attività di tipo imprenditoriale concernenti la diffusione dell’opera.
Per comprendere al meglio la questione bisogna ricollegarsi a quanto abbiamo detto poco fa a proposito delle diverse impostazioni del copyright secondo common law e del diritto d’autore secondo civil law e soprattutto a proposito della diversa sensibilità nei confronti degli aspetti patrimoniali e morali del sistema di tutela. Ci soccorre nella riflessione un passo di Paolo Spada che cristallizza al meglio la situazione di disparità:

“L’enfasi che gli ordinamenti continentali danno alla personalità creatrice dell’autore fa sì che il diritto d’autore si presenti come modalità di tutela di interessi tipicamente antindustriali: dell’interesse dello scrittore contro l’editore, dell’interesse dell’autore di lavori drammatici contro l’impresario teatrale.
Diverso è l’approccio del diritto anglosassone […]. Piuttosto che alle ragioni degli autori l’esperienza giuridica anglosassone sviluppa una forte sensibilità alle ragioni degli editori e, poi, degli altri intermediari imprenditoriali nella fruizione estetica dell’opera.”[297]

Questo panorama d’altronde, con l’ingigantirsi del business legato all’editoria e alla comunicazione multimediale e con il conseguente aumento degli interessi economici in gioco, ha subito le già citate distorsioni sulla funzione del copyright, trasformando quest’ultimo in certi casi in una “arma impropria” nelle mani dell’imprenditoria per controllare capillarmente tutto il mercato della comunicazione. Oltre tutto, tale distorsione si è man mano ripercossa sui sistemi continentali che, benché si reggano su una diversa concezione del diritto d’autore, rientrano in un unico grande mercato occidentale in cui gli interessi economici sono troppo rilevanti (e tali da creare delle vere e proprie lobby di potere).
Non è un caso che gran parte delle scelte di politica legislativa dei paesi europei si sia sempre di più ispirata ai modelli proposti dalla legislazione statunitense: si consideri l’esempio più emblematico del parallelismo esistente fra il DMCA (U.S.A., 1998) e la EUCD (Comunità Europea, 2001). Ricordiamoci, infatti, che gli U.S.A. sono il fulcro di tutta l’industria cinematografica, informatica e discografica mondiale: quindi gli interessi della Disney, della Microsoft o della Sony Records non possono fare a meno di essere anche quelli della cinematografia, dell’informatica e della produzione musicale europee.
E’ sulla base di questa realtà evidente che si è spesso parlato di un diritto d’autore trasformato in un diritto degli investitori e di conseguenza di un diritto nato principalmente per la tutela delle opere trasformato in un diritto mirato principalmente alla tutela degli investimenti ad esse connessi. Così si esprime inequivocabilmente Federica Gioia in un saggio del 2002 in cui, riferendosi proprio ai cambiamenti nel lato soggettivo derivanti dal nuovo contesto delle comunicazioni, dice: “Non stupisce allora che al legislatore europeo sia stato rimproverato di aver trascurato gli interessi degli autori e di averli sacrificati alle esigenze e alle pressioni dei titolari dei diritti connessi. Nemmeno stupisce la segnalazione dell’avvento di un ‘diritto imprenditoriale d’autore’ del quale la direttiva 2001/29 [cioè la EUCD] costituirebbe il primo atto.”[298]
Di fronte a questo panorama delicato e - per così dire - patologico, ecco che il copyleft, nel senso di fenomeno sia giuridico che culturale, si presenta come una ‘salutare valvola di sfogo’ che permette agli autori di recuperare le loro naturali prerogative[299] e di riportare ad una posizione più equilibrata l’ago della bilancia della gestione dei diritti. E questo è possibile e legittimo in nome dei principi di diritto d’autore e in generale del diritto privato che garantiscono al titolare dei diritti la totale libertà e autonomia nelle scelte su come gestire l’aspetto patrimoniale della sua opera. Normative che irrigidiscono il mercato delle creazioni intellettuali costringendo gli autori a percorrere determinate vie per diffondere le proprie opere sono da ritenere lesive di tali principi cardine.
Il copyleft, a dispetto di normative che tendono sempre più al controllo dei formati e delle copie delle opere, vuole riaffermare queste libertà che sono nate e devono rimanere nella libera disponibilità dell’autore: “l’autore acquista a titolo originario […] i diritti esclusivi di utilizzazione […]. Tali diritti gli consentono di controllare l’utilizzazione dell’opera, decidendo se e in che modo utilizzarla o farla utilizzare, e quindi di trarre profitto dalla stessa e di soddisfare gli altri interessi patrimoniali, personali o ideali, connessi con la divulgazione dell’opera.”[300] Grazie a questo fenomeno spontaneo si può dunque parlare di un ritorno ad un vero diritto d’autore che si occupa della tutela delle opere e dei diritti degli autori, piuttosto che di un diritto d’autore che si preoccupa della tutela del mercato della creatività: cioè di un ritorno a quello che potremmo chiamare un diritto d’autore “puro”.
Le argomentazioni qui presentate vengono efficacemente cristallizzate nel preambolo della licenza Art Libre, che – come abbiamo già rilevato – essendo di origine francese denota una maggiore sensibilità ad alcuni aspetti peculiari del diritto d’autore classico di matrice continentale. Vi si legge appunto: “Questa licenza non ignora affatto i diritti d’autore, anzi li riconosce e li protegge. Essa ne riformula lo spirito consentendo al pubblico di fare un uso creativo delle opere d’arte. […] L’intenzione è di rendere l’opera accessibile e permettere l’utilizzo dei suoi contenuti da parte di più persone possibili […] nel rispetto degli autori con il riconoscimento e la difesa del loro diritto morale. […] La ragione essenziale di questa licenza Art Libre è promuovere e tutelare l’esercizio dell’arte libero dalle regole imposte dall’economia di mercato.”

7. LA CENTRALITÀ DELLA LIBERA DISPONIBILITÀ DEI DIRITTI. CONLUSIONI. – Abbiamo dunque appena visto che il diritto d’autore, in quanto permeato dai principi del diritto privato classico, si conforma ad una libera disponibilità delle prerogative dell’autore, o per lo meno di quelle patrimoniali. Tuttavia argomentazioni di carattere per lo più economico hanno svilito questa libertà e hanno portato l’autore ad una posizione di passività e di debolezza contrattuale, così da dover necessariamente favorire l’intervento di soggetti intermediari e predisporre dei meccanismi di predefinizione ed incanalatura dei rapporti contrattuali legati al mondo dell’impresa culturale[301] .
La giustificazione di un simile approccio era stata a suo tempo basata sulla supposizione che “di regola l’autore non è in grado di esercitare direttamente i suoi diritti, almeno non nel senso di riprodurre l’opera, di distribuire gli esemplari e di compiere le varie attività attraverso cui l’opera viene comunicata al pubblico.”[302] Bisogna però iniziare ad ammettere che questa impostazione tradizionale non ha più un fondamento assoluto in un panorama di comunicazione come quella che abbiamo fin qui diffusamente delineato.
D’altronde, allo stesso modo in cui viene garantito a livello costituzionale il diritto al singolo utente di poter acquisire delle conoscenze che possono essere utili alla collettività (diritto ad informarsi), di riflesso un’identica garanzia di matrice costituzionale è garantita (e dev’essere garantita) a coloro che vogliano trasmettere con la massima libertà le loro idee creative (diritto ad informare). L’utente di un servizio d’informazione o di arricchimento culturale deve avere la possibilità di scegliere liberamente nella vasta offerta che caratterizza il nuovo mercato derivante dalla comunicazione multimediale; deve essere libero di scegliere fra informarsi o non informarsi, fra pagare molto o poco e quindi fra avere un servizio più efficiente o uno più scadente, fra vedere una televisione pubblica e una televisione privata, fra collegarsi ad un server italiano o un server straniero ecc. Allo stesso modo, però, anche gli operatori attivi del nuovo sistema globale di comunicazione, intesi come i singoli operatori (gli autori, i giornalisti, gli artisti) e non le imprese del settore, devono poter scegliere liberamente come distribuire le loro creazioni, se a pagamento o gratuitamente, se in formato materiale o in formato digitale, se su supporto interattivo o su supporto statico ecc.
In pratica, se un musicista vuole distribuire una sua canzone liberamente su Internet deve aver la possibilità di usare un programma di file-sharing e inserire l’opera nel formato a lui più congeniale e rilasciarla con permesso di utilizzo o anche permesso di copia o addirittura con permesso di modifica. Ma se a proprio si rende illecito a priori l’uso di tali programmi, ad esempio per preservare (per altro legittimamente) il mercato discografico dalla pirateria, si rischia di soffocare eccessivamente anche la possibilità di questi singoli utenti-autori che rappresentano una buona fetta della comunità globale. E ancora, se quel musicista vuole diffondere la canzone su un supporto materiale deve essere libero di scegliere di gestire i suoi diritti in modo autonomo e di distribuire i CD o le cassette indipendentemente dalla vidimazione del supporto da parte della SIAE (art. 181 bis l.a.)
Una normativa che dedichi la sua attenzione ad un controllo capillare della diffusione delle opere ad esempio rendendo indissolubile il legame fra opere e supporti materiali oppure attribuendo ad organi come la SIAE funzioni che eccedono il tradizionale aspetto della gestione collettiva dei diritti sono destinate ad una scarsa compatibilità con la realtà emergente e inarrestabile delle comunicazioni peer-to-peer. Bisogna piuttosto ricreare “un collegamento diretto fra il titolare dei diritti e gli utenti e incrementare i meccanismi contrattuali che governano le condizioni di accesso alle opere”[303] .
Come già detto, è necessario riportare l’attenzione della tutela sulle caratteristiche dell’opera e sulle prerogative dell’autore, inaugurando una politica legislativa che eviti di attribuire eccessiva pervasività nei rapporti contrattuali a soggetti che fondano il loro intervento su interessi puramente economici e che necessariamente si esprimono per una concezione conservatrice della proprietà intellettuale.
Il diritto d’autore (e soprattutto il copyright) e tutto l’apparato dell’editoria e della produzione di opere, se impostati su una base di rigidità e centralizzazione nella gestione dei diritti, sono destinati a collassare in un mondo come quello attuale delle comunicazioni di massa[304] . Internet è il media decentrato per eccellenza, in cui tutti possono essere autori ed editori, quindi il diritto d’autore per armonizzarsi a questa realtà inestirpabile e per non uscirne travolto, deve sapersi adattare a questa nuova compagine di soggetti ed interessi. Le nuove scelte di politica legislativa dovrebbero cercare di incoraggiare tale decentralizzazione e incentivare il più possibile la formazione di un sistema basato sulla contrattazione diretta dei diritti sulle opere e sui servizi ad esse relativi: ad esempio creando dei database in cui sia possibile conoscere con precisione le caratteristiche delle opere e il loro regime di tutela, oltre che risalire al relativo autore ed eventualmente contrattare i termini d’uso dell’opera.
O comunque, pur senza riformare l’intera impostazione del diritto d’autore internazionale, sarebbe opportuno un generale allentamento della rigidità di tale tutela, eventualmente abbreviando la durata dei diritti di utilizzazione ed elevando gli standard minimi di creatività affinché un’opera sia coperta da copyright[305] . Tutto ciò deve inoltre essere concepito necessariamente in un’ottica di armonizzazione delle discipline internazionali, possibilmente con un avvicinamento da parte delle politiche legislative di common law al modello di proprietà intellettuale europeo (e non viceversa come è successo negli ultimi decenni)[306] .
In attesa di simili auspicabili sviluppi, il copyleft, nei modi e nelle forme delineati in questo lavoro di ricerca, si pone come una legittima e interessante prospettiva per un’informale innovazione dei criteri di fondo che ispirano la diffusione della cultura e della creatività nella cosiddetta società dell’informazione.

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NOTE AL CAPITOLO VI

[234]- Cfr. v. TORRENTE e SCHLESINGER, Manuale di diritto privato (XV edizione), Giuffrè, Milano, 1997, par. 295; al paragrafo 292 dello stesso manuale si riporta con grande espressività che “proposta e accettazione si fondono in una volontà unica, la volontà contrattuale”.
[235]- A tal proposito v. supra Cap. III, par. 3 e relative note. Si veda anche D’ARRIGO, Prospettive della c.d. licenza a strappo nel nostro ordinamento, in Dir. Inf. 1996, pp. 462-468; DE SANCTIS e FABIANI, I contratti di diritto d’autore, Giuffrè, Milano 2000, p. 373.
[236]- A tal proposito v. LENER, La nuova disciplina delle clausole vessatorie nei contratti dei consumatori, in Foro it. 1996, V, pp. 146 ss.
[237]- Cfr. il testo delle Creative Commons Public License. Allo stesso modo si veda l’art. 5 della Licence Art Libre che dice: “Questa licenza prende effetto dalla vostra accettazione delle sue disposizioni. Il fatto di copiare, diffondere o modificare l’opera costituisce una tacita accettazione.”
[238]- Cfr. SCOGNAMIGLIO, Le informazioni sul regime dei diritti, in AIDA, 2002, p. 273.
[239]- Cfr. TORRENTE e SCHLESINGER, op. cit., par. 295.
[240]- A tal proposito v. TORRENTE e SCHLESINGER, op. cit., par. 364.
[241]- Per un approfondimento su questo aspetto v. CHITI, La disciplina giuridica dell’editoria elettronica: analisi e prospettive, in Inf. e dir., 2003, pp. 7 ss; e DE VIVO, op. cit.
[242]- Per i parametri di classificazione scelti si veda il par. 287 (La classificazione dei contratti) di TORRENTE e SCHLESINGER, op. cit..
[243]- Per le implicazioni soggettive del diritto d’autore in ambito internazionale, v. L.C. UBERTAZZI, I diritti d’autore e connessi. (cit.), cap. IV, par. 12, p. 55 ss.
[244]- Recepita dall’art. 57 della L. 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato).
[245]- Entrambi i testi sono interamente riportati e organicamente commentati in MOSCONI, Diritto internazionale privato e processuale - Parte generale e contratti, UTET, Torino, 1999.
[246]- Cfr. fra tutti MOSCONI, op. cit., cap. VI, par. 6.
[247]- Si riporta il testo dell’articolo: “Chi venga leso nell’esercizio di un diritto di utilizzazione economica a lui spettante può agire in giudizio per ottenere che sia distrutto o rimosso lo stato di fatto da cui risulta la violazione o per ottenere il risarcimento del danno.”
[248]- A tal proposito v. supra Cap. IV, par. 3.2.
[249]- Per il chiarimento di questo concetto v. TORRENTE e SCHLESINGER, op. cit., par. 394.
[250]- Per il chiarimento di tale concetto e per le sue implicazioni giuridiche (in particolare a livello probatorio), v. COMOGLIO, FERRI, TARUFFO, Lezioni sul processo civile, Il Mulino, Bologna, 1998, Cap. 23, par. 5; per l’applicazione di tale meccanismo in fatto di diritto d’autore v. DAVIES, Copyright and the public interest, Sweet & Maxwell, London, 2002, Cap. 12, par. 013, p. 324.
[251]- In particolare ci si riferirà alle definizioni che si trovano alla voce “Diritto d’autore” all’interno del Digesto delle discipline privatistiche (sezione commerciale).
[252]- Così AMMENDOLA e UBERTAZZI, Diritto d’autore, in Dig. Priv. Comm., par. 9, p. 389. Per la disciplina di queste opere si vedano gli artt. 38 ss. l.a.
[253]- Cfr. AMMENDOLA e UBERTAZZI, op. cit.., par. 10, p. 392. La definizione riprende il dettato dell’art. 10 l.a.
[254]- v. artt. 33 ss. l.a.
[255]- v. artt. 44 ss. l.a.
[256]- Degli aspetti a favore e a detrimento dell’assimilazione fra opere multimediali e opere cinematografiche si è già detto (Cap. IV, par. 4.2).
[257]- Così SANTO, Le licenze pubbliche GNU, tesi di laurea, Università degli Studi di Pavia, Fac. di Giurisprudenza, aprile 2003; cap. VIII, par. 3.
[258]- Così AUTERI, Diritto d’autore, in AA.VV., Diritto Industriale - Proprietà intellettuale e concorrenza, Giappichelli, Torino, 2001, p. 575.
[259]- Per un approfondimento su alcuni aspetti peculiari delle libere utilizzazioni, in particolar modo riferite ai principi della società dell’informazione, si veda: ABRIANI, Le utilizzazioni libere nella società dell’informazione: considerazioni generali, in AIDA, 2002, pp. 98-126; DI RIENZO, Le utilizzazioni libere: non profit, in AIDA, 2002, pp.235-270; GALLETTI, Le utilizzazioni libere: copia privata, in AIDA, 2002, pp. 146-193; GALLI, Le utilizzazioni libere: ricerca, in AIDA, 2002, pp. 135-145; GATT, Le utilizzazioni libere: di opere d’arte, in AIDA, 2002, pp. 194-218; v. anche RICOLFI, Internet e le libere utilizzazioni, in AIDA, 1996, pp. 115 ss.
[260]- Il titolo stesso di questo paragrafo riecheggia quelli di alcuni interessanti saggi statunitensi: v. MAHER, Open source: the success of an alternative intellectual property incentive paradigm, in Fordham Intell. Prop. Media & Entert. L. Journ. 2000, p. 620; e soprattutto STRASSER, A new paradigm in intellectual property law?: the case against open sources, in Stanf. Tech. L. Rev. 2001, 4.
[261]- Per una chiara spiegazione delle differenze fra sistema di diritto d’autore e sistema di copyright, v. SPADA, Introduzione in AA.VV., Diritto Industriale - Proprietà intellettuale e concorrenza, Giappichelli, Torino, 2001, par. 9, p. 28.
[262]- Cfr. art. 20 l.a.
[263]- In generale sulle difficoltà dell’attuazione dei diritti d’autore in un contesto telematico v. SCHLACHTER, The intellectual property renaissance in cyberspace: why copyright law could be unimportant on the internet, in Intell. Prop. L. Rev., 1999; pp. 545-581 (originariamente pubblicato in Berkeley Tech. L. Journ., 1997).
[264]- Cfr. AUTERI, Diritto d’autore, in AA.VV., op. cit., p. 571.
[265]- Sui cambiamenti nell’lato soggettivo dei diritti d’autore nella società dell’informazione, v. GIOIA, I soggetti dei diritti, in AIDA, 2002, pp. 80-97.
[266]- AUTERI, Diritto d’autore, in AA.VV., op. cit., p. 571.
[267] - “Quando un’attività economica, o integrata in un’attività economica, è riservata, si parla di ‘privativa’ od ‘esclusiva’.” Cfr. SPADA, Introduzione in AA.VV., op. cit., par. 5, p. 14.
[268]- Sulla possibilità di abusi di tali posizioni monopolistiche e quindi sulle intersezioni fra diritto d’autore e normativa antitrust, v. SARTI, Antitrust e diritto d’autore, in AIDA, 1995, pp. 103 ss.; SARTI, Antitrust e diritti esclusivi: osservazioni in margine al caso Panini, in Concorrenza e mercato, 1997, pp. 279 ss.; RICOLFI, Diritto d’autore e abuso di posizione dominante, in Riv. Dir. Ind. 4/5-2001.
[269]- Per le ragioni che giustificano la protezione di diritto d’autore v. AUTERI, Diritto d’autore, in AA.VV., op. cit., p. 484; v. diffusamente SPADA, Introduzione in AA.VV., op. cit..
[270]- Per un chiarimento della dicotomia fra beni materiali e beni immateriali v. principalmente ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Giuffrè, Milano, 1960; v. anche SPADA, Introduzione in AA.VV., op. cit., par. 4, p. 8; LEONE, La concessione del software fra licenza e locazione, in ALPA e ZENO-ZENCOVICH (a cura di), I contratti d’informatica, Giuffrè, Milano, 1987, pp. 349-360; TORRENTE e SCHLESINGER, op. cit., par. 59.
[271]- JEFFERSON, Writings of Thomas Jefferson, vol. VI, H.A. Washington Ed., 1854, pp. 180-181 come riportato da SAMUELSON, L’informazione è proprietà?, in VALVOLA SCELSI (a cura di) No copyright - nuovi diritti nel 2000, Shake Underground, Milano, 1994, p. 134. Tale riflessione è ribadita anche da John Barlow che con toni più colloquiali dice: “se io rubo la vostra informazione, voi ce l’avete ancora. Se rubo il vostro cavallo, non potete più cavalcare.” Cfr. VALVOLA SCELSI (a cura di), No copyright - nuovi diritti nel 2000, Shake Underground, Milano, 1994, p. 42.
[272]- Cfr. VALVOLA SCELSI, op. cit., p. 42.
[273]- Cfr. WILLIAMS, Codice libero - Richard Stallman e la crociata per il software libero, Apogeo, Milano, 2003 (cap. 9, nota 88).
[274]- Su questo argomento fondamentale si veda in generale DAVIES, Copyright and the public interest, Sweet & Maxwell, London, 2002; LESSIG, The Future of Ideas: the fate of the commons in a connected world, Random House, U.S.A., 2001.
[275]- Cfr. AUTERI, Diritto d’autore (cit.), cap. IV, par. 15, p. 574; a tal proposito v. anche SPADA, Introduzione (cit.), par. 11, p. 35.
[276]- Cfr. ABRIANI, Le utilizzazioni libere nella società dell’informazione: considerazioni generali, in AIDA, 2002, p. 100.
[277]- Per una dettagliata trattazione del concetto di interesse pubblico legato al mondo delle comunicazioni di massa e del diritto d’informazione come riflesso speculare della libertà d’espressione ex art. 21 Cost. v. TONOLETTI, Principi costituzionali dell’attività radiotelevisiva, in AA.VV., Percorsi di diritto dell’informazione, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 215 ss.; VIGEVANI, Diritto di cronaca e di critica, in AA.VV., Percorsi di diritto dell’informazione, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 37 ss.; CARETTI, Diritto dell’informazione e della comunicazione, Il Mulino, Bologna, 2001.
[278]- A tal proposito v. NETANEL, Locating copyright within the first amendment skein, in Intell. Prop. L. Rev. 2002, pp. 439-524.
[279]- Di diritto d’accesso parla anche DAVIES, op. cit., cap. 12, par. 003, pp. 309 ss.
[280]- Su tutti questi aspetti in generale si veda RUBENFELD, The freedom of Imagination: Copyright’s Constitutionality, in Intell. Prop. L. Rev., 2003; pp. 323-382; CARETTI, Diritto dell’informazione e della comunicazione, Il Mulino, Bologna, 2001.
[281]- Cfr. il saggio L’interpretazione sbagliata sul copyright: una serie di errori in STALLMAN, Software libero, pensiero libero (cit.).
[282]- A tal proposito v. in generale lo spirito del libro VALVOLA SCELSI, op. cit., p. 134; oppure anche l’accenno compiuto da L.C. UBERTAZZI, I diritti d’autore e connessi. (cit.), p. 29; oppure si vedano siti web come www.copyfight.org o www.negativland.com; di ‘no-copyright’ parla diffusamente anche DE VIVO, L’informazione in rete, con che diritto?, in Inf. e dir., 2000, pp. 136 ss.
[283]- Con buona pace di Maurizio Barbarisi che sembra non aver colto per nulla il pensiero di Stallman e tanto meno il senso del fenomeno copyleft: “Ben può rilevarsi quanto possa apparire utopico il desiderio del famoso hacker Richard Stallman circa l’avvento prossimo di un mondo completamente libero dal copyright.” Cfr. BARBARISI, La tutela della proprietà intellettuale, in TOSI, (a cura di) I problemi giuridici di Internet. Dall’E-commerce all’E-business, Giuffrè, Milano, 2001, p. 217.
[284]- In tal senso (come è facilmente intuibile dai titoli) si esprimono i saggi MOGLEN, Il trionfo dell’anarchia: il software libero e la morte del copyright,1999 disponibile sul sito http://moglen.law.columbia.edu/publications/anarchism-it.html; BOBKO, Open source software and the demise of copyright, in Rutgers Computer. & Tech. L. Journ., 2001, 51.
[285]- v. supra Cap. V, par. 8.
[286]- LESSIG, The Future of Ideas (cit.); informazioni sul libro e suoi estratti si possono trovare su http://cyberlaw.stanford.edu/future/ oppure su http://the-future-of-ideas.com/.
[287]- DAVIES, Copyright and the public interest, Sweet & Maxwell, London, 2002.
[288]- v. DAVIES, op. cit., Cap. 9, par. 004, pp. 247 ss.
[289]- v. DAVIES, op. cit., Cap. 9, par. 006, pp. 249 ss.
[290]- Sul concetto di ‘dominio pubblico pagante’ in fatto di diritto d’autore, v. SPADA, Introduzione in AA.VV., op. cit., par. 10.4, p. 33.
[291]- v. DAVIES, op. cit., Cap. 9, par. 010, pp. 256 ss.
[292]- v. DAVIES, op. cit., Cap. 9, par. 007, pp. 251 ss.
[293]- v. DAVIES, op. cit., Cap. 9, par. 008, pp. 253 ss.
[294]- v. DAVIES, op. cit., Cap. 9, par. 009, pp. 255 ss.
[295]- Cfr. L.C. UBERTAZZI, I diritti d’autore e connessi. (Scritti, quaderni di AIDA n.5), Giuffrè, Milano, 2000, cap. III, par. 2, p. 30.
[296]- A tal proposito v. l’intero capitolo 10 di v. DAVIES, op. cit. (pp. 265 ss.).
[297]- SPADA, Introduzione in AA.VV., op. cit., par. 9, p. 29.
[298]- Cfr. GIOIA, I soggetti dei diritti, in AIDA, 2002, p. 94.
[299]- Molti autori hanno parlato di una componente giusnaturalistica dei diritti d’autore. Fra tutti v. AUTERI, Diritto d’autore, in AA.VV., op. cit., cap. I, par. 1, p. 485: “La protezione dell’autore è stata però anche giustificata con la concezione di impronta giusnaturalistica che riconosce a qualsiasi persona la proprietà dei risultati (soprattutto creativi) del proprio lavoro.”
[300]- AUTERI, Diritto d’autore, in AA.VV., op. cit., cap. VI, par. 1, p. 603.
[301]- Su questi aspetti riferiti specificamente al sistema statunitense di copyright v. ELKIN-KOREN, Copyright policy and the limits of freedom of contract, in Intell. Prop. L. Rev., 1998, pp. 451 ss.
[302]- Cfr. AUTERI, Diritto d’autore, in AA.VV., op. cit., cap. VI, par. 1, p. 603.
[303]- Cfr. DAVIES, Copyright and the public interest, Sweet & Maxwell, London, 2002, cap. 12, par. 013, p. 324.
[304]- Su questo aspetto e in generale sui problemi di compatibilità del copyright con l’attuale mondo delle comunicazioni v. SCHLACHTER, The intellectual property renaissance in cyberspace: why copyright law could be unimportant on the internet, in Intell. Prop. L. Rev., 1999; pp. 545-581 (originariamente pubblicato in Berkeley Tech. L. Journ., 1997).
[305]- Si esprime diversamente Pierfrancesco Catarinella: “l’attuale ius conditus, che ovunque si limita a riconoscere ad ogni autore la facoltà di rinunciare ai propri diritti patrimoniali, pare perfettamente sufficiente, di massima, alla promozione della creatività.” Cfr. CATARINELLA, Appunti comparativi sul diritto d’autore in internet, in IDA., 3/2003, p. 347.
[306]- Sui problemi di disparità dei due modelli e sulle derivanti difficoltà per l’armonizzazione, v. DAVIES, op. cit., cap. 13, pp. 327 ss.


 

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