INTRODUZIONE.
– Iniziamo con questo capitolo ad entrare nel merito delle
implicazioni giuridiche attinenti alla distribuzione dell’opera
software in generale e successivamente ai risvolti peculiari (e
per certi versi atipici) che la rivoluzione Opensource ha innestato
in tale ramo del diritto industriale.
Premettiamo che d’ora innanzi si useranno le espressioni ‘copyright’
e ‘diritto d’autore’ a seconda che ci si riferisca
rispettivamente ad una realtà internazionale (o comunque
di matrice common law) oppure ad una realtà legata al diritto
d’autore continentale e più specificamente al quadro
normativo italiano.[56]
1.
LA TUTELA GIURIDICA DEL SOFTWARE. – Come abbiamo già
potuto vedere nell’evoluzione storica dell’informatica,
l’idea di una tutela giuridica su un’opera software
non si è affatto affermata in modo parallelo e graduale rispetto
alla diffusione del software stesso; anzi, possiamo dire che la
prassi della tutela giuridica sia stata direttamente proporzionale
non tanto allo sviluppo della produzione software, quanto piuttosto
all’interesse che il mercato ha man mano dimostrato verso
questo settore.[57]
La scelta – nei nostri tempi di ‘boom informatico’
è ben intuibile – fu determinata dai crescenti interessi
economici che necessariamente si andavano a formare attorno al mercato
del software. Bisogna ricordare infatti che la funzione primaria
di tutti gli apparati giuridici di proprietà intellettuale
è quella di creare dei diritti esclusivi di sfruttamento
in modo da poter da un lato garantire un profitto al titolare di
tali diritti, dall’altro (in una più ampia prospettiva
di politica del diritto) di incentivare la creatività e l’inventiva
in generale. Tutelare un frutto dell’ingegno e della creatività,
sia esso un’invenzione o un’opera espressiva, significa
soprattutto tutelare ed incoraggiare gl’investimenti compiuti
per la sua realizzazione.[58]
1.1.
IN GENERALE. – Le aziende d’informatica, che verso la
fine degli anni ’70 iniziarono a voler tutelare i loro cospicui
investimenti, potevano servirsi dei meccanismi tradizionali del
diritto industriale, facenti capo ai due diversi modelli del diritto
d’autore e del brevetto: il primo concepito originariamente
per le creazioni di tipo artistico-espressivo[59], il secondo invece
per le invenzioni di carattere tecnico-industriale. Mentre il diritto
d’autore mira a proteggere solo la forma espressiva dell’opera
(ovvero la modalità con cui l’autore trasmette un messaggio,
sia esso in forma letteraria, musicale, figurativa, multimediale
etc.), la tutela brevettuale mira a proteggere il contenuto dell’invenzione
(ovvero l’idea o il procedimento che sta alla base dell’invenzione).
Questo principio, già comune a tutti gli ordinamenti, è
stato chiaramente ribadito nei TRIPs[60], in cui all’art.
9, n. 2 si stabilisce che “la protezione del diritto d’autore
copre le espressioni e non le idee, i procedimenti, i metodi di
funzionamento o i concetti matematici in quanto tali”.[61]
Coerentemente con quanto fin qui detto, per individuare quale tipo
di tutela sarà possibile applicare, è necessario preventivamente
raggiungere una sicura classificazione dell’opera in esame;
se ne dovranno analizzare le caratteristiche e, a seconda che esse
risultino compatibili con i requisiti che il piano normativo prevede
per l’una o per l’altra modalità di tutela, si
deciderà quale delle due applicare. Ciò, tuttavia,
non significa che ad una stessa opera non possano essere applicate
in sovrapposizione entrambe le tutele; esse infatti non si escludono
a vicenda, ma anzi apportano diversi gradi e meccanismi di protezione:
per esempio, il diritto d’autore ha una maggior durata nel
tempo ed è applicabile automaticamente a partire dal mero
atto della creazione; il brevetto ha una durata minore, richiede
una formalizzazione, ma una volta perfezionato può consentire
una protezione più efficace a causa della sua estensione
al contenuto e al procedimento.
In via teorica, dunque – restringendo il tutto al quadro normativo
italiano – la soluzione al dilemma starebbe in una lampante
dicotomia: nel caso di opera artistico-espressiva, si applica il
diritto d’autore ex Legge 633/1941 (“Protezione del
diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio”;
d’ora in poi “l. a.”); nel caso di invenzione
industriale, si applica la normativa brevettuale ex Regio Decreto
1127/1939 (“Testo delle disposizioni legislative in materia
di brevetti per invenzioni industriali”; d’ora in poi
“l. inv.”). Nella realtà dei fenomeni giuridici,
però, la situazione non è così ben definita,
a causa della comparsa (avvenuta negli ultimi anni grazie alle nuove
tecnologie) di opere atipiche, che spesso incontrano alcuni requisiti
di entrambe le categorie, ma senza soddisfare appieno quelli di
nessuno dei due.
E’ questo il caso controverso del software[62]. Fino al momento
della sua comparsa, il confine fra opere tecnico-funzionali e opere
espressive era sempre stata piuttosto pacifica; con il nuovo arrivo,
però, il mondo del diritto si trovò di fronte ad un’entità
molto più difficile da inquadrare e che si collocava proprio
a cavallo delle due categorie di opere dell’ingegno[63]. A
livello dottrinale più che a livello pratico, infatti, a
creare dubbi era proprio una caratteristica peculiare del software:
la sua funzionalità, ovvero la sua vocazione di opera destinata
alla soluzione di problemi tecnici; caratteristica questa che lo
avvicinerebbe ineluttabilmente alla categoria delle invenzioni dotate
d’industrialità. D’altro canto, però,
il software appare carente del requisito della materialità
considerato da alcuni come ‘condicio sine qua non’ per
la brevettabilità.[64]
Storicamente, inoltre, la tutela brevettuale venne vista con diffidenza
dalle aziende produttrici di hardware, che temevano che tale prospettiva
avrebbe attribuito uno eccessivo potere alle aziende di software
e reso il mercato dell’hardware schiavo delle loro scelte
di mercato[65]. Si riproponeva in versione speculare lo stesso problema
che si era posto pochi anni prima quando compagnie come la IBM o
la Apple preferirono (con grande saggezza e illuminazione) non brevettare
il PC per non soffocare un business ancora in emersione.
1.2.
LA TUTELA D’AUTORE. – Fu in questo contesto di notevoli
e intricati interessi economici che il legislatore statunitense
nel 1980 fece la coraggiosa quanto necessaria scelta di politica
legislativa di stabilire dall’alto quale disciplina applicare
al software, ovvero la tutela per mezzo di copyright (non a caso
l’atto legislativo in questione fu chiamato ‘Software
Copyright Act’). Nell’arco di un lustro quasi tutti
i principali paesi tecnologicamente avanzati si mossero nella stessa
direzione: l’Australia nel 1984 (con il Copyright Amendment
Act), la Francia e la Germania nel 1985 (entrambe con legge ordinaria
per la riforma della normativa preesistente sul diritto d’autore),
la Gran Bretagna anch’essa nel 1985 (con il Copyright Computer
Software Amendment)[66].
Come spesso accade, il legislatore italiano si distinse per inerzia
e si dovette attendere la direttiva europea n. 91/250/CEE (del 1991)
che appunto mirava ad un’armonizzazione delle norme comunitarie
in fatto di protezione del software; la direttiva invitava gli stati
membri ad applicare al software la normativa del diritto d’autore.
La nuova opera doveva essere considerata alla stregua di un’opera
letteraria (di carattere scientifico) ai sensi della Convenzione
di Berna, ratificata dallo Stato italiano nel 1978; la legge italiana
di attuazione della direttiva (ovvero il d. lgs. 518/1992) inserì
nella legge sul diritto d’autore una serie di articoli ad
hoc per il software (artt. 64 bis, ter, quater) costituenti una
nuova apposita ‘Sezione VI’ del ‘Capo IV’,
intitolata proprio “Programmi per elaboratore”.[67]
In effetti, se si pensa a quanto detto nel capitolo introduttivo
sulle peculiarità tecniche del software, la sua assimilazione
ad un’opera letteraria non pare nemmeno molto forzata; possiamo
infatti equiparare (come acutamente osservano alcuni autori[68])
il programma in forma di codice sorgente ad un manuale d’istruzioni
tecniche redatte in un preciso linguaggio e destinate alla macchina
(o, al massimo, ad altri sviluppatori che conoscono quel linguaggio).
La rilevanza dei requisiti di creatività e di originalità
(tipici del diritto d’autore) tende quindi a prevalere sulla
peculiarità della vocazione funzionale del software; infatti,
la soluzione tecnica cui un programma è preposto può
essere raggiunta dal programmatore in diversi modi a seconda del
linguaggio prescelto e di come le istruzioni sono disposte all’interno
del codice.[69]
Una volta stabilita la normativa applicabile, deduciamo dai principi
cardine del diritto d’autore quali diritti l’autore
possa vantare sull’opera in base a tale tutela. Il diritto
continentale europeo, e in particolar modo quello italiano, avverte
la distinzione fra diritti morali d’autore, legati alla sfera
personale dell’autore e quindi inalienabili (principalmente
il diritto al riconoscimento della paternità dell’opera),
e diritti patrimoniali d’autore, ovvero tutto il fascio di
diritti passibili di una valutazione economica (quindi alienabili)
che ruotano attorno alla gestione e alla diffusione dell’opera.
Nella nostra analisi prenderemo in maggiore considerazione quest’ultima
sfera per due motivi: sia a causa della dimensione di politica economica
in cui abbiamo più volte inquadrato le scelte in materia
di tutela del software, sia perché gli ordinamenti di common
law come gli U.S.A. – quindi gli ordinamenti che più
hanno influito sulla regolamentazione del software – non presentano
una simile dicotomia, considerando il diritto d’autore come
sempre rilevante dal punto di vista patrimoniale.[70]
Nel nostro sistema normativo, questi diritti di stampo patrimoniale
sono quelli sanciti dall’art. 12 l.a., che recita: “L’autore
ha il diritto esclusivo di pubblicare l’opera. Ha altresì
il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera
in ogni forma e modo originale o derivato, nei limiti fissati da
questa legge, ed in particolare con l’esercizio dei diritti
esclusivi indicati negli articoli seguenti. E’ considerata
come prima pubblicazione la prima forma di esercizio del diritto
di utilizzazione.” E’ palese il reiterato riferimento
al concetto di diritto esclusivo, che successivamente viene ribadito
per esempio nell’art. 13 (diritto esclusivo di riproduzione)
e nell’art. 17 (diritto esclusivo di distribuzione). Questa
categoria di diritti mira a conferire all’autore una possibilità
d’azione (nei confronti dell’opera) preclusa a qualunque
altro soggetto: si cita spesso, per mostrarne la portata, l’espressione
latina ‘ius excludendi alios’, cioè il diritto
di escludere gli altri da una determinata sfera d’azione,
la possibilità da parte del titolari di tali diritti di vietare
condotte da lui non autorizzate.[71]
Come vedremo in questo capitolo, saranno proprio questi diritti
ad entrare maggiormente in gioco nell’ambito della distribuzione
del software.
2.
FUNZIONE E CONTENUTO DELLE LICENZE D’USO. – Data la
sussistenza dei diritti esclusivi derivante dalla tutela d’autore,
in base ai cardini del diritto privato è necessario che l’autore
del software stipuli un contratto con l’utente nel quale definisca
di quali prerogative si spogli e di quali quindi possa essere investito
l’utente, ovviamente per contro di un corrispettivo (stante
la patrimonialità di tali diritti). Una prassi di questo
tipo, basata cioè su contratti stipulati ad hoc per ogni
situazione o soggetto, poteva aver ragion d’essere solo nell’era
“primordiale” dell’informatica, quando la figura
del programmatore era assimilabile ad un libero professionista chiamato
alla progettazione di un sistema informatico specifico per un centro
di ricerca. Dal momento dell’ingresso del software nella schiera
dei beni di consumo, gli autori iniziarono a stilare dei contratti
di portata generale in cui esprimevano i termini della distribuzione
e della riproduzione del software su cui essi vantavano i suddetti
diritti esclusivi: nacque così il tipo contrattuale della
licenza d’uso di software.
La scelta del termine licenza è dovuta probabilmente alla
funzione autorizzativa del contratto, anche se – come molti
giusprivatisti fanno notare[72] – non sarebbe pienamente appropriata.
In realtà la definizione autentica di ‘licenza’
implicherebbe un contratto di concessione da parte di un soggetto
(licenziante) ad un altro soggetto (licenziatario) “non solo
della facoltà di godere di una certa idea creativa, ma anche
di sfruttarla economicamente”[73]. Ma nella maggior parte
dei casi l’oggetto del contratto si limita al solo godimento
personale del bene software, non estendendosi ai diritti di sfruttamento
economico che restano invece in capo all’autore originario[74].
E’ per questo che la dottrina giusprivatistica maggioritaria
opterebbe per qualificare il rapporto fra autore e utente del software
come una locazione, dato che con il tipo contrattuale che si usa
chiamare impropriamente ‘licenza d’uso’ “non
si cede alcun diritto di sfruttamento economico sul bene, ma ci
si limita a concedere il solo godimento personale del programma.”[75]
Per quanto riguarda invece i diritti di proprietà sul software
è il caso di distinguere fra proprietà del software
in quanto bene materiale (supporto) e proprietà del software
in quanto opera dell’ingegno[76]. La seconda rileva per il
diritto d’autore (è detta infatti ‘proprietà
intellettuale’) e si fonda sul meccanismo dei diritti esclusivi
licenziati; la prima invece rimane nella sfera d’influenza
del diritto privato, risolvendosi in un normale contratto di compra-vendita.
Così come d’altronde succede quando ci si reca da un
rivenditore di materiale informatico per comprare un pacchetto software;
anche se spesso perfezionati nello stesso momento, vengono eseguiti
due contratti separati e di diversa natura: quello con il rivenditore
(che ha per oggetto la proprietà materiale del supporto su
cui il software è venduto) e quello con la compagnia produttrice
del software (che ha per oggetto i diritti di proprietà intellettuale
dell’opera software). La piena proprietà del supporto
e degli “accessori” del bene è indiscussa; a
creare maggiori perplessità e a diventare oggetto centrale
di questa nostra analisi giuridica, è invece la portata dei
diritti di proprietà intellettuale derivanti dai diritti
esclusivi di sfruttamento economico in capo all’autore dell’opera.
3.
DIVERSE TIPOLOGIE DI DISTRIBUZIONE DEL SOFTWARE. – Il software,
a seconda del grado di libertà che il titolare dei diritti
di tutela decide di attribuire agli utenti della sua opera, può
essere classificato all’interno di un prospetto di definizioni[77],
che sono ovviamente da intendersi in modo piuttosto elastico ma
ci aiutano a raggiungere una certa dimestichezza con le tipologie
di distribuzione dell’opera software.
In una scala di valore che parte da un grado minimo di libertà
per l’utente verso il grado massimo, al primo scalino abbiamo
prevedibilmente il software proprietario, con le sue molteplici
e sovrapposte forme di distribuzione; le più diffuse sono:
il software commerciale proprietario, che prevede l’acquisto
della licenza d’uso del prodotto o per avviarne l’uso
(solitamente per mezzo di parole-chiave che permettono di superare
i meccanismi di crittazione) o addirittura per entrare in possesso
del supporto materiale (CD-ROM o floppy-disk)[78]. Ci sono poi le
versioni di prova, chiamate in gergo trial version (lett. versioni
di prova) o demo, nelle quali il programma si presenta privo di
alcune funzionalità, oppure completo ma con una possibilità
di utilizzo limitata nel tempo (in questo caso di parla anche di
shareware); tutto ciò sempre attuato mediante meccanismi
automatici di crittazione[79]. Scaduto il periodo di prova, solitamente
il programma invita l’utente ad acquistare la licenza per
poterne continuare l’uso. Abbiamo anche il caso - sicuramente
meno diffuso - dei programmi AD-ware, i quali mostrano durante l’uso
alcuni banner pubblicitari; i costi di licenza quindi sono coperti
in via indiretta dalle aziende inserzioniste. Infine si parla di
freeware, riferendosi a un software commerciale completo che però
viene ceduto in uso gratuito[80] per motivi promozionali[81], o
in base a contratti che puntano più che altro sull’aspetto
della manutenzione e della customizzazione.
Sul secondo scalino - quello centrale - sta invece il fenomeno di
cui questo saggio si occupa: il software libero e aperto, basato
sul meccanismo del copyleft, con le peculiarità proprie delle
due denominazioni di ‘free software’ e ‘opensource
software’[82]. Possiamo effettuare un’ulteriore graduazione
anche all’interno di questa che abbiamo volutamente considerato
come un’unica categoria: nel modo in cui abbiamo già
spiegato nell’evoluzione storica del fenomeno, se ci focalizziamo
sulla libertà in senso ideologico lo scalino più alto
spetta al ‘free software’ caro alla FSF; se però
ci limitiamo alle implicazioni pratiche del concetto di libertà
ci accorgiamo che è molto difficile tracciare un confine
fra le due definizioni.
Sul terzo e ultimo scalino, quello col massimo grado di libertà
per l’utente, troviamo infine il public domain software (software
di pubblico dominio), ovvero un software non solo distribuito gratuitamente
e liberamente, ma addirittura privo di ogni annotazione di copyright,
tanto da occultarne anche la paternità (il cosiddetto aspetto
‘morale’ del diritto d’autore). Uno strumento
dunque regalato alla conoscenza, di cui chiunque è libero
di fare ciò che vuole senza alcun limite derivante da licenza[83].
4.
IL CONCETTO DI COPYLEFT. – Prendendo le mosse dalla classificazione
appena riportata, a rigor di logica la scelta del public domain
dovrebbe essere quella che garantisce la maggior libertà
di diffusione e di malleabilità e perciò dovrebbe
rappresentare il modello più calzante con l’apparato
etico sbandierato dalla FSF. E infatti è così, ma
solo in linea di principio.
Proviamo a riflettere su una cosa: lasciare il software in un regime
di pubblico dominio comporta – come abbiamo detto poco fa
– che chiunque possa farne ciò che vuole; ma pubblico
dominio in questo caso non vuol dire ‘proprietà di
tutti’ intendendo ‘tutti’ come ‘comunità
organizzata’, bensì intendendo ‘tutti’
come ‘ciascuno’. Di conseguenza, ciascuno potrebbe anche
attribuirsi arbitrariamente i diritti esclusivi di tutela e iniziare
a distribuire il software da lui modificato come se fosse software
proprietario, criptando il sorgente e misconoscendo la provenienza
pubblica del software, senza che nessuno possa agire nei suoi confronti.
Una simile prospettiva avrebbe presto vanificato gli scopi del progetto
GNU, con il rischio oltretutto di vedere defraudato il lavoro dei
numerosi sviluppatori che vi avevano aderito con spirito di dedizione
e gratuità. Bisognava escogitare una soluzione per far sì
che ogni affiliato del progetto fosse a sua volta tenuto a mantenere
lo stesso grado di libertà sul lavoro da lui svolto. Qui
s’innesta la trovata forse più geniale ed interessante
di Stallman: egli capì che l’arma più efficace
per difendersi dalle maglie troppo strette del copyright (così
come si è evoluto negli ultimi anni) stava nel copyright
stesso. Per rendere dunque un software veramente e costantemente
libero è sufficiente dichiararlo sotto copyright e poi riversare
le garanzie di libertà per l’utente all’interno
della licenza, ribaltando così il ruolo della stessa e creando
un vincolo di tipo legale fra la disponibilità del codice
e le tre libertà fondamentali: di utilizzo, di modifica e
di ridistribuzione[84].
Stallman descrive in modo efficace questa prassi (lasciando come
sempre trasparire dalle sue parole una vena ideologica): “Gli
sviluppatori di software proprietario ricorrono al copyright per
rubare agli utenti la propria libertà; noi usiamo il copyright
per tutelare quella libertà.”[85] Come già aveva
fatto per l’etimologia di ‘GNU’, cercò
di attribuire a questo criterio (banale e rivoluzionario allo stesso
tempo) un nome emblematico; e lo fece sfruttando un gioco di parole,
anzi un doppio gioco di parole. Scelse l’espressione ‘copyleft’
che, a seconda dei significati che si danno alla parola ‘left’,
trasmette una duplice idea: un’idea di ‘ribaltamento’
degli stereotipi del copyright tradizionale, se s’intende
‘left’ (sinistra) come contrario di ‘right’
(destra); ma anche e soprattutto un’idea di ‘libertà
d’azione’ dato che ‘left’ è il participio
passato di ‘leave’, cioè ‘lasciare’,
‘permettere’.
Qualcuno si è avventurato in una forzata traduzione di ‘copyleft’
in ‘permesso di copia’ o ‘permesso d’autore’,
anche se a mio avviso questa è una di quelle espressioni
tipiche dello slang hacker che rimangono intraducibili per la loro
innata efficacia[86]. Infatti, nella traduzione italiana si perde
irrimediabilmente il senso del duplice gioco di parole, dato che
non si può cogliere l’idea di ribaltamento.
Quest’ultima sfumatura semantica è stata poi evidenziata
dai seguaci della FSF con un’ulteriore distorsione linguistica:
alcuni di loro amavano apporre ironicamente sui loro lavori una
nota sul copyright il cui testo letterale è
- - - - - - “copyleft (?) - all rights reversed”[87]
- - - - - -
ovvero, “copyleft - tutti i diritti rovesciati” con
una ‘C’ rovesciata invece del canonico “copyright
(C) - all rights reserved” (cioè, “copyright
- tutti i diritti riservati”). Dopo tale annotazione venivano
poi elencati (alla stregua di una licenza d’uso) tutte le
libertà di cui l’utente era ufficialmente investito
e veniva rimarcato l’obbligo di mantenerle intatte in futuro
nei confronti degli altri utenti.
A conti fatti, dunque, il copyleft consiste nel convertire
le licenze d’uso, da decalogo degli obblighi dell’utente[88],
in una sorta di “statuto” dei suoi diritti[89],
intoccabili nel tempo e invariabili presso terzi[90].
5.
LA GENERAL PUBLIC LICENSE: SCOPI, CONTENUTI E RISVOLTI GIURIDICI.
– Stallman stesso, con la consulenza di alcuni colleghi hacker
e giuristi[91], volle redigere il testo base della licenza da apporre
ai programmi GNU. Lo fece lasciando immancabilmente trasparire gli
intenti ideologici del progetto anche nelle parole di quello che
invece sarebbe potuto rimanere un testo di tipo tecnico-giuridico,
franco da certe connotazioni[92]. Ad ogni modo, il passo fu determinante
e molti guardarono con occhi affascinati quella nuova “creatura”[93]:
era il 1989 e venne chiamata GNU General Public License, più
conosciuta per il suo acronimo GPL. Coerentemente con quanto appena
detto sulla traduzione di ‘copyleft’, è opportuno
notare che la versione italiana ‘Licenza pubblica generica
GNU’ rischia di distorcere il significato dell’espressione,
soprattutto riguardo all’aggettivo ‘pubblico’
che ad un’attenta analisi semantica non coincide con il concetto
di ‘public’ tipico dei paesi di common law[94].
Analizziamone il contenuto, seguendo il testo della licenza nella
più recente versione 2 (giugno 1991) tradotta in italiano[95].
Per una lettura attenta e precisa del documento si rimanda all’appendice
con i testi delle principali licenze.
Già dalle prime righe si può notare che – a
conferma di quanto detto poc’anzi sul fondamento giuridico
del copyleft – si tratta di un documento che basa tutta la
sua essenza ed efficacia sul copyright, a differenza di ciò
che si può pensare comunemente. Lo si coglie pure dal fatto
che lo stesso testo della GPL viene dichiarato inequivocabilmente
tutelato da copyright da parte della Free Software Foundation Inc.,
organizzazione identificata inequivocabilmente con tanto di città,
via e numero civico. Successivamente si riporta una nota, che è
poi l’essenza del concetto di copyleft inteso però
solamente come ‘permesso di copia’: “chiunque
può copiare e distribuire copie letterali di questo documento,
ma non ne è permessa la modifica.” Quest’annotazione
preliminare è ovviamente resa necessaria al fine di evitare
che il destinatario della licenza ne possa stravolgere la funzione
primaria cambiandone i contenuti e alterandone la disciplina a suo
piacimento; quindi, sotto questo aspetto, unico soggetto autorizzato
a rilasciare modifiche o addirittura nuove versioni è la
FSF, in posizione di detentrice dei diritti di copyright.
Il documento procede con un ‘Preambolo’, che si presenta
– lo abbiamo già accennato – come una summa dei
principi etici e giuridici di cui la FSF si fa massima portavoce.
Sette paragrafi per chiarire l’intento programmatico della
licenza, la sua funzione tecnico-giuridica, il suo corretto utilizzo
e i rapporti di responsabilità e garanzia nel sistema GNU
di distribuzione del software; tutti aspetti che si ripercorrono
subito dopo nella lettura delle tredici sezioni (o commi [96]) della
“licenza vera e propria”.
La ‘Sezione 0’ dà alcune definizioni (per es.
i concetti di “programma”, “opera basata sul programma”
e “modifica”) per una corretta interpretazione dei punti
successivi e delimita l’ambito d’azione della licenza,
precisando quali attività relative al programma essa copra:
l’esecuzione, la copiatura, la distribuzione e la modifica[97];
quindi altre attività non sono da intendersi contemplate
e quindi tutelate dalla GPL.
La ‘Sezione 1’ si sofferma sulle condizioni che rendono
lecita la distribuzione e la copia del programma: si ribadiscono
in pratica i paradigmi del copyleft relativi all’obbligo di
trasmettere (mediante “un’appropriata nota sul copyright”)
gli stessi diritti ricevuti.
La ‘Sezione 2’ scende nello specifico del concetto di
modifica e delle sue delicate implicazioni giuridiche; si entra
infatti nel terreno accidentato che porta alla configurazione del
software nato da modifica di altro software come ‘opera derivata
ai sensi della legge sul copyright’. Questa sezione –
per le ragioni che abbiamo esaminato parlando di libertà
e disponibilità del codice sorgente – è sicuramente
una delle più decisive ed innovative alla luce degli scopi
pratici della GPL; infatti è proprio la possibilità
di modifica che distingue un software libero e opensource da un
normale software commerciale distribuito gratuitamente (come le
versioni trial o freeware).
La ‘Sezione 3’, a completamento di quanto detto poco
prima, mira ad assicurare la disponibilità del codice sorgente
e stabilisce le condizioni della sua diffusione. Successivamente
effettua un utilissimo chiarimento del concetto di “codice
sorgente completo”, prima in senso concettuale (“la
forma preferenziale usata per modificare un’opera software”),
poi in senso strettamente tecnico (al quale si rimanda[98]).
La ‘Sezione 4’ riguarda la validità della licenza
e si presenta come una sorta di “norma di chiusura”
con la quale si escludono dalla copertura della GPL (con un meccanismo
di decadenza automatica dai diritti licenziati) le attività
diverse da quelle esplicitamente previste dalla licenza.
La ‘Sezione 5’ e la ‘Sezione 6’ sono dedicate
ad alcuni aspetti pratici della distribuzione di prodotti sotto
GPL: l’acquirente di un programma di questo tipo è
libero di non accettare i termini della licenza (e quindi di non
usare quel prodotto), ma qualora lo modificasse o lo distribuisse
ciò significherebbe l’accettazione tacita e automatica
della licenza, e di conseguenza l’assunzione degli obblighi
di trasferimento dei diritti licenziati. Queste due sezioni –
per così dire – fungono da “collante” fra
la licenza e il prodotto distribuito nei termini in essa determinati:
in parole povere, ci dicono che chi non vuole accettare le condizioni
della GPL, può benissimo lavorare su un altro tipo di software;
qualora però volesse un prodotto di ‘software libero’,
deve accettarne in toto le peculiarità giuridiche e di distribuzione.
Molto interessanti risultano invece le ‘Sezioni 7 e 8’
che prevedono alcune cautele per ovviare al rischio di eventuali
modifiche ai termini della licenza imposte da statuizioni di autorità
giudiziarie o da peculiari regimi legislativi. Nel caso tali obblighi
“istituzionali” dovessero contrastare con i dettami
fondamentali della GPL, allora il prodotto in questione non potrebbe
più essere distribuito. Come esempio, la ‘Sezione 7’
porta - non a caso - l’eventuale contrasto dei termini della
licenza con la normativa brevettuale in alcuni paesi.[99]
La ‘Sezione 9’ si riferisce ai diritti di copyright
sul testo stesso della licenza (vedi poco sopra) e si configura
come una norma di apertura, dato che con essa la Free Software Foundation
si riserva la possibilità di pubblicare revisioni o nuove
versioni della GPL (identiche nello spirito ma più precise
nei dettagli), “al fine di coprire nuovi problemi e nuove
situazioni.”
La ‘Sezione 10’ prevede la possibilità di armonizzare
i differenti regimi giuridici nel caso in cui un programma coperto
da GPL sia incorporato in altri programmi liberi coperti però
da altri tipi di licenze.
Le ‘Sezioni 11 e 12’ rappresentano invece la parte più
determinante dal punto di vista del diritto civile in generale,
trattandosi di uno “scarico di responsabilità”
per coloro che hanno partecipato allo sviluppo e alla distribuzione
del software libero. La ‘Sezione 11’, incentrata sull’assenza
di garanzia (sia essa implicita o esplicita), specifica che “l’intero
rischio concernente la qualità e le prestazioni del programma
è dell’acquirente”; la ‘Sezione 12’
contempla invece l’assenza di responsabilità per danni
(“generici, speciali o incidentali”), menzionando alcune
fattispecie esemplari di “danni che conseguono dall’uso
o dall’impossibilità di usare il programma” (perdita
dei dati o difficoltà nell’interazione con altri programmi).
E’ una scelta pacificamente condivisibile quella di inserire
queste due sezioni, dato che la singolare modalità di sviluppo
dell’opera solo per assurdo potrebbe configurare una responsabilità
in capo ad un soggetto così indefinito! E’ opportuno
quindi che chiunque decida di usare un software libero sia informato
chiaramente di tale sua natura (non a caso le due sezioni in esame
sono scritte in carattere ‘tutto maiuscolo’, risultando
così maggiormente visibili).
Dopo la ‘Fine dei termini e delle condizioni’, è
apposta un’appendice esemplificativa su come servirsi in modo
corretto della General Public License, contenente un fac-simile
delle annotazioni di copyright che si necessitano affinché
una nuova opera software sia considerata coperta a tutti gli effetti
da tale licenza.[100]
6.
IL PROBLEMA DELLA ‘VIRALITÀ’ E LA LESSER GPL.
– Le prime applicazioni della GPL hanno fatto però
emergere un problema di tipo pratico, derivante proprio da una caratteristica
specifica e peculiare della licenza: la sua ‘viralità’[101].
Cioè la sua capacità di trasmettere presso un numero
indefinito di utenti una certa serie di diritti e responsabilità;
“in pratica tutto il codice sviluppato per funzionare in associazione
con software GPL dev’essere a sua volta coperto da GPL”[102],
pena la caducazione dell’intera licenza ex ‘Sezione
5’. Lo dice chiaramente il periodo finale dell’appendice
esemplificativa per la corretta applicazione della GPL: “I
programmi coperti da questa Licenza Pubblica Generica non possono
essere incorporati all'interno di programmi non liberi.”
Ma bisogna tenere presente che il software non è un’entità
statica e monolitica, bensì un insieme fittissimo di altri
software, se per software intendiamo una serie di istruzioni impartite
al computer Perciò è possibile che nel modello “a
cascata” di ridistribuzione del software libero, grazie alla
disponibilità del codice sorgente completo e alla possibilità
di modifica garantite dalla GPL, qualche sviluppatore voglia scorporare
il pacchetto software e rielaborarne solo una parte (che potremmo
chiamare “microsoftware”), oppure decida di fare interagire
un software di derivazione libera con un software proprietario.
E’ il tipico caso delle librerie[103]: esse sono delle “raccolte
di funzioni” precompilate (dette routine)[104] a disposizione
del computer, di cui possono “servirsi” i programmi
veri e propri che vengono eseguiti, pur non facendo realmente parte
dei programmi stessi. In questo modo può facilmente verificarsi
che un software libero si appoggi su un libreria di origine proprietaria
e viceversa. Quindi un’eccessiva rigidità (come per
certi versi è quella della GPL) può risultare controproducente
allo sviluppo di software libero: uno sviluppatore GNU che volesse
creare una libreria sotto i parametri del copyleft saprebbe che
poi molti utenti di software proprietario potrebbero avere dei problemi
ad usarla.
Fu per questo che, dopo che molti collaboratori del progetto GNU
fecero notare questa difficoltà, la FSF decise (nel 1991)
di stilare una seconda licenza, chiamata LGPL, Library General Public
License[105]. E’ dunque una licenza apposita per il caso delle
librerie, che si presenta come una versione della GPL alleggerita
però di alcune restrizioni (per questo infatti è stata
recentemente rinominata ‘Lesser GPL’, ovvero ‘GPL
minore’). Ovviamente la FSF “diffida” chiunque
ad usare questa licenza per software che non siano librerie, pena
l’esclusione del programma così distribuito dalla “famiglia”
del software libero.
7.
ALTRE IMPORTANTI LICENZE PER SOFTWARE. – Sulla scia dei segnali
di successo raccolti nell’ambito della comunità hacker
(e non solo) dalla licenza di Stallman, cominciarono a diffondersi
altre licenze per software che – pur con funzioni e criteri
diversi – si ispiravano al modello individuato dalla FSF.
Ne vediamo alcune con maggiore attenzione.
7.1.
LA BSD LICENSE. – La BSD License ha le sue radici, negli anni
d’oro della scienza informatica, in un progetto che potrebbe
essere considerato addirittura come precedente al progetto GNU.
L’acronimo BSD si riferisce alla Berkley Standard Distribution,
ovvero la versione di Unix sviluppata negli anni 70 dalla prestigiosa
università californiana con il modello di libera condivisione
tipico dell’epoca[106]. Quando poi (alla fine degli anni 80)
la compagnia produttrice di software AT&T decise di commercializzare
Unix ci fu un’inversione di tendenza e ovviamente le nuove
versioni del sistema operativo contenevano codice BSD inframmezzato
da codice proprietario. Dunque gli sviluppatori originari della
BSD separarono il proprio codice dal resto del sistema operativo;
si impegnarono poi a ‘riempire i buchi’ e, una volta
trasformata la BSD in un sistema operativo completo e indipendente,
iniziarono a ridistribuirla sotto una nuova singolare licenza rilasciata
dalla University of California (appunto la BSD license). Costoro
dopo qualche anno (nel 1993) si organizzarono nel “FreeBSD
Project” con lo scopo di coordinare lo sviluppo del software
e di rilasciarne le versioni aggiornate. La prima versione (1.0)
risale al 1993, mentre nel 1999 si era già giunti alla versione
3.0.[107]
Si tratta questa di una licenza piuttosto asciutta, senza componenti
ideologiche o programmatiche e parti esemplificative, i cui termini
risultano sintetici e essenziali e la cui applicazione si risolve
nell’inserimento di una breve nota standard da inserire nei
file che s’intendono tutelare con la licenza. La nota (detta
‘template’, ovvero ‘sagoma’) deve riportare
il nome di chi detiene il copyright (owner), l’organizzazione
a cui egli appartiene e l’anno di realizzazione. Il testo
della licenza prosegue poi specificando che, del software così
tutelato, sono permesse la ridistribuzione e l’utilizzo in
forma sorgente o binaria, con o senza modifiche, ma solo se vengono
rispettate tre condizioni:
- le ridistribuzioni del codice sorgente devono mantenere la nota
sul copyright;
- le ridistribuzioni in forma binaria devono riprodurre la nota
sul copyright, l’elenco delle condizioni e la successiva avvertenza
nella documentazione e nell’altro materiale fornito con la
distribuzione;
- il nome dell’autore non potrà essere utilizzato per
sostenere o promuovere prodotti derivati dal software licenziato,
senza un apposito permesso scritto dell’autore.
In fine si trovano gli avvertimenti (disclaimer) sull’assenza
di garanzia e sullo scarico di responsabilità, che ricalcano
grossomodo lo schema dei loro corrispondenti all’interno della
GPL[108]. Un attento osservatore dell’Opensource come strategia
commerciale qual è Brian Behlendorf cristallizza in modo
efficace e colorito lo spirito della BSD: “Ecco il codice,
fateci quello che volete, non c'interessa; solo, se lo provate e
lo vendete, datacene credito”.[109]
E’ il caso invece di mettere in luce la caratteristica più
problematica di tale licenza, ovvero la possibilità di usare
il codice da essa tutelato per sviluppare software proprietari:
aspetto che la pone al di fuori del paradigma di ‘copyleft’,
poiché non è garantita la trasmissione all’infinito
dei diritti da essa concessi, i quali si interrompono nel momento
in cui il codice diventa proprietario. Tuttavia, storicamente, le
dispute più accese riguardanti la BSD non derivavano da questa
caratteristica (d’altronde l’importante era che venisse
dichiarato esplicitamente che non si trattava di ‘software
libero’ nel senso voluto dalla FSF), bensì quella che
venne chiamata la “clausola pubblicitaria”. La clausola
obbligava l’utente a “dare esplicito riconoscimento
all’Università [Berkeley] nelle eventuali inserzioni
pubblicitarie previste per i programmi derivati”[110]. Ma
col tempo alcuni sviluppatori aggiunsero alla clausola i nomi di
altre organizzazioni che avevano sostenuto lo sviluppo del software,
comportando che dovessero essere citati sempre più soggetti
nelle inserzioni.[111]
Questo ingombrante effetto a catena portò nel 1999 l’università
californiana a decidere di eliminare quella clausola dalla versione
ufficiale della licenza. Da quel momento cessò anche “l’ostracismo”
dimostrato da Stallman nei confronti della BSD license, la quale
nonostante tutto vanta una discreta diffusione (probabilmente grazie
anche al fatto di essere strettamente connessa con il sistema Unix[112]
e con il sistema Apache).
7.2.
LA MOZILLA PUBLIC LICENSE. – Quella del progetto Mozilla[113]
è una storia altrettanto interessante e per inquadrarne la
dinamica è necessario ricollegarsi a quanto detto nel capitolo
precedente riguardo alla scelta rivoluzionaria compiuta per la distribuzione
del software Netscape Navigator[114]. Quando infatti la Netscape
decise di diffondere il sorgente del suo prodotto di punta, dovette
fare i conti con una situazione abbastanza diversa da quella in
cui si trovava il progetto GNU: quest’ultimo infatti aveva
degli intenti propagandistici e no-profit che non potevano armonizzarsi
invece con la realtà di una grande azienda. Bisognava quindi
“liberare il sorgente” senza però rendere il
software un effettivo software libero, nel senso voluto dalla FSF,
dato che non si voleva precludere la possibilità di inframmezzarlo
con codice di natura proprietaria; bisognava anche appurare se qualcuna
delle licenza già comparse sul mercato fosse stata adeguata
al tal fine.
I grandi nomi impegnati in questo progetto (ovvero Torvalds, Raymond
e O’Reilly) consultarono esperti di informatica, diritto e
marketing, prendendo in esame le caratteristiche delle licenze GPL,
LGPL e BSD. La prima venne subito esclusa per la sua rigidità
nel proibire la contaminazione con codice di derivazione proprietaria
e per il cosiddetto problema della “effetto virale”
di questa sua rigidità; la seconda, in quanto versione più
aperta e permissiva della sua “sorella maggiore”, poteva
essere più appetibile, “ma conteneva ancora troppi
dei tranelli della GPL”[115]; la BSD pur nella sua semplicità
ed elasticità, fu però giudicata insufficiente allo
sviluppo del progetto.
Non c’erano dubbi: era giunto il momento di stilare una nuova
apposita licenza, che, a detta dei loro promotori, si sarebbe posta
come un primo tentativo di compromesso fra i criteri giuridico-ideologici
del software libero tradizionale e lo sviluppo a livello aziendale
di software a sorgente aperto. Nacque così la Netscape Public
License (NPL), il cui testo venne diffuso a titolo informativo in
un newsgroup telematico per testare il livello di gradimento da
parte degli utenti: era il 5 marzo 1998[116]. Da subito il feedback
ricevuto da tutta la comunità Opensource si rivelò
estremamente critico: la licenza infatti, con una certa contraddittorietà,
riservava alcuni privilegi al detentore originario dei diritti nella
distribuzione del codice sorgente; essa dava a Netscape il privilegio
di porre sotto un’altra licenza le modifiche fatte al suo
software, perciò l’azienda poteva tenere come private
quelle modifiche, approfittarne per migliorare il software e rifiutarsi
di ridistribuire il risultato[117]; per di più veniva riservata
a Netscape anche la possibilità di redigere versioni aggiornate
della NPL, alla stregua di quanto faceva la FSF con la GPL (con
la differenza che la FSF era un’organizzazione no-profit e
non un’impresa con interessi economici).
Preso atto di questa “falsa partenza” da archiviare,
i coordinatori del progetto però riconfermarono strenuamente
e prontamente la loro vocazione per l’Opensource e nell’arco
di due settimane seppero rivisitare la loro impostazione. Il 21
marzo infatti venne diffusa una nuova licenza, libera da quei privilegi
che avevano generato tante critiche: la Mozilla Public License (MPL),
che prese il suo nome stravagante da un nomignolo[118] usato scherzosamente
dagli sviluppatori della Netscape; essa era stata predisposta per
operare “all’interno della NPL” ed era identica
a quest’ultima tranne che nella mancanza dei privilegi. Il
codice di Navigator fu dunque pubblicato per la prima volta il 31
marzo 1998 sotto licenza NPL; il codice da qui derivato poteva invece
essere sotto MPL (o sotto ogni altra licenza compatibile) e quindi
poteva essere inserito (in grado variabile) all’interno di
un pacchetto di software commerciale. In questo modo il Progetto
Mozilla riusciva finalmente ad assecondare il duplice intento di
diffusione a sorgente aperto e di proficua strategia aziendale.
Ancora Behlendorf ci fa perspicacemente notare una particolarità
di tipo giuridico nella nuova licenza: infatti, in essa più
che in altre licenze anteriori, sono presenti alcune rilevanti clausole
(precisamente nella ‘Sezione 2’)[119] mirate a tutelare
gli sviluppatori del progetto Mozilla dalla malafede di coloro che
avrebbero potuto approfittare della elasticità della licenza,
inserendo tacitamente parti di codice coperte da brevetto, per poi
rivendicarne per vie legali il pagamento. “La licenza […]
prescrive che l'azienda o l’individuo che contribuisca con
codice al progetto rinunci ad ogni possibile pretesa a diritti di
brevetto a cui il codice potrebbe dare adito.”[120]
La licenza Mozilla[121], tuttora usata per i browser Netscape, resta
incompatibile con la GPL - per i motivi già esposti a proposito
della NPL - ma può essere finalmente qualificata come licenza
Opensource, nel senso in cui tale concetto proprio in quegli anni
andava delineandosi[122].
8.
UNA SORTA DI “PATROCINIO” SULLE LICENZE. – Come
abbiamo già rilevato nella dinamica storica e antropologica
del movimento Opensource, nel 1998 la diffusione di software sotto
licenze diverse dal concetto tradizionale di licenza d’uso
era diventata una prassi ormai radicata e la scelta “illuminata”
di Netscape rappresentò l’avvenuta maturazione dei
tempi per una – per così dire – istituzionalizzazione
dell’Opensource.
Le più rappresentative e carismatiche personalità
della comunità emergente cominciarono a cogliere la necessità
di fare chiarezza (anche da un punto di vista giuridico) sul fenomeno
che avevano strenuamente sostenuto e pensarono di organizzarsi in
gruppi di lavoro e associazioni che coordinassero i vari progetti
e ne mantenessero alta la visibilità. Una volta costituite
tali organizzazioni e confermata la loro credibilità a livello
internazionale, esse iniziarono un’opera di cernita, commento
e consulenza sui testi delle licenze che via via si trovavano in
circolazione, segnalando quali fossero le più indicate a
determinate finalità: una sorta di “patrocinio”,
una certificazione di conformità allo spirito dei vari progetti.
8.1.
LA OPEN SOURCE DEFINITION. – I primi a muoversi in questo
senso furono proprio alcuni degli artefici di Mozilla, i quali sotto
la guida di Eric Raymond costituirono la Open Source Initiative
(di cui abbiamo già parlato) con lo scopo appunto di farsi
supremi custodi e garanti del concetto di ‘software Open Source’.
Come base per questo progetto, la OSI raccolse i suoi esperti di
informatica e di diritto per stilare una sorta di documento-decalogo
in cui venissero delineati gli standard secondo i quali un software
potesse essere definito Open Source: la Open Source Definition,
ovvero la ‘definizione di open source’.
Fedele alla sua vocazione di “statuto dei diritti dell’utente”
questo testo focalizza la centralità di tre diritti primari
che la tipologia di distribuzione del software deve rispettare:
- il diritto di fare copie del programma e di ridistribuirle liberamente,
- il diritto di accesso al codice sorgente,
- il diritto di poter intervenire sul programma e modificarlo.[123]
Dunque la Open Source Definition (OSD) non è un modello di
licenza per software opensource (come qualcuno potrebbe pensare)
bensì una “specifica di quanto è ammesso in
una licenza software perché possa essere considerata Open
Source” [124]; può esser vista, in un certo senso,
come una “licenza per le licenze”.
Dopo una breve introduzione che ammonisce il lettore a non considerare
‘Open Source’ come semplice sinonimo di ‘disponibilità
del sorgente’, il documento si estrinseca in 10 sezioni che
da un lato chiariscono e riconfermano alcuni principi cardine del
software libero, dall’altro ne creano alcuni indipendenti
ed appositi per il concetto di Open Source. Per esempio, nel primo
gruppo, ovvero quello coerente a grandi linee con quanto abbiamo
già incontrato a proposito della GPL, possiamo inserire la
‘Sezione 1’ (sulla libertà della ridistribuzione),
la ‘Sezione 2’ (sulla disponibilità del codice
sorgente), la ‘Sezione 3’ (sulla possibilità
di apporre modifiche e realizzare così opere derivate), le
‘Sezioni 5 e 6’ (sul divieto di discriminazione di persone
o settori di applicazione).
Altre disposizioni sembrano invece allontanarsi dalle finalità
della GPL: basti pensare alla ‘Sezione 9’ (sui rapporti
fra diversi regimi di licenza), la quale stabilisce che “la
licenza non deve contaminare altro software”: letto così,
tale imperativo sembrerebbe concepito solo ed appositamente per
contrapporsi alla ‘viralità’ della GPL, ma ad
un’attenta lettura si può notare che la sezione in
esame si riferisce non alla derivazione ma alla mera aggregazione;
cioè non si riferisce alla miscelazione di codice libero/aperto
con codice proprietario (derivazione), bensì alla distribuzione
su un unico media (CD-ROM o floppy-disk) di un software Open Source
e di uno proprietario (aggregazione).[125]
Molto interessante dal punto di vista giuridico la ‘Sezione
7’, che sottolinea la trasposizione automatica degli effetti
della licenza a tutti coloro ai quali il programma è ridistribuito
senza necessità di alcuna firma o di necessità di
una ulteriore licenza per ogni “gradino” della distribuzione.[126]
Un discorso a parte merita invece la ‘Sezione 10’, recentemente
novellata per intero a causa dei problemi di poca lungimiranza ed
elasticità che il suo dettato denotava. Nella versione originale[127]
essa faceva cenno ad alcune “licenze esemplari” da considerarsi
modelli conformi alla OSD, che erano la GNU GPL, la BSD, la X Consortium
e la Licenza Artistica; questa elencazione avrebbe però creato
problemi di interpretazione della OSD nel caso (nemmeno molto improbabile)
che una di queste fosse stata modificata così da risultare
invece incompatibile col concetto di Open Source. Si è deciso
così di eliminare ogni richiamo preciso ad alcune licenze
e di sostituirlo con una nuova sezione del tutto diversa ma stavolta
molto lungimirante e scaltra: s’introduce il concetto (finora
non ufficialmente contemplato dai “manifesti” del movimento
Opensource) della neutralità della tecnologia. Si proibisce
infatti di usare la licenza di un software Open Source per creare
eventuali privilegi in ambito hardware; la libertà del software
diventa quindi un by-pass per toccare un altro tema scottante: le
implicazioni col diritto industriale fra hardware, software e disciplina
antitrust. Infatti, per il già citato fenomeno delle network
externalities[128], i diritti di proprietà d’intellettuale
possono avere ‘effetti di rete’ limitativi della libertà
di scelta del consumatore. Questa dunque la breve enunciazione della
‘Sezione 10’: “La licenza dev’essere tecnologicamente
neutrale. Nessuna condizione della licenza può essere prevista
per qualche particolare tecnologia o tipo di interfaccia.”
Eliminato dunque dalla OSD ogni richiamo formale ed esplicito ad
alcune licenze, la OSI però intraprese comunque – come
abbiamo già accennato – un’opera di cernita e
monitoraggio delle licenze in circolazione, definendo nel sito ufficiale
del progetto quali di queste andassero intese come “Open Source
compatibili”.
L’obbiettivo della OSI, a dire il vero, è molto più
ambizioso: cioè addirittura trasformarsi in una specie di
“consorzio” che vigili sulla corretta interpretazione
e applicazione della Open Source Definition, attribuisca una certificazione
ai prodotti che ne rispettavano i principi e apponga su di essi
un marchio di garanzia. Inizialmente è stata richiesta la
registrazione dell’espressione “Open Source” come
marchio, ma l’autorità americana a ciò preposta
non l’ha accettata poiché troppo generica e descrittiva;
la OSI ha dunque optato per il meno equivocabile “OSI certified”,
cioè “certificato dalla OSI”.[129]
La OSI quindi non solo consente l’uso dell’espressione
Open Source per i software che rispettino i criteri della OSD, ma
autorizza su di essi l’apposizione ufficiale del marchio registrato;
si crea così un riconoscimento più forte di quello
che abbiamo simbolicamente chiamato “patrocinio”, espressione
più calzante per la prassi utilizzata dalla FSF.
Sul sito ufficiale della OSI si trova un’apposita pagina web[130]
contenente i termini e le formalità utili per perfezionare
il procedimento di apposizione del marchio e i file d’immagine
in diversi formati con lo stemma grafico da inserire sui supporti
stampati: la formula ufficiale è “ This software is
OSI Certified Open Source Software. OSI Certified is a certification
mark of the Open Source Initiative” (cioè, “Questo
software è un software Open Source certificato dalla OSI.
‘OSI certified’ è un marchio di certificazione
della Open Source Initiative”). Nel sito, inoltre è
presente un elenco costantemente aggiornato di tutte le licenze
che hanno appunto ricevuto tale riconoscimento, così da consentire
all’utente di verificare in tempo reale l’effettiva
corrispondenza di un software ai requisiti della OSD ed ovviare
eventuali abusi.
Tornando all’analisi esplicativa e comparativa compiuta da
Perens nel suo saggio-manifesto, è possibile rileggere le
principali licenze di software che abbiamo fin qui esaminato alla
luce dei criteri della Open Source Definition, rilevando quattro
fondamentali aspetti:
- la possibilità che il codice (sotto quella particolare
licenza) venga miscelato con codice di matrice commerciale;
- la possibilità che le modifiche apportate al codice siano
mantenute, senza quindi essere restituite all’autore originale;
- la possibilità che il codice così realizzato venga
liberamente ri-licenziato da chiunque;
- la permanenza di alcuni privilegi speciali sulle modifiche per
chi detiene il copyright originale.
E’ possibile ora costruire un tabella a doppia entrata che
metta in relazione questi parametri con le caratteristiche delle
sei modalità di distribuzione che abbiamo esaminato: ovvero
la GNU GPL, la GNU LGPL, la BSD license, la Netscape Public License,
la Mozilla Public License e infine il dominio pubblico[131].
Licenze |
Può
essere miscelato con software commerciale? |
Le
modifiche possono essere mantenute private e non restituite
all'autore originale? |
Può
essere
ri-licenziato
da chiunque? |
Contiene
privilegi speciali sulle modifiche per chi detiene il copyright
originale? |
GPL |
no |
no |
no |
no |
LGPL |
sì |
no |
no |
no |
BSD |
sì |
sì |
no |
no |
NPL |
sì |
sì |
no |
sì |
MPL |
sì |
sì |
no |
no |
Dominio
pubblico |
sì |
sì |
sì |
no |
N.B.: La tabella riprende la schematizzazione effettuata
da Perens
nel saggio The Open Source Definition.
8.2.
IL RUOLO DELLA FREE SOFTWARE FOUNDATION. – Come abbiamo già
accennato, anche la Free Software Foundation, dall’alto della
sua posizione privilegiata (e unanimemente riconosciuta) di prima
custode della libertà nel software, ha da sempre sfruttato
la visibilità e la credibilità derivatele da un a
personalità come Stallman per guidare gli utenti di software
verso una corretta qualificazione del concetto di software libero.
I meccanismi con cui questa organizzazione ha conferito il suo benestare
(oppure ancora “patrocinio”) alle diverse licenze in
circolazione, sono però piuttosto diversi da quelli prescelti
dalla Open Source Initiative.
Per prima cosa la FSF non usa come modello di riferimento un documento-manifesto
quale può essere considerato la OSD, bensì una vera
e propria licenza che funge – ma solo in seconda battuta –
anche da manifesto: ovvero la GPL, che viene “solennemente”
elevata al grado di licenza del ‘free software’ per
eccellenza. Essa diventa in tal modo l’unica vera licenza
che realizza appieno le quattro libertà basilari previste
dalla ‘free software definition’ (d’ora in poi
FSD):
- la libertà di eseguire il programma, per qualsiasi scopo
(libertà 0);
- la libertà di studiare come funziona il programma e adattarlo
alle proprie necessità (libertà 1);
- la libertà di ridistribuire copie in modo da aiutare il
prossimo (libertà 2);
- la libertà di migliorare il programma e distribuirne pubblicamente
i miglioramenti, in modo tale che tutta la comunità ne possa
trarre beneficio (libertà 3). Ovviamente l’accesso
al codice sorgente è considerato come prerequisito essenziale
alla ‘libertà 1’ e alla ‘libertà
3’.[132]
Inoltre, coerentemente con i principi di libertà “totale”
da essa strenuamente difesi, la FSF non avrebbe mai potuto condividere
la scelta di registrazione di un marchio di certificazione; senza
poi calcolare che, se la OSI ha incontrato problemi nella richiesta
di registrazione a causa della eccessiva descrittività e
genericità dell’espressione Open Source, tanti più
se ne avrebbero a voler definire giuridicamente un concetto così
ampio come quello di ‘libertà’. Lo stesso Stallman,
che già dai primi passi della OSI aveva esternato le sue
aspre critiche per l’intera impostazione del progetto, si
è sempre palesato contrario ad un simile meccanismo di controllo
giuridico sul rispetto dei criteri dell’Opensource. Uno dei
suoi più significativi saggi[133] contiene non a caso un
paragrafo intitolato “Un marchio registrato può aiutare?”
in cui l’hacker sostiene l’inutilità della mossa
di Raymond e Perens, comprovata – a suo dire – sia dal
tentativo fallito di registrare ‘Open Source’ come marchio,
sia dal fatto che alcune aziende sono riuscite spesso a presentare
come open source dei programmi non OSD-compatibili, pur senza usare
nel materiale divulgativo la precisa espressione ‘Open Source’
e creando in tal modo ulteriore confusione nel pubblico.[134]
In definitiva, Stallman (e quindi la FSF) è di gran lunga
più propenso a conferire quella sorta di “patrocinio”
a progetti o licenze, sfruttando fin dove possibile quella storica
e monolitica tradizione di valori etici e di esperienza sul campo
che solo la FSF può vantare; senza quindi “impantanarsi”
nelle insidie della burocrazia e mantenendo una più opportuna
elasticità e informalità nel procedimento. La lista
delle licenze di software prese in considerazione nel sito della
FSF[135] è più semplicemente divisa in licenze per
software non libero (quindi di per sé incompatibili con la
GPL e con la FSD) e licenze per software libero; quest’ultima
categoria è a sua volta bipartita in ‘licenze di software
libero compatibili con la GPL’ e ‘licenze di software
libero incompatibili con la GPL’. Ovviamente il concetto di
compatibilità usato in questo caso, non si riferisce solamente
ad una coerenza con i principi della GPL ma più tecnicamente
alla possibilità di combinare il codice così tutelato
con codice sotto licenza GPL.
In base a questa classificazione e ad alcune annotazioni sui principali
parametri presi in esame, è possibile anche in questo caso
compilare una tabella a doppia entrata riferita alle stesse licenze
prese in considerazione nello scorso paragrafo.
Licenze |
è
una licenza di software libero |
è
compatibile con la GPL? |
è
nello spirito del copyleft? |
GPL |
sì |
sì |
sì |
LGPL |
sì |
sì |
non
del tutto |
BSD
originale |
sì |
no |
no |
BSD
modificata |
sì |
sì |
no |
NPL |
sì |
no |
poco |
MPL |
sì |
no |
non
del tutto |
Dominio
pubblico |
non
è una licenza |
sì |
no |
------------------------------------------
NOTE
AL CAPITOLO III
[56]- Per questa differenziazione v. L.C. UBERTAZZI, I diritti d’autore
e connessi. (Scritti, quaderni di AIDA n.5), Giuffrè, Milano,
2000, cap. II.
[57]- v. supra cap. II, par. 3.
[58]- “Ben presto si ebbe una crescita enorme degli investimenti
in software e la partecipazione a questi investimenti degli stessi
produttori di hardware, cosicché la valutazione negativa
sulla proteggibilità dei programmi venne meno, ed anzi a
tale valutazione si sostituì una valutazione positiva così
favorevole alla protezione del risultato del lavoro intellettuale
del programmatore così da considerare preferibile la protezione
della forma di espressione del programma, come tipicamente è
quella del diritto d’autore, alla protezione del contenuto
del programma, come invece è quella brevettuale.” Cfr.
FLORIDIA, Le creazioni intellettuali a contenuto tecnologico, (Cap.
I, par. 5), in AA.VV., Diritto Industriale - Proprietà intellettuale
e concorrenza, Giappichelli, Torino, 2001, p. 205.
[59]- Le creazioni oggetto del diritto d’autore, secondo la
definizione preliminare effettuata dalla legge italiana sul diritto
d’autore (L. 633/1941: d’ora innanzi “l.a.”)
sono le opere dell’ingegno di “carattere creativo”.
Per una chiara presentazione di tale nozione, v. AUTERI, Diritto
d’autore, in AA.VV., Diritto Industriale - Proprietà
intellettuale e concorrenza, Giappichelli, Torino, 2001, pp. 490
ss.; inoltre v. diffusamente L.C. UBERTAZZI, I diritti d’autore
e connessi (cit.).
[60]- Agreement on Trade Related Intellectual Property rihgts, accordi
internazionali firmati a Marrakech nel 1994 nell’ambito dell’Uruguay
Round per la costituzione del WTO (World Trade Oragnization).
[61]- L’estratto è riportato anche da AUTERI, op. cit.,
pp. 496 ss; l’autore, in questo stesso paragrafo, analizza
anche l’importante distinzione fra forma esterna, forma interna
e contenuto di un’opera dell’ingegno.
[62]- Questa nuova categoria di opere dell’ingegno comprende
anche il design industriale e le banche dati; v. AUTERI, op. cit.,
Cap. II, par. 7, pp. 501 ss.
[63]- Per una trattazione approfondita di questa natura giuridicamente
ambigua del software, v. FRASSI, Creazioni utili e diritto d’autore,
Giuffrè, Milano, 1997.
[64]- Per una schematica presentazione degli elementi portati a
favore o a detrimento della brevettabilità del software v.
CIAMPI, Profili comparatistici della protezione del software nella
legislazione e nella prassi contrattuale, in ALPA e ZENO-ZENCOVICH
(a cura di), I contratti d’informatica, Giuffrè, Milano,
1987, p. 339.
[65]- Così FLORIDIA, op. cit., Cap. I, par. 5, p. 205.
[66]- v. CIAMPI, op. cit., pp. 340-341; per una ancor più
approfondita visuale comparatistica della tutela legislativa del
software v. FRASSI, op. cit. (par. 2.2. e par. 2.4.).
[67]- Fu introdotto anche un secondo comma all’art. 1 della
legge sul dir. d’autore, che recita: “Sono altresì
protetti i programmi per elaboratore come opere letterarie ai sensi
della Convenzione di Berna sulla protezione delle opere letterarie
ed artistiche ratificata e resa esecutiva con l. 20 giugno 1978,
n. 399.” Il numero 8 introdotto invece nell’art. 2 l.a.
ci fornisce la definizione legislativa di software, precisando che
fra le opere tutelate dalla stessa legge si annoverano anche “i
programmi per elaboratore, in qualsiasi forma espressi purché
originali quali risultato di creazione intellettuale dell’autore.
[…]”
[68]- Fra questi AUTERI, op. cit., p. 505.
[69] - “Ciò consente, da un lato, di ammettere che
i programmi possano avere carattere creativo in un senso non molto
diverso da quello che questo concetto ha in generale in materia
di diritto d’autore, dall’altro lato, consente di limitare
la tutela alla forma ‘espressiva’ […] senza investire
il contenuto […]. Cfr. AUTERI, op. cit., p. 505.
[70]- v. a tal proposito AUTERI, op. cit., pp. 543-545.
[71]- Velia Maria Leone approfondisce così la portata giuridica
del concetto di esclusiva: “La succitata esclusiva esplica
i suoi effetti in due principali direzioni, di cui l’una è
la conseguenza dell’altra: la prima consentendo al titolare
di vantare un diritto allo sfruttamento della creazione di cui è
autore; la seconda, quale espressione della prima, consistente nel
potere autorizzativo-inibitorio dell’autore nei confronti
dello sfruttamento dell’opera da parte di terzi.” LEONE,
La concessione del software fra licenza e locazione, in ALPA e ZENO-ZENCOVICH
(a cura di), I contratti d’informatica, Giuffrè, Milano,
1987, p. 354.
[72]- Per un approfondimento onnicomprensivo degli aspetti contrattuali
relativi all’informatica, si consiglia la lettura integrale
del volume (per molti aspetti ancora attuale) curato da ALPA e ZENO-ZENCOVICH,
I contratti d’informatica, Giuffrè, Milano, 1987.
[73]- Cfr. LEONE, op. cit., p. 355.
[74]- A complicare la questione (già abbastanza oscura a
livello di puro diritto privato) sopraggiunge il diritto d’autore,
che (con l’art. 64 bis, lettera ‘c’) applica al
diritto di distribuzione del software il cosiddetto principio dell’esaurimento,
in base al quale il titolare dei diritti non mantiene il diritto
di controllare la circolazione dell’opera una volta che l’abbia
destinata al mercato. A tal proposito, v. SARTI, Esaurimento ed
utilizzazione del software, in L.C. UBERTAZZI (a cura di), La legge
sul software, Giuffrè, Milano, 1994; oppure SANTO, Le licenze
pubbliche GNU, tesi di laurea, Università degli Studi di
Pavia, Fac. di Giurisprudenza, aprile 2003; cap. I, par. 4.
[75]- Cfr. LEONE, op. cit., p. 359.
[76]- Per maggior chiarezza su questa dicotomia, v. la differenziazione
in corpus mechanicum (software come bene materiale) e corpus mysticum
(software come opera dell’ingegno) sostenuta anche in LEONE,
op. cit., p. 359.
[77]- La serie di definizioni segue il modello proposto da RAGUSA,
op. cit.; gli stessi concetti sono riportati anche da BASSI, op.
cit., pp. 2 ss. (par. 1.2.); e da SISTO, Le diverse modalità
di distribuzione del software: freeware, shareware e trial version
in CASSANO, Diritto delle nuove tecnologie informatiche e dell’internet,
IPSOA, Milano, 2002, 1058 ss.
[78]- “Alcune volte, il solo fatto di aprire la confezione
esterna, in plastica trasparente del packaging, equivale ad accettazione
[dei termini] della licenza, leggibile all’interno della scatola,
senza attendere l’accettazione esplicita durante l’installazione
del prodotto.” Cfr. RAGUSA, op. cit., par. 3.3.4. Nel caso
portato dalla Ragusa, si parla di shrink-wrap licenses: per un approfondimento,
v. SARTI, op. cit., pp. 146-149. Gran parte della dottrina italiana
ne esclude la validità e assimila queste “licenze a
strappo” alla categoria delle clausole vessatorie: in questo
senso v. D’ARRIGO, Prospettive della c.d. licenza a strappo
nel nostro ordinamento, in Dir. Inf. 1996, pp. 462-468.
[79]- Una delle più comuni occupazioni degli hacker è
proprio l’elusione di questi meccanismi, riuscendo così
a trasformare le versioni di prova in versioni perfettamente funzionanti
(senza alcuna spesa per l’acquisizione della licenza, ma violando
così le norme sul copyright).
[80]- In questo caso l’aggettivo ‘free’ è
usato nel significato puro e semplice di ‘gratuito’,
a differenza che nell’espressione ‘free software’.
Per questi risvolti semantici v. supra: cap. II, par. 8 e relative
note.
[81]- Una diffusa strategia di mercato, chiamata network externalities
e applicata soprattutto all’impresa del software, mira a creare
con la diffusione gratuita di programmi o di file in determinati
formati una rete di distribuzione da sfruttare con la vendita del
prodotto di punta. Consideriamo il caso esemplare dei software Acrobat
Reader e Adobe Acrobat, dedicati alla lettura (il primo) e alla
composizione (il secondo) dei file in formato PDF. L’azienda
Acrobat prima ha cercato di diffondere l’uso del formato PDF
distribuendo gratuitamente (freeware) il lettore; successivamente
ha potuto avvantaggiarsi della vendita del compositore (software
commerciale) di cui gli utenti hanno bisogno per creare a loro volta
file PDF.
A tal proposito, v. LEMLEY e MCGOWAN, Legal implications of Network
Economics Effects, in California L. Rev.,1998.
[82]- Per una definizione del concetto di ‘software libero’
vedi POTORTÌ, Che cos’è il software libero,
Ass. Software Libero, 2002; disponibile alla pagina web http://www.linux.it/GNU/softwarelibero.shtml
oppure alla pagina web http://softwarelibero.it/documentazione/softwarelibero.html.
Per la definizione di software opensource invece v. PERENS, The
Open Source Definition, in AA.VV., Open Sources (cit.).
[83]- Bassi parla anche di altre categorie (free software non-copylefted
e semi-free software) che però a ben vedere si possono intendere
come già comprese nei tre modelli qui esposti; v. BASSI,
op. cit., p. 4 (par. 1.2.).
[84]- “Per trasformare un programma in copyleft, prima lo
dichiariamo sotto copyright; poi aggiungiamo i termini di distribuzione,
strumento legale onde garantire a chiunque il diritto all'utilizzo,
alla modifica e alla ridistribuzione del codice di quel programma
o di qualsiasi altro da esso derivato, ma soltanto nel caso in cui
i termini della distribuzione rimangano inalterati. Così
il codice e le libertà diventano inseparabili a livello legale.”
Tratto da Che cos’è il copyleft? (scritto nel 1996)
in STALLMAN, Software libero, pensiero libero (cit.); la versione
originale di questo saggio è disponibile su http://www.gnu.org/licenses/licenses.html#WhatIsCopyleft
.
[85]- Cfr. STALLMAN, Che cos’è il copyleft? (cit.).
Gli stessi principi espressi nel saggio sono condensati nel preambolo
della licenza GPL, di cui parleremo fra poco e disponibile in versione
integrale e tradotta in appendice. Ne segnaliamo qui una frase in
particolare: “[…]chi distribuisce copie di un programma
coperto da GPL, sia gratis che in cambio di un compenso, deve concedere
ai destinatari tutti i diritti che ha ricevuto.”
[86]- Riguardo le singolari etimologie del gergo hacker, v. supra
cap. II, par. 2.
[87]- v. anche l’emblematica grafica di copertina di questa
nostra opera.
[88]- Obblighi che poi rientrano nella tradizionale classificazione
civilistica di obblighi di dare, di fare e di non fare.
[89]- Bruce Perens, uno dei padri della Open Source Initiative,
dice proprio che “la Open Source Definition è una carta
dei diritti dell’utente del computer.” Cfr. PERENS,
The Open Source Definition, in AA.VV., Open Sources (cit.), introduzione.
[90]- Per una generale analisi giuridica (basata sul diritto statunitense)
del fenomeno copyleft v. HILL, Fragmenting the copyleft movement:
the public will not prevail, in Utah L. Rev. 1999, 797; PATTERSON,
Copyright misuse and modified copyleft: new solutions to the challenges
of internet standardization, in Mich. L. Rev. 2000, 1351.
[91]- Il principale consulente giuridico del progetto GNU è
Eben Moglen, docente presso la Columbia Law School; un suo dettagliato
curriculum e una sua completa bibliografia sono disponibili sul
sito http://emoglen.law.columbia.edu/.
[92]- “La retorica politica presente nella GPL non è
gradita a tutti. Non manca chi ha scelto, per il suo software, licenze
non altrettanto adatte per semplice avversione alle idee di Richard
Stallmann, pur di non voler vederle ripetute nei propri pacchetti
software.” Cfr. PERENS, The Open Source Definition, in AA.VV.,
Open Sources (cit.), par. La GNU General Public License.
[93]- “E’ così che la GPL rimane una delle migliori
creature partorite da Stallman. Grazie ad essa, venne a crearsi
un sistema di proprietà condivisa all’interno dei normali
confini della legislazione sul copyright.” Cfr. WILLIAMS,
op. cit. (cap. 9 – La GNU General Public License).
[94]- In Inglese infatti ‘public’ può assumere
un significato esteso di ‘democratico’, ‘aperto
a tutti’ che invece nella nostra tradizione linguistica non
si coglie appieno.
[95]- Traduzione curata da Gruppo Pluto, da Italian Linux Society
e dal gruppo italiano di traduzione GNU (aggiornata al 19 aprile
2000), disponibile sul sito http://www.softwarelibero.it/gnudoc/gpl.it.txt
.
[96]- La versione originale in Inglese riporta “section”,
che è stato tradotto (forse un po’ troppo liberamente)
in “commi” nella traduzione italiana di riferimento
(v. nota precedente). Qui manterremo la traduzione più neutrale
“sezione”.
[97]- Lo stesso titolo della parte che abbiamo informalmente chiamato
“licenza vera e propria” fa esplicito riferimento a
queste tre attività. Cfr. testo della licenza in appendice.
[98]- Per i lettori più esperti di informatica, si riporta
la definizione: “Per un programma eseguibile, ‘codice
sorgente completo’ significa tutto il codice sorgente di tutti
i moduli in esso contenuti, più ogni file associato che definisca
le interfacce esterne del programma, più gli script usati
per controllare la compilazione e l'installazione dell'eseguibile.”
Cfr. testo integrale in appendice.
[99]- “Se non è possibile distribuire un prodotto in
modo che soddisfi simultaneamente gli obblighi dettati da questa
licenza e altri obblighi pertinenti, il prodotto non può
essere affatto distribuito. Per esempio, se un brevetto non permettesse
a tutti quelli che lo ricevono di ridistribuire il programma senza
obbligare al pagamento di diritti, allora l’unico modo per
soddisfare contemporaneamente il brevetto e questa licenza è
non distribuire affatto il programma.”
[100]- Per un commento strettamente giuridico della GPL, si veda
PERRI, I sistemi di licenza open source, in CASSANO, Diritto delle
nuove tecnologie informatiche e dell’internet, IPSOA, Milano,
2002, pp. 1091-1094.
[101]- A parlare di “viralità” è un famoso
saggio dedicato al progetto Mozilla: HAMERLY e PAQUIN, con WALTON,
Liberare il sorgente: la storia di Mozilla (par. Creazione della
licenza), in AA.VV., Open Sources (cit.). Su questa singolare caratteristica
si sofferma anche SANTO, op. cit., cap. V, par. 3.
[102]- Cfr. HAMERLY e PAQUIN, con WALTON, Liberare il sorgente:
la storia di Mozilla (par. Creazione della licenza), in AA.VV.,
Open Sources (cit.).
[103]- Libreria è il tipico esempio di una traduzione un
po’ forzata di un termine tecnico; ‘library’ ha
infatti una valenza molto più ampia di quanto può
apparire nella versione italiana. In Inglese ‘library’
può far riferimento anche al concetto di archivio, raccolta,
collezione.
[104]- v. la definizione di ‘libreria’ riportata in
glossario da DIDONÈ, op. cit.; inoltre v. la definizione
data dalla ‘sezione 0’ della LGPL.
[105]- Nella sezione esemplificativa che appare in coda al testo
GPL, si legge infatti: “Se il proprio programma è una
libreria di funzioni, può essere più utile permettere
di collegare applicazioni proprietarie alla libreria. In questo
caso consigliamo di usare la Licenza Generica Pubblica GNU per Librerie
(LGPL) al posto di questa Licenza.”
[106]- Per un approfondimento della storia del sistema operativo
BSD, v. MCKUSICK, (op. cit.); cfr. anche supra cap. II, par.1 e
relative note.
[107]- v. BASSI, op. cit. (App. B.2.).
[108]- Cfr. le ‘Sezioni 11 e 12’ della GPL nel testo
integrale riportato in appendice. Vedremo che tale schema sarà
poi preso a modello da gran parte delle licenze esaminate in questo
saggio, sia quelle per opere software che quelle per opere non software.
[109]- Cfr. BEHLENDORF, Open Source come strategia commerciale in
AA.VV., Open Sources (cit.), par. Copyright di tipo BSD. L’autore
prosegue spiegando che “di solito il credito viene riscosso
in diverse forme: sulla pubblicità, in un file README, nella
documentazione cartacea, ecc.”
[110]- Cfr. WILLIAMS, op. cit. (cap. 9 – La Gnu General Public
License).
[111]- “Quella ‘odiosa clausola pubblicitaria’
della University of California in seguito si sarebbe rivelata un
problema. Alla ricerca di un’alternativa meno restrittiva
della GPL, alcuni hacker ricorsero a tale clausola, sostituendo
la dicitura “University of California” con il nome della
propria istituzione. Risultato: i programmi di software libero che
utilizzavano parti prese da decine di altri programmi dovevano citare
decine di entità. Nel 1999, dopo circa dieci anni di insistenze
da parte di Stallman, la University of California si trovò
d’accordo a eliminare quella clausola.” cfr. WILLIAMS,
op. cit. (nota n. 90).
[112]- Così PERRI, op. cit., p. 1097.
[113]- Per gli scopi e le attività del progetto v. il sito
ufficiale http://www.mozilla.org/.
[114]- v. supra cap. II, par. 7.
[115]- Cfr. HAMERLY e PAQUIN, con WALTON, op. cit. (par. Creazione
della licenza): gli autori si riferiscono molto probabilmente all’apparato
di principi etici che – come abbiamo già visto –
risulta spesso ingombrante nel testo di una licenza.
[116]- La ricostruzione storica segue il percorso presentato nel
saggio Liberare il sorgente: la storia di Mozilla (cfr. nota precedente).
[117]- v. PERENS, op. cit. (par. La Netscape Public License e la
Mozilla Public License); Perens precisa che “questa clausola
si e resa necessaria perché, quando Netscape decise per l'Open
Source, aveva contratti con altre aziende che la impegnavano a fornir
loro Navigator sotto una licenza non Open Source.”
[118]- “Il nucleo del codice sorgente di Communicator, alla
Netscape era chiamato Mozilla. Si trattava di un termine dapprima
inventato da Jamie Zawinsky e dal suo gruppo durante lo sviluppo
di Navigator. Il team stava lavorando ad un passo altrettanto frenetico
per creare una "bestia" di gran lunga più potente
di Mosaic e quella paroletta divenne il "code name" ufficiale
di Navigator. Più tardi, il grosso dinosauro verde divenne
uno scherzo fra addetti ai lavori, quindi una mascotte dell'azienda
e infine un simbolo pubblico. Ora il nome comincio ad essere usato
come termine generico in riferimento ai browser Web open source
che sarebbero derivati dal codice sorgente di Netscape Navigator.
L'intento era "liberare la Lucertola".” Cfr. HAMERLY
e PAQUIN, con WALTON, op. cit.
[119]- v. testo originale della licenza.
[120]- Cfr. BEHLENDORF, op. cit. (par. La licenza pubblica Mozilla).
[121]- v. testo originale della licenza.
[122]- La nascita della Open Source Initiative era avvenuta proprio
verso la fine del 1998. Cfr. supra cap. II, par. 9.
[123]- Questa è a grandi linee la schematizzazione compiuta
da Perens, uno dei padri fondatori della OSI, nonché principale
autore della Open Source Definition. PERENS, op. cit. (par. La Netscape
Public License e la Mozilla Public License).
[124]- Cfr. PERENS, op. cit. (par. La Open Source Definition).
[125]- Così Perens nella nota di commento alla ‘Sezione
9’: v. PERENS, op. cit. (par. La Open Source Definition).
[126]- “La licenza dev’essere automatica, senza la richiesta
di alcuna firma. Purtroppo, negli Stati Uniti non ci sono dati validi
precedenti giudiziari del potere della licenza senza firma quando
questa venga passata da una seconda a una terza parte. Tuttavia,
questo argomento considera la licenza come facente parte della legge
sul contratto, mentre qualcuno obietta che dovrebbe essere considerata
come legge di copyright, campo in cui si danno più precedenti
per quel tipo di licenza.” Cfr. PERENS, op. cit. (par. La
Open Source Definition).
[127]- Ci si riferisce alla versione che si trova nel saggio di
Perens, come riportato nel libro Open Sources, quindi risalente
almeno al 1999 (anno di edizione del libro).
[128]- v. infra, par. 3 e relative note.
[129]- Lo stesso stemma-distintivo del progetto (che si può
vedere sul sito www.opensource.com) denota una marcata efficacia
grafica.
[130]- http://www.opensource.org/docs/certification_mark.php .
[131]- Sia i parametri d’analisi che la tabella, ripercorrono
lo schema riportato da PERENS, The Open Source Definition (cit.).
[132]- Cfr. la pagina italiana del sito GNU dedicata alla ‘free
software definition’ http://www.gnu.org/philosophy/free-sw.it.html
oppure cfr. il saggio La definizione di software libero, in STALLMAN,
Software libero, pensiero libero (cit.). v. anche WILLIAMS, op.
cit. (cap. 8 - Sant’Ignucius, nota n.80).
[133]- STALLMAN, Perchè “software libero” è
da preferire a “open source”, in Software libero, pensiero
libero (cit.).
[134]- Nel paragrafo sopra citato, l’autore riporta un esempio
concreto: “Ho sentito, talvolta di persona, molte aziende
chiamare "open source" i loro pacchetti software anche
se questi non rientravano, per le loro caratteristiche, nella definizione
ufficiale. […] Le aziende inoltre hanno fatto annunci che
danno l'impressione che un programma sia "software open source"
senza dirlo esplicitamente. Ad esempio, un annuncio di IBM riguardo
ad un programma che non rientrava nella definizione ufficiale diceva
questo: "Come è comune fare nella comunità open
source, gli utenti della ... tecnologia saranno inoltre in grado
di collaborare con IBM ..." Questa frase non dice che il programma
è "open source", ma molti lettori non hanno notato
quel dettaglio.”
[135]- v. http://www.fsf.org/licenses/licenses-list.html .
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