CAPITOLO II
DINAMICA STORICA DEL MOVIMENTO OPENSOURCE

INTRODUZIONE. – Come premessa a questo capitolo, bisogna prendere atto che il suo titolo non rende affatto giustizia al fenomeno di cui analizzeremo la dinamica storica, dato che il termine ‘Opensource’ – come vedremo – compare in tempi decisamente più avanzati rispetto alla genesi dei principi che incontreremo. Ma, d’altronde, ho già spiegato la scelta per lo più funzionale di usare ‘Opensource’ per indicare un movimento nella sua generalità; specificherò, tuttavia, di volta in volta quali termini saranno più appropriati.
E’ il caso inoltre di precisare, sfatando una credenza diffusissima, che da qui in poi si parlerà spesso di hacker e di hacking[3], senza però alludere alle pratiche di pirateria informatica. Si tratta infatti di un concetto che esula da qualsivoglia connotazione negativa e che nasce in un mondo ben lontano da quello evoluto e interconnesso in cui possono pavoneggiarsi i veri pirati informatici. Un hacker, nell’accezione originaria di questo neologismo, è solo e semplicemente un esperto di informatica a cui piace programmare, che lo fa non con intenti di profitto ma per una sorta di irrefrenabile passione, quasi per vocazione[4]. Come vedremo nel capitolo, la comunità hacker ruota attorno addirittura ad una ferrea etica, che poi vedremo riverberarsi anche sulle problematiche di copyright e proprietà intellettuale che qui ci interessano principalmente. Al nostro concetto di pirata informatico, ovvero colui che prova compiacimento e autoaffermazione danneggiando (crackando) i più disparati sistemi informatici, si addice maggiormente il neologismo cracker[5].

1. RADICI STORICHE. – Nell’esperienza comune, si tende a far coincidere la cosiddetta rivoluzione informatica e telematica con un evento pressoché improvviso che ha investito il mondo nel giro di qualche anno. Questo potrebbe anche essere ritenuto plausibile se per rivoluzione informatica intendiamo l’ingresso nelle nostre case dei primi Personal Computer e se per rivoluzione telematica intendiamo la diffusione capillare della comunicazione via Internet. Infatti il primo dei due fenomeni può esser considerato svoltosi nell’arco del decennio a cavallo fra gli anni 80 e gli anni 90 e il secondo ci pare ancora più fulmineo, se lo si considera esploso negli ultimi anni 90.
Documentandoci sulla storia del movimento hacker[6], però, si esce facilmente dall’alone di mistero che spesso avvolge la genesi dell’informatica come scienza e come nuova cultura. Ci si rerende conto di come il processo di “infiltrazione”, che la tecnologia dell’intelligenza artificiale ha operato nelle abitudini di vita di noi tutti, abbia radici ben più profonde, da non poter essere assimilato ad una sorta di moda esplosa nelle nuove generazioni.
Per prima cosa dobbiamo considerare che i primi calcolatori (a valvole e - solo poi - a transistor) comparvero già nei primi anni 50[7]; ovviamente, si trattava di congegni mastodontici con limitatissime funzioni, che rimasero operanti a livello di università e centri militari e rappresentavano ancora una fase semisperimentale della scienza informatica.
Dando per conosciuta una prima fase dell’evoluzione tecnologica, si potrebbe porre la prima pietra miliare del fenomeno che ci interessa nell’anno 1969, anno in cui la prima ristretta comunità hacker venne costretta (dalla rivoluzione culturale in atto in quel periodo) ad uscire dal suo originario isolamento nelle università e nei centri di ricerca e ad affacciarsi al mondo reale. In quell’anno infatti vide la luce il sistema operativo Unix[8], grazie al lavoro di uno sviluppatore dei laboratori Bell: Ken Thompson, personaggio appartenente appunto a questa prima generazione[9] di hacker. Unix era il primo sistema operativo sviluppato in linguaggio C (un particolare linguaggio di programmazione) e non in linguaggio macchina (binario) ed era il primo a ricercare l’idea di portabilità e compatibilità. Prima di Unix, cioè, ogni computer necessitava un apposito sistema di software (sistema operativo + programmi vari); ogni volta che la macchina veniva aggiornata o sostituita era necessario riprogettare gran parte del sistema software. Grazie a Thompson invece il ruolo del software si fece più dinamico e più facilmente gestibile, indipendentemente dal supporto hardware su cui era installato; fu dunque possibile affacciarsi su un mercato dell’informatica decisamente più ampio ed elastico.
Il 1969 è inoltre l’anno in cui furono collegati per via telematica i nodi dei centri di ricerca informatici di quattro grandi università statunitensi (Los Angeles, Santa Barbara, Stanford, Utah): nacque così ARPAnet, riconosciuta da tutti come l’effettivo embrione dell’Internet dei nostri tempi[10].
Si passa poi, con l’inizio degli anni 70, ad una seconda generazione di hacker fedele ai principi etici originari, ma interessata più che altro alla diffusione del mezzo su cui amavano operare. Il loro obbiettivo era quello di fare uscire lo strumento ‘computer’ dai grandi centri di ricerca, per renderlo più familiare alla grande massa degli utenti; si impegnavano affinché le apparecchiature fossero più piccole, maneggevoli ed economiche[11]. In questo periodo apparvero i primi computer in kit di montaggio: apparecchi piuttosto spartani venduti ad un prezzo base di 397 dollari e contenenti i primi processori Intel[12]. E’ sempre in questo periodo che si cominciò a sentir parlare di Bill Gates (il magnate di Miscrosoft) il quale ebbe il merito assieme a Paul Allen di aver utilizzato efficacemente il linguaggio Basic per rendere più semplice il funzionamento dei computer Altair.
Nacque dunque nei primi anni 80 il concetto di personal computer, sicuramente grazie all’impegno degli hacker nel “liberare l’hardware”, ma anche per ben più venali interessi economici da parte delle imprese che iniziarono a sentire odore di affari. La International Business Machine infatti mise sul mercato il suo primo computer da tavolo chiamato appunto IBM-PC[13]; e in contemporanea la stessa scelta di marketing venne compiuta dalla Apple e dalla Atari. IBM adotta inizialmente una politica aziendale piuttosto “illuminata”, cercando di incoraggiare la diffusione e lo sviluppo del software e stimolando la collaborazione di altre importanti imprese[14], come la Microsoft che realizzò il sistema operativo per i nuovi computer: il sistema MS-DOS, tuttora fondamentale per il funzionamento dei nostri PC.
In tal modo, quello strano aggeggio ibrido fra una macchina da scrivere e un televisore cominciava a fare capolino negli arredi delle case e degli uffici di tutto il mondo e in molti casi dovette “svilire” la sua funzione, essendo sfruttato come gioco e passatempo invece che come strumento di calcolo. In questo modo una massa di persone inesperte si trovò ad utilizzare giochi e software senza essere in grado di capire (o senza nemmeno voler capire) di cosa effettivamente si trattasse e di come fossero stati sviluppati; scegliendo i prodotti in base alla pubblicità o semplicemente affidandosi a pacchetti standard.
Una conseguenza logica di questa espansione a macchia d’olio: più gli utenti divenivano numerosi e più questa terza generazione di hacker risultava frazionata e composita. Non più solo lo zoccolo duro degli studiosi di informatica e di tecnologia, ma anche una sempre più numerosa schiera di curiosi, ai quali era però difficile trasmettere in modo completo e autentico certi principi etici nati in una sorta di ristretta casta. Si arrivò così ad uno scenario abbastanza simile ai giorni nostri, in cui gli utenti si dividevano in varie macro-comunità rese compatte, più che da i principi, dagli usi che fanno del PC e collegate dalla prima vera e propria Internet (come la si intende oggi): i vecchi fedelissimi dediti alla libera ricerca, coloro che usavano il PC negli uffici quindi per lavoro, gli appassionati dei giochi con la loro smania di scambiarsi trucchi e versioni aggiornate…

2. LINEAMENTI DELLA CULTURA HACKER. – Soffermiamoci ora sugli aspetti più rappresentativi della etica hacker fin qui solo accennati. E’ in effetti fondamentale capire come siano stati proprio questi principi di “filosofia sotterranea” ad influire maggiormente sulle nuove istanze in fatto di copyright del software (e di riflesso delle opere non software). E nei capitoli seguenti avremo varie occasioni per dimostrarlo.
I punti cardini di quella che sembra configurarsi come una ‘metasocietà’ (cioè, società nella società) sono principalmente i seguenti:
- libertà di accesso alle risorse, siano esse intese come accesso alle informazioni, ai dati, oppure come accesso alle macchine e ai relativi componenti tecnologici necessari al loro miglior funzionamento;
- condivisione delle conoscenze e degli strumenti;
- cooperazione ed unità nella realizzazione dei progetti utili alla comunità: vedremo infatti come scismi, defezioni e biforcazioni in sotto-progetti vengano sempre visti di cattivo occhio e osteggiati sia per ragioni pratiche, sia (spesso) per una questione puramente ideologica;
- semplificazione sia a livello tecnico sia a livello burocratico[15], che ovviamente va di pari passo con ottimizzazione delle risorse (raggiungere il massimo risultato impiegando la soluzione più semplice e meno dispendiosa).
- creatività: la progettazione, conoscenza (e in certi casi manomissione) dei sistemi informatici è considerata un’arte e quindi ogni operazione deve essere compiuta con stile e originalità;
- onore e credibilità: tutti i cardini etici fin qui citati sono poi amalgamati da un grande senso dell’onore, della reputazione, della rispettabilità che pervadono la comunità hacker; le varie sotto-comunità e i singoli progetti infatti hanno un loro leader il quale si è guadagnato la credibilità con i meriti e l’anzianità; e non mancano gli opinion-leader ovvero gli ideologi dell’hacking i quali si distinguono per carisma e capacità comunicativa e si fanno perciò portavoce della comunità e catalizzatori di attenzione.
Ovviamente una simile organizzazione non può che dotarsi di un proprio linguaggio originale formatosi con anni di strambe etimologie e distorsioni linguistiche (tratte magari da termini ultra-tecnici) e dal quale in questi primi paragrafi ho mutuato molte espressioni: uno slang caratteristico di matrice quasi totalmente “American-English” che si distingue per la sua insostituibile efficacia[16].
Non bisogna inoltre dimenticare lo spirito che da sempre contraddistingue le azioni di hacking: ovvero quello spirito ironico e dissacratorio che fa apparire spesso come goliardiche anche le incursioni più fastidiose.

3. LA LOGICA DEL PROFITTO. – Abbiamo già visto con quale facilità e rapidità l’informatica, da elitaria scienza al servizio del progresso, si sia trasformata in un grande business al quale appunto l’imprenditoria statunitense (prima, e poi anche mondiale) non abbia saputo rinunciare. Gli investimenti sono massicci e il margine di profitto può solo aumentare vertiginosamente con gli anni; perciò le imprese che si affacciano su questo mercato diventano istintivamente gelose dei propri sforzi e ricorrono sempre più spesso alle tutele che il diritto industriale (copyright e brevetti) prevede[17]. E ciò è ben possibile che avvenga senza che nessuno degli utenti comuni (quelli a cui quel mercato si rivolge) gridi allo scandalo per il soffocamento dei canoni di libertà e condivisione che aveva caratterizzato per gli scorsi decenni l’evoluzione del software. Nel pieno del boom degli anni 80, nessuno degli acquirenti dei primi PC si preoccupa di quanto lavoro di progettazione collettiva nel corso dei decenni precedenti ci sia dietro il giochino e le applicazioni che maggiormente adopera.
Si verifica, com’è prevedibile, un progressivo sovvertimento di quanto ereditato dalla tradizione hacker: quantità invece di qualità, controllo invece di libertà, profitto invece di personale dedizione, divisione invece di cooperazione, segretezza invece di condivisione. Nasce quindi da una costola della figura dell’hacker autentico la figura del programmatore professionista il quale svolge le stesse funzioni tipiche dei suoi predecessori, ma essendo inquadrato nella gerarchia aziendale e non essendo più unico padrone delle proprie creazioni informatiche.
Come la Ragusa sottolinea giustamente “La speranza che con la diffusione dei computer si sarebbe anche diffuso il sogno hacker, si rivelò pura utopia […]” [18].

4. LA CROCIATA DI STALLMAN. – Avevamo sospeso la nostra ricostruzione storica ai primi anni 80, con l’avvento del personal computer e del nuovo mercato (non più di nicchia) che va ad accaparrarsi. E’ proprio in questo periodo che appunto si innesta l’opera di Richard M. Stallman: abile ed esperto programmatore indipendente, appartiene a quella prima generazione di hacker e ne rappresenta lo stereotipo integerrimo e incontaminato. Questo suo essere un uomo ‘tutto d’un pezzo’ è la caratteristica che da un lato gli permette di potersi innalzare a massimo portavoce della comunità hacker di quel periodo, ma dall’altro – come vedremo – gli causa grandi problemi di convivenza nella gestione dei progetti concreti.
Nel 1983 egli è il primo ad avvertire repulsione per quel nuovo modello d’informatica che andava a configurarsi[19]; ed è il primo a muoversi concretamente e visibilmente nella direzione del risveglio delle coscienze di coloro che l’informatica l’avevano simbolicamente partorita. All’epoca egli poteva già vantare (oltre ad una laurea in fisica cum laude) una decina d’anni d’esperienza come programmatore, dato che già nel 1971 era stato assunto nel laboratorio di Artificial Intelligence (AI lab) del MIT[20]. In quegli anni aveva avviato la prassi di distribuire gratuitamente e liberamente i suoi programmi, incoraggiando chiunque a modificarli e migliorarli[21]: fu questa la sorte dell’Emacs, il diffusissimo programma editor di testi da lui stesso creato, che portò alla genesi della “Comune di Emacs”, una specie di catena di utenti che avevano come unico obbligo quello di diffondere a loro volta liberamente le modifiche apportate[22].
E’ ben intuibile ora come mai un personaggio del genere abbia messo in atto la più ferrea ribellione contro i nuovi criteri di diffusione del software: di fronte allo scorrere inevitabile di quegli eventi, Stallman si sentiva l’ultimo vero hacker sopravvissuto al cambiamento del suo habitat naturale. Sempre nel 1983 decide dunque di abbandonare il MIT, per dedicarsi a lungimiranti progetti personali che tenessero in vita lo spirito hacker a cui tanto era affezionato: primo fra tutti, la realizzazione di un sistema operativo di tipo Unix che fosse però dall’impostazione esclusiva del copyright e distribuibile liberamente. Nasce appunto il Progetto GNU, acronimo ricorsivo che sta per Gnu’s Not Unix (Gnu non è Unix) con un’espressa vena di antagonismo e di sfida, il quale appunto avrebbe dovuto coinvolgere migliaia di irriducibili e condensare le conoscenze e gli sforzi condivisi nel nuovo sistema operativo.
Ovviamente tutti i potenziali “adepti” avrebbero dovuto poter avere un punto di riferimento unico che si facesse portavoce e mecenate dell’impresa; nasce così, sempre per opera di Stallman e sotto la sua stretta supervisione, la Free Software Foundation: un’organizzazione no-profit mirata alla raccolta di fondi, al coordinamento dei progetti e alla sensibilizzazione del popolo dell’informatica. Nei primi anni di vita entrambi i progetti (che si potrebbero considerare come due manifestazioni di un unico progetto) faticarono ad ingranare, a causa della già accennata situazione di frammentazione della comunità degli informatici.
Le cose cambiarono invece con la raggiunta maturazione della rete telematica: quando infatti Internet verso la fine degli anni 80 iniziò a connettere stabilmente un numero cospicuo di utenti, il messaggio della Free Software Foundation (FSF) poté raggiungere gli hacker di vecchio stampo sparsi per il mondo, che erano rimasti anch’essi disorientati e isolati dal cambiamento. Il seme della rivoluzione (anzi, della contro-rivoluzione[23]) ‘scongelato’ – per così dire – da Stallman dopo un periodo di ibernazione, poteva infatti trovare solo nelle coscienze dei singoli appassionati (e non certo nelle lobbies di potere dell’imprenditoria tecnologica) il terreno fertile di cui aveva bisogno per svilupparsi.

5. LE DIFFICOLTÀ DA SUPERARE. – Si ricominciò così a recuperare lo spirito di condivisione tipico dell’etica hacker e ad applicarlo alla realizzazione del nuovo sistema operativo libero GNU. Stallman escogitò un meccanismo atipico di copyright basato su particolari licenze, chiamato appunto copyleft[24], con il quale costringeva chiunque volesse apporre modifiche al software distribuito liberamente dalla FSF a ridistribuirle altrettanto liberamente. Ciò significava – come già spiegato – mantenere in ogni operazione l’accessibilità del codice sorgente.
Si innescò quindi un continuo flusso di versioni via via più aggiornate delle componenti del software tra i programmatori di tutto il pianeta che decidevano di impegnarsi nel progetto GNU e accettavano i suoi principi.
Il sito della FSF, quello del Progetto GNU e quello personale di Stallman[25] iniziarono a riportare (e riportano tuttora) molto materiale di matrice ideologica[26], in cui si esternavano i cardini di tale filosofia e si mettevano all’indice tutti i progetti e i soggetti che si muovevano in senso opposto. Stallman, nei suoi scritti e nelle sue (numerose quanto eccentriche) apparizioni a convegni e conferenze, amava parlare di software libero proprio per marcare la contrapposizione con il software proprietario e la distorsione di ideali che quest’ultimo aveva comportato. Era palese l’intento propagandistico della scelta terminologica rivolto ad una ‘fauna’ composita e frammentaria; agli occhi degli hacker di prima generazione, infatti, l’aggettivo ‘libero’ poteva sembrare decisamente pleonastico: il loro software, d’altronde, lo era sempre stato[27]. Guai a chi usava altri termini e a chi cercava di ammorbidire i toni del confronto! Stallman è forse colui che più di tutti inorridirebbe se sapesse che il suo pensiero è riportato in un saggio dedicato al “movimento opensource” invece che al “movimento per il software libero”.
Questa totale integrità morale, unita ad una personalità alquanto egocentrica e insofferente, hanno fatto di Stallman una sorta di ideologo-quasi-profeta, idolatrato per certi versi, ma spesso osteggiato come interlocutore o nella messa in pratica dei progetti comuni e per molti destinato ad un inevitabile auto-isolamento[28].
Nonostante il mercato del software proprietario in vertiginosa espansione provocasse un progressivo soffocamento di risorse e possibilità, il progetto proseguiva in modo anche piuttosto soddisfacente; ma presto avrebbe pagato lo scotto della sua congenita frammentarietà. Il repertorio di applicazioni prodotto con il metodo del copyleft era decisamente ampio e ben funzionante; ma non si poteva ancora parlare di un sistema operativo completo poiché non era ancora disponibile un vero e proprio kernel. Il kernel è – in parole molto povere – il ‘nucleo’ del sistema operativo, l’insieme di informazioni che permettono alla macchina di ‘fare girare’ correttamente tutte le applicazioni che compongono l’intero sistema operativo. Senza di lui, il sistema operativo GNU non poteva far altro che appoggiarsi su una piattaforma di software proprietario, beffando così gli intenti ideologici e dimostrativi del progetto. Tale grossa pecca dipendeva proprio dalla difficoltà di amalgamare un lavoro così composito e di coordinare una squadra tanto indefinita e mutevole di sviluppatori.

6. LA SVOLTA DI LINUX. – Per un risultato completo e perfetto – pensavano probabilmente gli stessi volontari del progetto GNU – c’era bisogno di un certo grado di controllo e centralizzazione del lavoro; un lavoro colorato di una certa solennità, simile all’opera di un geniale architetto nel realizzare una grande cattedrale. Questo era ciò che molti credevano, probabilmente anche gli stessi artefici del progetto GNU. Eppure nel 1991 giunse il miracolo[29]; un miracolo che però non derivava dalla cattedrale in costruzione ma proprio da quel grande bazar che era la ridistribuzione libera. In quell’anno, infatti, un giovane studente d’informatica dell’Università di Helsinki cominciò a sviluppare un kernel Unix-compatibile usando un kit di strumenti software della Free Software Foundation[30]: si chiamava Linus Torvalds e il suo ‘figlio prediletto’ fu chiamato – la leggenda vuole per un errore casuale – Linux. Come lo stesso Stallman fa notare, “attorno al 1992, la combinazione di Linux con il sistema GNU ancora incompleto produsse un sistema operativo libero completo […]. E’ grazie a Linux che oggi possiamo utilizzare una versione del sistema GNU”[31]. Come prevedibile, il guru della FSF prosegue precisando che appunto il nome corretto del sistema dovrebbe essere GNU/Linux[32], per rendere il giusto merito a tutte le camicie sudate dalla folta schiera di sviluppatori che hanno preparato il terreno a Torvalds.
Raymond sottolinea dal canto suo come il quid pluris apportato da Linux fosse non tanto a livello tecnico quanto a livello sociologico. Vista l’efficacia delle sue parole in proposito, è il caso di riportare gli stralci più emblematici dei due articoli presi in esame.

“La caratteristica fondamentale di Linux, tuttavia, non era tanto tecnica quanto sociologica. Fino allo sviluppo di Linux, era pensiero comune che qualsiasi software complicato come un sistema operativo, dovesse essere sviluppato in modo attentamente coordinato da un ristretto gruppo di persone ben collegate tra di loro. Questo modo di operare era, ed è tuttora, tipico sia del software commerciale che delle grosse cattedrali di freeware costruite dalla Free Software Foundation negli anni '80 […]. [33]
Rimasi non poco sorpreso dallo stile di sviluppo proprio di Linus Torvalds: diffondere le release [= versioni, n.d.r.] presto e spesso, delegare ad altri tutto il possibile, essere aperti fino alla promiscuità. Nessuna cattedrale da costruire in silenzio e reverenza. Piuttosto, la comunità Linux assomigliava a un grande e confusionario bazar, pullulante di progetti e approcci tra loro diversi […].” [34]

Gli stessi concetti sono ripresi con maggiore sintesi nella ricostruzione storico-biografica compiuta da Sam Williams:

“I programmi GNU sembravano “cattedrali”, monumenti all’etica hacker, impressionanti, pianificati in modo centralizzato, costruiti per durare nel tempo. Linux, d’altra parte, era più simile a ‘un grande bazar vociante’, un programma sviluppato grazie alle dinamiche sciolte e decentrate offerte da Internet. [35]
Linux (anche se era solo la punta dell’iceberg) divenne così la prima vera e concreta dimostrazione al mondo intero che la comunità hacker e il movimento per il software libero non era solo uno scoordinato gruppo di visionari idealisti e che le cose potevano realmente (e drasticamente) cambiare.”

7. IL SOFTWARE LIBERO COME NUOVO MODELLO DI BUSINESS. – Nell’arco di pochi anni la stampa (non più solo settoriale) cominciò a puntare i suoi riflettori su questo fenomeno che si espandeva a macchia d’olio quanto più di diffondeva l’uso di Internet. L’imprenditoria (prima quella più piccola e indipendente, poi anche quella grande e di rilievo) iniziò a cogliere gli aspetti di business che potevano celarsi dietro questa rivoluzione.
Bisogna ricordare che lavorare nell’ambito del software libero non significa fare del puro volontariato o rifiutare a priori ogni forma di commercializzazione: lo sottolinea tutta la saggistica di matrice economica che si occupa di marketing e distribuzione del software[36]; e lo gridano a grande e unanime voce gli ideologi del software libero, primo fra tutti Stallman in persona[37]. Il software libero come modello di business si presentava al mondo degli affari non solo come un pericoloso nemico da contrastare ma anche come un’allettante valvola di sfogo per un nuovo orizzonte di sviluppo.
Anche se in quell’ambito non si poteva più fare affidamento sul profitto derivato dalla vendita dei pacchetti ‘chiusi’ di software proprietario, si prospettava tutta una gamma di servizi collegati che comportavano guadagni sì meno massicci, ma anche più elastici, più duraturi e accompagnati da un taglio netto sulle spese di produzione e di distribuzione; garantendo inoltre un’alta qualità del prodotto. Tali servizi andavano dalla manutenzione del software, al suo periodico aggiornamento, ma soprattutto alla sua customizzazione[38]: un anglicismo (traducibile forse con ‘personalizzazione’) per indicare l’operazione di forgiare su misura il software, con il potenziamento delle funzioni che servono maggiormente al singolo utente[39]. D’altronde, Bruce Perens sostiene argutamente che “i produttori che non rendono Open Source i loro programmi trovano difficile competere con chi lo fa, dal momento che gli utenti imparano ad apprezzare quei diritti che avrebbero dovuto sempre essere loro.” [40]
Nel 1998 un fulmine al ciel sereno illuminò i volti di quella comunità emergente: la Netscape (importante impresa statunitense di software) decise di diffondere il suo prodotto di punta (il browser Navigator) sotto i parametri dell’Opensource[41]. Una mossa abbastanza inaspettata che fu un grande segnale che i tempi erano maturi.

8. UNA CONTROVERSA QUESTIONE DI LIBERTÀ. – Era giunto quindi il momento di fare il grosso passo: ovvero, uscire dal mercato pur ampio ma comunque sotterraneo della comunità hacker e affacciarsi sul vero mercato mondiale dell’informatica e iniziare la battaglia a tutto campo contro i colossi del software proprietario. Era un passo pieno di insidie, dato che, uscendo allo scoperto, era più difficile mantenere incontaminati i principi etici e tecnici che per decenni avevano accompagnato il movimento per la libertà nel software; diventava anche più facile che si formassero ingombranti interessi economici e inopportune divisioni all’interno di quell’immenso gruppo di lavoro.
Per di più era necessario riuscire a far digerire il concetto di software libero[42] alle imprese nuove possibili finanziatrici, rendendolo tangibilmente appetibile ed epurandolo da ogni scomoda componente ideologica e propagandistica. A ben vedere, il principio che ‘free software’ potesse andare d’accordo con ‘investimento proficuo’ circolava più facilmente nelle facoltà di economia piuttosto che nei consigli di amministrazione: questo per dire che il passaggio dalla teoria accademica/filosofica alla pratica delle effettive strategie di marketing non fu decisamente automatico.[43]
Ad incutere diffidenza nelle alte dirigenze era l’ancoraggio indissolubile (a volte anche solo subconscio) che sussisteva fra l’idea di software libero e l’idea di gratuità e non-commerciabilità del prodotto, con l’aggiunta di una certa riluttanza verso il mantenimento di tutto l’apparato etico che ne stava dietro. Non dobbiamo dimenticare che in inglese la parola ‘free’ mantiene i due significati di ‘libero’ e di ‘gratuito’; se ‘sugar free’ vuol dire ‘senza zucchero’ (lett. libero da zucchero), ‘free entry’ vuol dire ‘ingresso gratuito’ (lett. ingresso libero)[44]. Ma la scelta dell’aggettivo ‘free’ non era stata compiuta per leggerezza; anzi, Stallman all’epoca dei primi progetti GNU voleva proprio sottolineare – con scopi appunto altamente propagandistici – la doppia implicazione di libertà e gratuità. Anche in questo caso sono le parole del diretto interessato (scritte nel 1996) che ci aiutano ad inquadrarne al meglio la posizione assunta, oltre che a cogliere con maggior chiarezza alcuni aspetti particolari del problema:

“Molta gente crede che lo spirito del progetto GNU sia che non si debba far pagare per distribuire copie del software, o che si debba far pagare il meno possibile: solo il minimo per coprire le spese. In realtà noi incoraggiamo chi ridistribuisce il software libero a far pagare quanto vuole o può. […]
I programmi liberi sono talvolta distribuiti gratuitamente, e talvolta ad un prezzo consistente. Spesso lo stesso programma è disponibile in entrambe le modalità in posti diversi. Il programma è libero indipendentemente dal prezzo, perché gli utenti sono liberi di utilizzarlo. Programmi non-liberi vengono di solito venduti ad un alto prezzo, ma talvolta un negozio vi darà una copia senza farvela pagare. Questo non rende comunque il software libero.” [45]

Ora, invece, per fare quel passo decisivo nel mondo del marketing era necessario ammorbidire i toni: non c’erano dubbi. Simili precisazioni puramente teoriche da parte della FSF non erano sufficienti.[46]
Fu in questo frangente che però emerse nel modo più palese l’integrità morale e la cocciuta coerenza di Stallman, peculiarità a cui abbiamo già fatto cenno. Nonostante gli inviti da parte di tutti i grandi personaggi che stavano lavorando al progetto, egli fece mostra in tutte le occasioni ufficiali (conferenze e ‘summit’) di non volerne nemmeno parlare. Il concetto di libertà[47] era sacro ed intoccabile e andava mantenuto con tutte le sue sfaccettature; sarebbe stato il mondo degli affari a doversi adeguare e a trovare altre vie per sensibilizzare i nuovi potenziali clienti/utenti. “Stallman è in stallo” mi ricordo che recitava emblematicamente il titolo di un articolo a firma di Simson Garfinkle[48], probabilmente a segnalare come l’intransigenza dell’hacker per antonomasia lo stesse effettivamente portando ad un progressivo isolamento.

9. LA TEMUTA DIVISIONE. – Alcuni personaggi di rilievo che si erano imbarcati in questo progetto, iniziarono a muoversi per predisporre tutto affinché la nave arrivasse in porto eventualmente anche senza il benestare di Stallman. I nomi che maggiormente destano attenzione erano quelli di Tim O’Reilly, editore di manuali informatici, e soprattutto Eric Raymond, attento osservatore della cultura hacker e grande personalità all’interno della comunità. Entrambi avevano da poco collaborato, assieme a Linus Torvalds, al progetto di ‘liberazione del sorgente’ di Netscape Navigator, creando una famosissima licenza (la MPL, Mozilla Public License) alternativa a quella redatta da Stallmann per la distribuzione dei prodotti GNU (la GPL, General Public License). La MPL era risultata più funzionale al caso Netscape (oltre che epurata da componenti ideologiche) ed parsa subito ben accetta alla comunità hacker mondiale. Sull’onda di questo successo Raymond, O’Reilly e altri opinion leaders crearono un gruppo di lavoro per riuscire ad escogitare la congeniale chiave con cui presentarsi alle imprese e accedere così sul mercato.
L’avvento di Linux aveva rappresentato, d’altronde, l’emersione di una nuova generazione di hacker, che ormai erano cresciuti in un mondo in cui il software proprietario era la normalità. Ciò comportava che essi non sentissero il retaggio etico di coloro che avevano visto la scienza informatica negli anni d’oro della totale libertà; a questi nuovi hacker (che forse dovremmo chiamare più semplicemente ‘programmatori indipendenti’) non premeva tanto l’aspetto ideologico della libertà, quanto quello funzionale e pratico. In parole povere, la massima libertà anche nelle scelte: libertà anche di scegliere un software proprietario o un software libero a seconda di ciò che più è congeniale, senza dover rendere conto ai dettami di associazioni o guru più o meno carismatici. Williams riporta un dibattito sull’uso del programma PowerPoint di Microsoft che nel 1996 non aveva degni concorrenti, quanto a praticità ed efficacia: “Parecchi hacker Linux, compreso lo stesso Torvalds, erano cresciuti nel mondo del software proprietario. A meno che un programma risultasse chiaramente peggiore, la maggior parte di loro non vedeva alcun motivo per rifiutarlo solo per il problema della licenza”.[49]
Ad ogni modo, la prima ‘scelta di campo’ di Raymond e colleghi fu proprio coniare un termine che identificasse in modo limpido, neutrale ed accattivante il tipo di prodotti che si offrivano.
Ci voleva qualcosa che sottolineasse, piuttosto che gli aspetti etici e gestionali del software liberamente distribuito, le sue caratteristiche tecniche più interessanti: ovvero, la malleabilità e la specificità, che rendevano i programmi decisamente più affidabili, meglio modificabili e personalizzabili e quindi più efficienti ed economici. Michael Tiemann[50], uno del gruppo, propose ‘sourceware’, mettendo per primo l’accento sulla centralità del codice sorgente. La proposta non convinse, dunque Eric Raymond tirò fuori dal suo cilindro magico il termine composto ‘open source’, che aveva già usato informalmente e con segni di approvazione ad un recente congresso.
‘Open source’, ad un sguardo attento, mantiene in parte una sfumatura di matrice etica, per il riferimento al concetto di ‘apertura’ (open) che appunto è col tempo uscito dal suo senso puramente tecnico (‘aperto’ nel senso di ‘codice disponibile e modificabile’), assumendo una connotazione più ampia (‘aperto’ nel senso di ‘privo di vincoli’ tout court)[51].
Raymond nel ’98 propose inoltre la creazione di una organizzazione che vigilasse sul corretto uso del termine ‘open source’ e coordinasse i vari progetti: la Open Source Initiative (OSI)[52]. In pratica, con un immagine matematica, la OSI sta al concetto di ‘open source’ come la FSF sta al concetto di ‘free software’. Due distinte e rilevanti strutture organizzative per progetti che nella maggior parte dei casi andavano verso la stessa direzione.
Il canone dell’unità e della cooperazione poteva essere ormai depennato dalla lista dei punti cardine dell’etica hacker.
Come reagì a tutto questo Stallman? Purtroppo accentuando la sua inflessibilità e allargando così la crepa che si era formata all’interno dell’edificio hacker. Nel 1998 aveva subito chiarito la sua posizione sul nuovo gergo emergente: “open source, pur risultando utile nel comunicare i vantaggi tecnici del software libero, al contempo finiva per allontanarsi dalla questione della libertà nel software. Considerando questo un aspetto negativo, egli avrebbe continuato a usare il termine ‘free software’.”[53] Intraprese perciò una campagna di sensibilizzazione per invitare i colleghi hacker a opporre resistenza alle “lusinghe dei facili compromessi”. Fu purtroppo questo rigido approccio di Stallman ad innescare un confronto ideologico che la OSI non aveva mai avuto intenzione di innescare.[54]

10. LA SITUAZIONE ATTUALE E LE PROSPETTIVE. – Ad ogni modo, con questa altalenante frattura (un giorno più ampia, un giorno più stretta), si è giunti alla situazione odierna, dove il software libero o ‘open source’ come lo si voglia chiamare ha raccolto una generale approvazione e ha dato veramente un giro di vite al mercato del software. Oggi il sistema operativo Linux (oppure Gnu/Linux?) è entrato con successo nelle case di tutto il mondo; ovviamente non si può ancora dire che abbia scalzato Windows di Microsoft nell’uso più comune; Linux, d’altronde, è certamente più affidabile e stabile del concorrente, ma risulta anche meno intuitivo e meno indispensabile per l’utente medio, che non ha le grandi esigenze di un network o di un impresa.
Tuttavia ormai le grandi compagnie di hardware o di software non mettono più nulla sul mercato che non sia almeno compatibile con Linux; e alcune (sempre più numerose) addirittura ne incoraggiano l’uso, in previsione di una miglior gestione dei servizi di manutenzione e aggiornamento. In generale, grazie alla risonanza mediatica che proprio Linux ha generato, anche gli utenti comuni (e non più solo i ‘professionisti’ del campo) cominciano a cogliere le peculiarità e i vantaggi del software aperto e a capire che spesso, pur con le due diverse definizioni, si tratta dello stesso concetto.
L’Opensource di Raymond ha finalmente fatto quel tanto atteso passo nel mercato. Stallman, dal canto suo, sembra aver raccolto i frutti della sua inattaccabile coerenza e, forse proprio grazie ad essa, ha mantenuto la sua credibilità e il suo carisma. Molto efficaci le parole che Williams scrive verso la conclusione del cap. 11: “Può anche darsi che Stallman non possa più considerarsi leader incontrastato del movimento software libero, ma rimane comunque la calamita dell’intera comunità.”[54]
L’annosa “crociata per il software libero” se non può dirsi del tutto vinta e conclusa, ha ormai all’attivo una folta serie di trionfi; e ora il campo di battaglia si sta ampliando a dismisura. Oggi infatti – come vedremo nel prossimo capitolo – i principi etici-informatici di libertà, condivisione e cooperazione che egli più di tutti ha saputo cristallizzare, sono transitati con veemenza sulle altre sfere della creatività e della comunicazione, comportando spesso un ribaltamento dei principi; anche di quelli più assodati.

 

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NOTE AL CAPITOLO II

[3]- Riporto una curiosa e interessante ricostruzione dell’etimologia della radice “hack”, tratta da LEVY, ‘Hackers’, 1984, p. 23: “I membri anziani stavano al club per ore, discutendo sul da farsi, sviluppando un gergo esclusivo, incomprensibile per gli estranei: un progetto intrapreso o un prodotto costruito non soltanto per adempiere a uno scopo specifico ma che portasse con sé il piacere scatenato della pura partecipazione, era detto 'hack'. Quest'ultima parola proveniva dal vecchio gergo del MIT: il termine 'hack' era stato a lungo usato per indicare gli scherzi elaborati che gli studenti del MIT s'inventavano regolarmente". Un impresa era definita vero hack se mostrava innovazione, stile e virtuosismo tecnico. [...] I più produttivi si definivano, con grande orgoglio, 'hacker'; tale citazione si trova anche in RAGUSA, Sviluppo e ordinamento istituzionale nel mercato del software: il modello del software libero, par. 1.1.1.; tesi di laurea, Università Statale di Milano, 2002.
[4]- “[…]la programmazione per gli hacker è in primo luogo gratificazione dell’ego e solo a volte diventa, in aggiunta, leva di reddito. Allo stesso modo del canto o della pittura per gli artisti”. Cfr. BASSI, Open Source - analisi di un movimento, Apogeo, Milano, 2000; disponibile anche alla pagina web http://www.apogeonline.com/ebook/90026/scheda.xhtml oppure alla pagina web http://www.dvara.net/HK/open.asp; p. 36 (par. 2.2.).
[5]- Per una migliore e generale comprensione di queste questioni etimologiche v. anche WILLIAMS, Codice libero - Richard Stallman e la crociata per il software libero (trad. Bernardo Parrella), Apogeo, Milano, 2003 (Appendice ‘B’).
[6]- Vedi per es. RAYMOND, Breve storia sugli hacker in AA.VV., Open Sources - Voci dalla rivoluzione open source, Apogeo, Milano, 1999.
[7]- Uno dei primi calcolatori a transistor è il Tx-0, comparso nel 1959. E sempre nel 1959 ha inizio presso il MIT (Massachusetts institute of technology dell’Università di Cambridge) il primo corso di programmazione di computer.
[8]- Per una presentazione della genesi e dello sviluppo del software Unix, vedi MCKUSICK, Vent’anni di Unix a Berkeley: dalla AT&T alla ridistribuzione gratuita in AA.VV., Open Sources - Voci dalla rivoluzione open source, Apogeo, Milano, 1999.
[9]- La divisione in tre generazioni di hacker è riportata da Sabrina Ragusa nel cap. 1 della sua tesi.
[10]- Altri esempi di reti di connessione telematica erano già stati sperimentati e adottati all’epoca, però erano limitati ad una funzione di intelligence militare. ARPAnet invece si avvicina di più ad Internet per il suo spirito di fondo, ovvero la condivisione di informazioni.
Sabrina Ragusa fa una constatazione molto efficace quando, parlando del contributo essenziale apportato dalla comunità hacker alla realizzazione del progetto di connessione, dice: “La rete […] nacque con l’etica hacker nel sangue”. Cfr. RAGUSA, op. cit., par. 1.1.2.
[11]- E’ per questo che gli hacker di questa seconda generazione sono detti “hacker dell’hardware”.
[12]- Cfr. RAGUSA, op. cit., par. 1.1.3.
[13]- Era dotato di un processore Intel 8088, di una memoria 16 K, di un lettore di cassette audio per memorizzare i dati (e non di un disco rigido).
[14]- Sia Apple che IBM (fra le prime a mettere sul mercato i PC) avrebbero infatti potuto cercare di brevettare la loro trovata industriale, comportando uno stravolgimento della situazione.
[15]- La Ragusa parla addirittura di avversione totale per burocrazia e formalismo (cfr. par. 2.2.).
[16]- Questo è il motivo per cui gran parte delle traduzioni in Italiano si risolvono in tentativi piuttosto goffi che non rendono giustizia al reale significato del termine.
[17]- Sui motivi e i risvolti della scelta di applicare le due diverse tutele discorreremo approfonditamente nel cap. III.
[18]- Cfr. RAGUSA, op. cit., par. 1.1.3.
[19]- Riferendosi a quel sistema, Stallman dice nel suo saggio-manifesto: “Una comunità cooperante era vietata. La regola creata dai titolari di software proprietario era: ‘se condividi il software con il tuo vicino, sei un pirata. Se vuoi modifiche, pregaci di farle’.” Cfr. STALLMAN, Il progetto GNU, in AA.VV., Open Sources - Voci dalla rivoluzione open source, Apogeo, Milano, 1999.
[20]- v. infra, par. 1, note a pie’ di pagina.
[21]- E’ importante ricordare che per permettere tali interventi sul software è necessario appunto distribuirne anche il codice sorgente; ci si richiama dunque per la prima volta al concetto di ‘open source’ (in senso tecnico) descritto nel primo capitolo.
[22]- Dice Stallman, parlando di Emacs: “Dato che lo condividevo, era loro dovere condividere”. Cfr. RAGUSA, op.cit., par. 1.1.5.
[23]- Vedi a proposito RAYMOND, La vendetta degli hacker in AA.VV., Open Sources - Voci dalla rivoluzione open source, Apogeo, Milano, 1999.
[24]- Sul quale avremo modo di soffermarci dettagliatamente nei prossimi capitoli.
[25]- Rispettivamente www.fsf.org , www.gnu.org , www.stallman.org .
[26]- Il sito del Progetto GNU ha addirittura una sezione di contenuti intitolata “materiale politico”.
[27]- La stessa etimologia di ‘software’ richiama l’idea della elasticità e quindi, in un certo senso, anche della modificabilità e adattabilità.
[28]- Su questi aspetti (solo all’apparenza marginali) della personalità di Stallman vedi la ricostruzione biografica compiuta da Sam Williams nel libro Free as in freedom, disponibile in versione italiana: WILLIAMS, op. cit.
[29]- L’appellativo di “miracolo”, volutamente iperbolico, sta a sottolineare però la portata di questa nuova compagine che ha veramente rivoluzionato il mondo del software negli ultimi anni. Di miracolo parla anche Eric S. Raymond nel suo emblematico articolo La cattedrale e il bazar (par. 1) di cui più avanti riportiamo un estratto.
[30]- Cfr. RAYMOND, Breve storia sugli hacker in AA.VV., op. cit. (par. I primi free Unix).
[31]- Cfr. STALLMAN, Il progetto GNU, in AA.VV., op. cit. (par. Linux e GNU/Linux).
[32]- A tal proposito vedi anche WILLIAMS, op. cit. (cap. 10 – Gnu/Linux).
[33]- Cfr. RAYMOND, Breve storia sugli hacker in AA.VV., op. cit. (par. I primi free Unix).
[34]- Cfr. RAYMOND, La cattedrale e il bazar (par. 1), 1998, disponibile su http://www.apogeonline.com/openpress/doc/cathedral.html oppure su http://www.dvara.net/HK/open.asp; un altro passo sempre tratto dallo stesso paragrafo è il seguente: “Linux è sovversivo. Chi avrebbe potuto pensare appena cinque anni fa che un sistema operativo di livello mondiale sarebbe emerso come per magia dal lavoro part-time di diverse migliaia di hacker e sviluppatori sparsi sull'intero pianeta, collegati tra loro solo grazie ai tenui cavi di Internet? […]. Linux stravolse gran parte di quel che credevo di sapere. Per anni avevo predicato il vangelo Unix degli strumenti agili, dei prototipi immediati e della programmazione evolutiva. Ma ero anche convinto che esistesse un punto critico di complessità al di sopra del quale si rendesse necessario un approccio centralizzato e a priori. Credevo che il software più importante […] andasse realizzato come le cattedrali, attentamente lavorato a mano da singoli geni o piccole bande di maghi che lavoravano in splendido isolamento […].”
[35]- WILLIAMS, op. cit. (cap. 11 – Open Source).
[36]- Per un approccio di tipo economico come questo, vedi: BASSI, op. cit. (cap.3, pp. 61-87); DIDONÈ, Modelli di business per il software libero (tesi di laurea); disponibile alla pagina web http://superdido.com/luca/index-luca.html; MEO, Software libero e open source, Mondo Digitale, 2002 (cap. 4, pp. 16-17); disponibile anche su http://www.aiscris.it/open_source.php oppure su http://www.dvara.net/HK/open.asp; RAGUSA, op. cit. (par. 3.5 e tutto il cap. 4); TIEMANN, Il futuro della Cygnus Solutions - resoconto di un imprenditore in AA.VV., Open Sources (cit.); YOUNG, Regalato! Come Red Hat Software si trovò fra le mani un nuovo modello economico e contribuì a migliorare un’industria in AA.VV., Open Sources (cit.); BEHLENDORF, Open Source come strategia commerciale in AA.VV., Open Sources (cit.).
[37]- Vedi per es. il par. intitolato Il supporto per il software libero tratto dal già citato saggio di Stallman Il progetto GNU, che appunto recita: “La filosofia del software libero rigetta una diffusa pratica commerciale in particolare, ma non è contro il commercio. Quando un’impresa rispetta la libertà dell’utente, c’è da augurarle ogni successo.[…] Quando la FSF prese in carico quest’attività, dovetti cercare un’altra fonte di sostentamento. La trovai nella vendita dei servizi relativi al software libero che avevo sviluppato. […] Oggi tutte queste attività collegate al software libero sono esercitate da svariate aziende.”
[38]- Di Linux, per esempio, esistono in commercio varie versioni, dette ‘distribuzioni’ proprio perché derivano la loro diversità dal gruppo di lavoro o dall’azienda che ne ha assemblato e modellato le funzionalità e che ne ha distribuito la versione così ottenuta. Oppure è possibile scaricare diverse versioni dell’intero sistema operativo o solo di alcune componenti dai vari siti che si occupano della diffusione di Linux.
[39]- Un po’ il corrispondente del lavoro di assemblaggio su commissione che si fa ormai regolarmente in ambito hardware con le componenti del PC.
[40]- PERENS, The Open Source Definition, in AA.VV., Open Sources (cit.), introduzione.
[41]- All’uopo venne redatta un’apposita licenza (la Mozilla Public License), di cui parleremo più avanti.
[42]- Per una descrizione dettagliata del concetto di ‘software libero’, vedi i saggi Il manifesto GNU (scritto nel 1984) e La definizione di software libero (scritto nel 1996) entrambi raccolti in STALLMAN, Software libero, pensiero libero: saggi scelti di Richard Stallman, Stampa Alternativa, 2003 (disponibile anche alla pagina web http://internet.cybermesa.com/~berny/free.html ).
[43]- A tal proposito vedi BASSI, op. cit., (par. 1.5., p. 21): “La causa del Free Software sostenuta da Stallman e dalla FSF non ha incontrato i favori della maggior parte (quasi tutte) delle compagnie produttrici di software proprietario. Il motivo è da ricercarsi nella matrice ideologica del movimento. La FSF patrocina il Free Software per sancire la prevalenza del diritto della libertà di utilizzare, modificare, distribuire ciò che è un prodotto dell’ingegno, sul diritto di proprietà dell’autore del medesimo. Tale posizione è stata tacciata, siamo in America, di ‘comunismo’, ‘anarchia’ e anche di istigazione alla ‘pirateria’ dai sostenitori del diritto di proprietà sul software.”
[44]- In modo simile si esprime STALLMAN, Vendere software libero (scritto nel 1996) in Software libero, pensiero libero (cit.): “Il termine ‘free’ ha due legittimi significati comuni; può riferirsi sia alla libertà che al prezzo. Quando parliamo di ‘free software’, parliamo di libertà, non di prezzo. Ci si rammenti di considerare ‘free’ come in ‘free speech’ (libertà di parola) anziché in ‘free beer’ (birra gratis). In particolare, significa che l'utente è libero di eseguire il programma, modificarlo, e ridistribuirlo con o senza modifiche.” Lo stesso concetto ritrova poi nel preambolo della licenza GNU GPL: “Quando si parla di software libero, ci si riferisce alla libertà non al prezzo.” (cfr. il testo integrale della licenza).
[45]- Tratto da STALLMAN, Vendere software libero (cit.); il passo procede ribadendo più avanti che “ridistribuire il software libero è una attività buona e legale; se la fate, potete anche trarne profitto”
[46]- Vedi a tal proposito WILLIAMS, op. cit. (cap. 11 – Open Source): “Nonostante tutti gli sforzi da parte di Stallman […] per spiegare alla gente che la parola “free” in “free software” andava intesa come sinonimo di “libero” non di “gratuito”, il messaggio stentava a passare. Gran parte dei dirigenti di società […] lo interpretava come sinonimo di “a costo zero”, lasciando così cadere ogni possibile iniziativa.”
[47]- Vedi a tal proposito il par. Paura della libertà del saggio di STALLMAN, La definizione di software libero (cit.).
[48]- L’articolo è riportato in versione italiana in VALVOLA SCELSI, No copyright - nuovi diritti nel 2000, Shake Underground, Milano, 1994, p. 154.
[49]- Cfr. WILLIAMS, op. cit. (cap. 11 – Open Source).
[50]- Autore de Il futuro della Cygnus Solutions - resoconto di un imprenditore in AA.VV., op. cit.
[51]- Ne è prova il fatto che gran parte dei progetti di libera diffusione della conoscenze (informatiche e non) ama usare l’aggettivo ‘open’: per es. OpenPress, OpenMusic, OpenScience, OpenLabs.
[52]- Ne vedremo più avanti il ruolo con maggior precisione.
[53]- Cfr. WILLIAMS, op. cit. (cap. 11 – Open Source).
[54]- Per comprendere al meglio le critiche avanzate da Stallman al progetto OSI, si veda STALLMAN, Perchè “software libero” è da preferire a “open source”, in Software libero, pensiero libero (cit.).
[55]- Cfr. WILLIAMS, op. cit. (cap. 11 – Open Source).