INTRODUZIONE.
– Come premessa a questo capitolo, bisogna prendere atto che
il suo titolo non rende affatto giustizia al fenomeno di cui analizzeremo
la dinamica storica, dato che il termine ‘Opensource’
– come vedremo – compare in tempi decisamente più
avanzati rispetto alla genesi dei principi che incontreremo. Ma,
d’altronde, ho già spiegato la scelta per lo più
funzionale di usare ‘Opensource’ per indicare un movimento
nella sua generalità; specificherò, tuttavia, di volta
in volta quali termini saranno più appropriati.
E’ il caso inoltre di precisare, sfatando una credenza diffusissima,
che da qui in poi si parlerà spesso di hacker e di hacking[3],
senza però alludere alle pratiche di pirateria informatica.
Si tratta infatti di un concetto che esula da qualsivoglia connotazione
negativa e che nasce in un mondo ben lontano da quello evoluto e
interconnesso in cui possono pavoneggiarsi i veri pirati informatici.
Un hacker, nell’accezione originaria di questo neologismo,
è solo e semplicemente un esperto di informatica a cui piace
programmare, che lo fa non con intenti di profitto ma per una sorta
di irrefrenabile passione, quasi per vocazione[4]. Come vedremo
nel capitolo, la comunità hacker ruota attorno addirittura
ad una ferrea etica, che poi vedremo riverberarsi anche sulle problematiche
di copyright e proprietà intellettuale che qui ci interessano
principalmente. Al nostro concetto di pirata informatico, ovvero
colui che prova compiacimento e autoaffermazione danneggiando (crackando)
i più disparati sistemi informatici, si addice maggiormente
il neologismo cracker[5].
1.
RADICI STORICHE. – Nell’esperienza comune, si tende
a far coincidere la cosiddetta rivoluzione informatica e telematica
con un evento pressoché improvviso che ha investito il mondo
nel giro di qualche anno. Questo potrebbe anche essere ritenuto
plausibile se per rivoluzione informatica intendiamo l’ingresso
nelle nostre case dei primi Personal Computer e se per rivoluzione
telematica intendiamo la diffusione capillare della comunicazione
via Internet. Infatti il primo dei due fenomeni può esser
considerato svoltosi nell’arco del decennio a cavallo fra
gli anni 80 e gli anni 90 e il secondo ci pare ancora più
fulmineo, se lo si considera esploso negli ultimi anni 90.
Documentandoci sulla storia del movimento hacker[6], però,
si esce facilmente dall’alone di mistero che spesso avvolge
la genesi dell’informatica come scienza e come nuova cultura.
Ci si rerende conto di come il processo di “infiltrazione”,
che la tecnologia dell’intelligenza artificiale ha operato
nelle abitudini di vita di noi tutti, abbia radici ben più
profonde, da non poter essere assimilato ad una sorta di moda esplosa
nelle nuove generazioni.
Per prima cosa dobbiamo considerare che i primi calcolatori (a valvole
e - solo poi - a transistor) comparvero già nei primi anni
50[7]; ovviamente, si trattava di congegni mastodontici con limitatissime
funzioni, che rimasero operanti a livello di università e
centri militari e rappresentavano ancora una fase semisperimentale
della scienza informatica.
Dando per conosciuta una prima fase dell’evoluzione tecnologica,
si potrebbe porre la prima pietra miliare del fenomeno che ci interessa
nell’anno 1969, anno in cui la prima ristretta comunità
hacker venne costretta (dalla rivoluzione culturale in atto in quel
periodo) ad uscire dal suo originario isolamento nelle università
e nei centri di ricerca e ad affacciarsi al mondo reale. In quell’anno
infatti vide la luce il sistema operativo Unix[8], grazie al lavoro
di uno sviluppatore dei laboratori Bell: Ken Thompson, personaggio
appartenente appunto a questa prima generazione[9] di hacker. Unix
era il primo sistema operativo sviluppato in linguaggio C (un particolare
linguaggio di programmazione) e non in linguaggio macchina (binario)
ed era il primo a ricercare l’idea di portabilità e
compatibilità. Prima di Unix, cioè, ogni computer
necessitava un apposito sistema di software (sistema operativo +
programmi vari); ogni volta che la macchina veniva aggiornata o
sostituita era necessario riprogettare gran parte del sistema software.
Grazie a Thompson invece il ruolo del software si fece più
dinamico e più facilmente gestibile, indipendentemente dal
supporto hardware su cui era installato; fu dunque possibile affacciarsi
su un mercato dell’informatica decisamente più ampio
ed elastico.
Il 1969 è inoltre l’anno in cui furono collegati per
via telematica i nodi dei centri di ricerca informatici di quattro
grandi università statunitensi (Los Angeles, Santa Barbara,
Stanford, Utah): nacque così ARPAnet, riconosciuta da tutti
come l’effettivo embrione dell’Internet dei nostri tempi[10].
Si passa poi, con l’inizio degli anni 70, ad una seconda generazione
di hacker fedele ai principi etici originari, ma interessata più
che altro alla diffusione del mezzo su cui amavano operare. Il loro
obbiettivo era quello di fare uscire lo strumento ‘computer’
dai grandi centri di ricerca, per renderlo più familiare
alla grande massa degli utenti; si impegnavano affinché le
apparecchiature fossero più piccole, maneggevoli ed economiche[11].
In questo periodo apparvero i primi computer in kit di montaggio:
apparecchi piuttosto spartani venduti ad un prezzo base di 397 dollari
e contenenti i primi processori Intel[12]. E’ sempre in questo
periodo che si cominciò a sentir parlare di Bill Gates (il
magnate di Miscrosoft) il quale ebbe il merito assieme a Paul Allen
di aver utilizzato efficacemente il linguaggio Basic per rendere
più semplice il funzionamento dei computer Altair.
Nacque dunque nei primi anni 80 il concetto di personal computer,
sicuramente grazie all’impegno degli hacker nel “liberare
l’hardware”, ma anche per ben più venali interessi
economici da parte delle imprese che iniziarono a sentire odore
di affari. La International Business Machine infatti mise sul mercato
il suo primo computer da tavolo chiamato appunto IBM-PC[13]; e in
contemporanea la stessa scelta di marketing venne compiuta dalla
Apple e dalla Atari. IBM adotta inizialmente una politica aziendale
piuttosto “illuminata”, cercando di incoraggiare la
diffusione e lo sviluppo del software e stimolando la collaborazione
di altre importanti imprese[14], come la Microsoft che realizzò
il sistema operativo per i nuovi computer: il sistema MS-DOS, tuttora
fondamentale per il funzionamento dei nostri PC.
In tal modo, quello strano aggeggio ibrido fra una macchina da scrivere
e un televisore cominciava a fare capolino negli arredi delle case
e degli uffici di tutto il mondo e in molti casi dovette “svilire”
la sua funzione, essendo sfruttato come gioco e passatempo invece
che come strumento di calcolo. In questo modo una massa di persone
inesperte si trovò ad utilizzare giochi e software senza
essere in grado di capire (o senza nemmeno voler capire) di cosa
effettivamente si trattasse e di come fossero stati sviluppati;
scegliendo i prodotti in base alla pubblicità o semplicemente
affidandosi a pacchetti standard.
Una conseguenza logica di questa espansione a macchia d’olio:
più gli utenti divenivano numerosi e più questa terza
generazione di hacker risultava frazionata e composita. Non più
solo lo zoccolo duro degli studiosi di informatica e di tecnologia,
ma anche una sempre più numerosa schiera di curiosi, ai quali
era però difficile trasmettere in modo completo e autentico
certi principi etici nati in una sorta di ristretta casta. Si arrivò
così ad uno scenario abbastanza simile ai giorni nostri,
in cui gli utenti si dividevano in varie macro-comunità rese
compatte, più che da i principi, dagli usi che fanno del
PC e collegate dalla prima vera e propria Internet (come la si intende
oggi): i vecchi fedelissimi dediti alla libera ricerca, coloro che
usavano il PC negli uffici quindi per lavoro, gli appassionati dei
giochi con la loro smania di scambiarsi trucchi e versioni aggiornate…
2.
LINEAMENTI DELLA CULTURA HACKER. – Soffermiamoci ora sugli
aspetti più rappresentativi della etica hacker fin qui solo
accennati. E’ in effetti fondamentale capire come siano stati
proprio questi principi di “filosofia sotterranea” ad
influire maggiormente sulle nuove istanze in fatto di copyright
del software (e di riflesso delle opere non software). E nei capitoli
seguenti avremo varie occasioni per dimostrarlo.
I punti cardini di quella che sembra configurarsi come una ‘metasocietà’
(cioè, società nella società) sono principalmente
i seguenti:
- libertà di accesso alle risorse, siano esse intese come
accesso alle informazioni, ai dati, oppure come accesso alle macchine
e ai relativi componenti tecnologici necessari al loro miglior funzionamento;
- condivisione delle conoscenze e degli strumenti;
- cooperazione ed unità nella realizzazione dei progetti
utili alla comunità: vedremo infatti come scismi, defezioni
e biforcazioni in sotto-progetti vengano sempre visti di cattivo
occhio e osteggiati sia per ragioni pratiche, sia (spesso) per una
questione puramente ideologica;
- semplificazione sia a livello tecnico sia a livello burocratico[15],
che ovviamente va di pari passo con ottimizzazione delle risorse
(raggiungere il massimo risultato impiegando la soluzione più
semplice e meno dispendiosa).
- creatività: la progettazione, conoscenza (e in certi casi
manomissione) dei sistemi informatici è considerata un’arte
e quindi ogni operazione deve essere compiuta con stile e originalità;
- onore e credibilità: tutti i cardini etici fin qui citati
sono poi amalgamati da un grande senso dell’onore, della reputazione,
della rispettabilità che pervadono la comunità hacker;
le varie sotto-comunità e i singoli progetti infatti hanno
un loro leader il quale si è guadagnato la credibilità
con i meriti e l’anzianità; e non mancano gli opinion-leader
ovvero gli ideologi dell’hacking i quali si distinguono per
carisma e capacità comunicativa e si fanno perciò
portavoce della comunità e catalizzatori di attenzione.
Ovviamente una simile organizzazione non può che dotarsi
di un proprio linguaggio originale formatosi con anni di strambe
etimologie e distorsioni linguistiche (tratte magari da termini
ultra-tecnici) e dal quale in questi primi paragrafi ho mutuato
molte espressioni: uno slang caratteristico di matrice quasi totalmente
“American-English” che si distingue per la sua insostituibile
efficacia[16].
Non bisogna inoltre dimenticare lo spirito che da sempre contraddistingue
le azioni di hacking: ovvero quello spirito ironico e dissacratorio
che fa apparire spesso come goliardiche anche le incursioni più
fastidiose.
3.
LA LOGICA DEL PROFITTO. – Abbiamo già visto con quale
facilità e rapidità l’informatica, da elitaria
scienza al servizio del progresso, si sia trasformata in un grande
business al quale appunto l’imprenditoria statunitense (prima,
e poi anche mondiale) non abbia saputo rinunciare. Gli investimenti
sono massicci e il margine di profitto può solo aumentare
vertiginosamente con gli anni; perciò le imprese che si affacciano
su questo mercato diventano istintivamente gelose dei propri sforzi
e ricorrono sempre più spesso alle tutele che il diritto
industriale (copyright e brevetti) prevede[17]. E ciò è
ben possibile che avvenga senza che nessuno degli utenti comuni
(quelli a cui quel mercato si rivolge) gridi allo scandalo per il
soffocamento dei canoni di libertà e condivisione che aveva
caratterizzato per gli scorsi decenni l’evoluzione del software.
Nel pieno del boom degli anni 80, nessuno degli acquirenti dei primi
PC si preoccupa di quanto lavoro di progettazione collettiva nel
corso dei decenni precedenti ci sia dietro il giochino e le applicazioni
che maggiormente adopera.
Si verifica, com’è prevedibile, un progressivo sovvertimento
di quanto ereditato dalla tradizione hacker: quantità invece
di qualità, controllo invece di libertà, profitto
invece di personale dedizione, divisione invece di cooperazione,
segretezza invece di condivisione. Nasce quindi da una costola della
figura dell’hacker autentico la figura del programmatore professionista
il quale svolge le stesse funzioni tipiche dei suoi predecessori,
ma essendo inquadrato nella gerarchia aziendale e non essendo più
unico padrone delle proprie creazioni informatiche.
Come la Ragusa sottolinea giustamente “La speranza che con
la diffusione dei computer si sarebbe anche diffuso il sogno hacker,
si rivelò pura utopia […]” [18].
4.
LA CROCIATA DI STALLMAN. – Avevamo sospeso la nostra ricostruzione
storica ai primi anni 80, con l’avvento del personal computer
e del nuovo mercato (non più di nicchia) che va ad accaparrarsi.
E’ proprio in questo periodo che appunto si innesta l’opera
di Richard M. Stallman: abile ed esperto programmatore indipendente,
appartiene a quella prima generazione di hacker e ne rappresenta
lo stereotipo integerrimo e incontaminato. Questo suo essere un
uomo ‘tutto d’un pezzo’ è la caratteristica
che da un lato gli permette di potersi innalzare a massimo portavoce
della comunità hacker di quel periodo, ma dall’altro
– come vedremo – gli causa grandi problemi di convivenza
nella gestione dei progetti concreti.
Nel 1983 egli è il primo ad avvertire repulsione per quel
nuovo modello d’informatica che andava a configurarsi[19];
ed è il primo a muoversi concretamente e visibilmente nella
direzione del risveglio delle coscienze di coloro che l’informatica
l’avevano simbolicamente partorita. All’epoca egli poteva
già vantare (oltre ad una laurea in fisica cum laude) una
decina d’anni d’esperienza come programmatore, dato
che già nel 1971 era stato assunto nel laboratorio di Artificial
Intelligence (AI lab) del MIT[20]. In quegli anni aveva avviato
la prassi di distribuire gratuitamente e liberamente i suoi programmi,
incoraggiando chiunque a modificarli e migliorarli[21]: fu questa
la sorte dell’Emacs, il diffusissimo programma editor di testi
da lui stesso creato, che portò alla genesi della “Comune
di Emacs”, una specie di catena di utenti che avevano come
unico obbligo quello di diffondere a loro volta liberamente le modifiche
apportate[22].
E’ ben intuibile ora come mai un personaggio del genere abbia
messo in atto la più ferrea ribellione contro i nuovi criteri
di diffusione del software: di fronte allo scorrere inevitabile
di quegli eventi, Stallman si sentiva l’ultimo vero hacker
sopravvissuto al cambiamento del suo habitat naturale. Sempre nel
1983 decide dunque di abbandonare il MIT, per dedicarsi a lungimiranti
progetti personali che tenessero in vita lo spirito hacker a cui
tanto era affezionato: primo fra tutti, la realizzazione di un sistema
operativo di tipo Unix che fosse però dall’impostazione
esclusiva del copyright e distribuibile liberamente. Nasce appunto
il Progetto GNU, acronimo ricorsivo che sta per Gnu’s Not
Unix (Gnu non è Unix) con un’espressa vena di antagonismo
e di sfida, il quale appunto avrebbe dovuto coinvolgere migliaia
di irriducibili e condensare le conoscenze e gli sforzi condivisi
nel nuovo sistema operativo.
Ovviamente tutti i potenziali “adepti” avrebbero dovuto
poter avere un punto di riferimento unico che si facesse portavoce
e mecenate dell’impresa; nasce così, sempre per opera
di Stallman e sotto la sua stretta supervisione, la Free Software
Foundation: un’organizzazione no-profit mirata alla raccolta
di fondi, al coordinamento dei progetti e alla sensibilizzazione
del popolo dell’informatica. Nei primi anni di vita entrambi
i progetti (che si potrebbero considerare come due manifestazioni
di un unico progetto) faticarono ad ingranare, a causa della già
accennata situazione di frammentazione della comunità degli
informatici.
Le cose cambiarono invece con la raggiunta maturazione della rete
telematica: quando infatti Internet verso la fine degli anni 80
iniziò a connettere stabilmente un numero cospicuo di utenti,
il messaggio della Free Software Foundation (FSF) poté raggiungere
gli hacker di vecchio stampo sparsi per il mondo, che erano rimasti
anch’essi disorientati e isolati dal cambiamento. Il seme
della rivoluzione (anzi, della contro-rivoluzione[23]) ‘scongelato’
– per così dire – da Stallman dopo un periodo
di ibernazione, poteva infatti trovare solo nelle coscienze dei
singoli appassionati (e non certo nelle lobbies di potere dell’imprenditoria
tecnologica) il terreno fertile di cui aveva bisogno per svilupparsi.
5.
LE DIFFICOLTÀ DA SUPERARE. – Si ricominciò così
a recuperare lo spirito di condivisione tipico dell’etica
hacker e ad applicarlo alla realizzazione del nuovo sistema operativo
libero GNU. Stallman escogitò un meccanismo atipico di copyright
basato su particolari licenze, chiamato appunto copyleft[24], con
il quale costringeva chiunque volesse apporre modifiche al software
distribuito liberamente dalla FSF a ridistribuirle altrettanto liberamente.
Ciò significava – come già spiegato –
mantenere in ogni operazione l’accessibilità del codice
sorgente.
Si innescò quindi un continuo flusso di versioni via via
più aggiornate delle componenti del software tra i programmatori
di tutto il pianeta che decidevano di impegnarsi nel progetto GNU
e accettavano i suoi principi.
Il sito della FSF, quello del Progetto GNU e quello personale di
Stallman[25] iniziarono a riportare (e riportano tuttora) molto
materiale di matrice ideologica[26], in cui si esternavano i cardini
di tale filosofia e si mettevano all’indice tutti i progetti
e i soggetti che si muovevano in senso opposto. Stallman, nei suoi
scritti e nelle sue (numerose quanto eccentriche) apparizioni a
convegni e conferenze, amava parlare di software libero proprio
per marcare la contrapposizione con il software proprietario e la
distorsione di ideali che quest’ultimo aveva comportato. Era
palese l’intento propagandistico della scelta terminologica
rivolto ad una ‘fauna’ composita e frammentaria; agli
occhi degli hacker di prima generazione, infatti, l’aggettivo
‘libero’ poteva sembrare decisamente pleonastico: il
loro software, d’altronde, lo era sempre stato[27]. Guai a
chi usava altri termini e a chi cercava di ammorbidire i toni del
confronto! Stallman è forse colui che più di tutti
inorridirebbe se sapesse che il suo pensiero è riportato
in un saggio dedicato al “movimento opensource” invece
che al “movimento per il software libero”.
Questa totale integrità morale, unita ad una personalità
alquanto egocentrica e insofferente, hanno fatto di Stallman una
sorta di ideologo-quasi-profeta, idolatrato per certi versi, ma
spesso osteggiato come interlocutore o nella messa in pratica dei
progetti comuni e per molti destinato ad un inevitabile auto-isolamento[28].
Nonostante il mercato del software proprietario in vertiginosa espansione
provocasse un progressivo soffocamento di risorse e possibilità,
il progetto proseguiva in modo anche piuttosto soddisfacente; ma
presto avrebbe pagato lo scotto della sua congenita frammentarietà.
Il repertorio di applicazioni prodotto con il metodo del copyleft
era decisamente ampio e ben funzionante; ma non si poteva ancora
parlare di un sistema operativo completo poiché non era ancora
disponibile un vero e proprio kernel. Il kernel è –
in parole molto povere – il ‘nucleo’ del sistema
operativo, l’insieme di informazioni che permettono alla macchina
di ‘fare girare’ correttamente tutte le applicazioni
che compongono l’intero sistema operativo. Senza di lui, il
sistema operativo GNU non poteva far altro che appoggiarsi su una
piattaforma di software proprietario, beffando così gli intenti
ideologici e dimostrativi del progetto. Tale grossa pecca dipendeva
proprio dalla difficoltà di amalgamare un lavoro così
composito e di coordinare una squadra tanto indefinita e mutevole
di sviluppatori.
6.
LA SVOLTA DI LINUX. – Per un risultato completo e perfetto
– pensavano probabilmente gli stessi volontari del progetto
GNU – c’era bisogno di un certo grado di controllo e
centralizzazione del lavoro; un lavoro colorato di una certa solennità,
simile all’opera di un geniale architetto nel realizzare una
grande cattedrale. Questo era ciò che molti credevano, probabilmente
anche gli stessi artefici del progetto GNU. Eppure nel 1991 giunse
il miracolo[29]; un miracolo che però non derivava dalla
cattedrale in costruzione ma proprio da quel grande bazar che era
la ridistribuzione libera. In quell’anno, infatti, un giovane
studente d’informatica dell’Università di Helsinki
cominciò a sviluppare un kernel Unix-compatibile usando un
kit di strumenti software della Free Software Foundation[30]: si
chiamava Linus Torvalds e il suo ‘figlio prediletto’
fu chiamato – la leggenda vuole per un errore casuale –
Linux. Come lo stesso Stallman fa notare, “attorno al 1992,
la combinazione di Linux con il sistema GNU ancora incompleto produsse
un sistema operativo libero completo […]. E’ grazie
a Linux che oggi possiamo utilizzare una versione del sistema GNU”[31].
Come prevedibile, il guru della FSF prosegue precisando che appunto
il nome corretto del sistema dovrebbe essere GNU/Linux[32], per
rendere il giusto merito a tutte le camicie sudate dalla folta schiera
di sviluppatori che hanno preparato il terreno a Torvalds.
Raymond sottolinea dal canto suo come il quid pluris apportato da
Linux fosse non tanto a livello tecnico quanto a livello sociologico.
Vista l’efficacia delle sue parole in proposito, è
il caso di riportare gli stralci più emblematici dei due
articoli presi in esame.
“La
caratteristica fondamentale di Linux, tuttavia, non era tanto
tecnica quanto sociologica. Fino allo sviluppo di Linux, era pensiero
comune che qualsiasi software complicato come un sistema operativo,
dovesse essere sviluppato in modo attentamente coordinato da un
ristretto gruppo di persone ben collegate tra di loro. Questo
modo di operare era, ed è tuttora, tipico sia del software
commerciale che delle grosse cattedrali di freeware costruite
dalla Free Software Foundation negli anni '80 […]. [33]
Rimasi non poco sorpreso dallo stile di sviluppo proprio di Linus
Torvalds: diffondere le release [= versioni, n.d.r.] presto e
spesso, delegare ad altri tutto il possibile, essere aperti fino
alla promiscuità. Nessuna cattedrale da costruire in silenzio
e reverenza. Piuttosto, la comunità Linux assomigliava
a un grande e confusionario bazar, pullulante di progetti e approcci
tra loro diversi […].” [34]
Gli
stessi concetti sono ripresi con maggiore sintesi nella ricostruzione
storico-biografica compiuta da Sam Williams:
“I
programmi GNU sembravano “cattedrali”, monumenti all’etica
hacker, impressionanti, pianificati in modo centralizzato, costruiti
per durare nel tempo. Linux, d’altra parte, era più
simile a ‘un grande bazar vociante’, un programma
sviluppato grazie alle dinamiche sciolte e decentrate offerte
da Internet. [35]
Linux (anche se era solo la punta dell’iceberg) divenne
così la prima vera e concreta dimostrazione al mondo intero
che la comunità hacker e il movimento per il software libero
non era solo uno scoordinato gruppo di visionari idealisti e che
le cose potevano realmente (e drasticamente) cambiare.”
7.
IL SOFTWARE LIBERO COME NUOVO MODELLO DI BUSINESS. – Nell’arco
di pochi anni la stampa (non più solo settoriale) cominciò
a puntare i suoi riflettori su questo fenomeno che si espandeva
a macchia d’olio quanto più di diffondeva l’uso
di Internet. L’imprenditoria (prima quella più piccola
e indipendente, poi anche quella grande e di rilievo) iniziò
a cogliere gli aspetti di business che potevano celarsi dietro questa
rivoluzione.
Bisogna ricordare che lavorare nell’ambito del software libero
non significa fare del puro volontariato o rifiutare a priori ogni
forma di commercializzazione: lo sottolinea tutta la saggistica
di matrice economica che si occupa di marketing e distribuzione
del software[36]; e lo gridano a grande e unanime voce gli ideologi
del software libero, primo fra tutti Stallman in persona[37]. Il
software libero come modello di business si presentava al mondo
degli affari non solo come un pericoloso nemico da contrastare ma
anche come un’allettante valvola di sfogo per un nuovo orizzonte
di sviluppo.
Anche se in quell’ambito non si poteva più fare affidamento
sul profitto derivato dalla vendita dei pacchetti ‘chiusi’
di software proprietario, si prospettava tutta una gamma di servizi
collegati che comportavano guadagni sì meno massicci, ma
anche più elastici, più duraturi e accompagnati da
un taglio netto sulle spese di produzione e di distribuzione; garantendo
inoltre un’alta qualità del prodotto. Tali servizi
andavano dalla manutenzione del software, al suo periodico aggiornamento,
ma soprattutto alla sua customizzazione[38]: un anglicismo (traducibile
forse con ‘personalizzazione’) per indicare l’operazione
di forgiare su misura il software, con il potenziamento delle funzioni
che servono maggiormente al singolo utente[39]. D’altronde,
Bruce Perens sostiene argutamente che “i produttori che non
rendono Open Source i loro programmi trovano difficile competere
con chi lo fa, dal momento che gli utenti imparano ad apprezzare
quei diritti che avrebbero dovuto sempre essere loro.” [40]
Nel 1998 un fulmine al ciel sereno illuminò i volti di quella
comunità emergente: la Netscape (importante impresa statunitense
di software) decise di diffondere il suo prodotto di punta (il browser
Navigator) sotto i parametri dell’Opensource[41]. Una mossa
abbastanza inaspettata che fu un grande segnale che i tempi erano
maturi.
8.
UNA CONTROVERSA QUESTIONE DI LIBERTÀ. – Era giunto
quindi il momento di fare il grosso passo: ovvero, uscire dal mercato
pur ampio ma comunque sotterraneo della comunità hacker e
affacciarsi sul vero mercato mondiale dell’informatica e iniziare
la battaglia a tutto campo contro i colossi del software proprietario.
Era un passo pieno di insidie, dato che, uscendo allo scoperto,
era più difficile mantenere incontaminati i principi etici
e tecnici che per decenni avevano accompagnato il movimento per
la libertà nel software; diventava anche più facile
che si formassero ingombranti interessi economici e inopportune
divisioni all’interno di quell’immenso gruppo di lavoro.
Per di più era necessario riuscire a far digerire il concetto
di software libero[42] alle imprese nuove possibili finanziatrici,
rendendolo tangibilmente appetibile ed epurandolo da ogni scomoda
componente ideologica e propagandistica. A ben vedere, il principio
che ‘free software’ potesse andare d’accordo con
‘investimento proficuo’ circolava più facilmente
nelle facoltà di economia piuttosto che nei consigli di amministrazione:
questo per dire che il passaggio dalla teoria accademica/filosofica
alla pratica delle effettive strategie di marketing non fu decisamente
automatico.[43]
Ad incutere diffidenza nelle alte dirigenze era l’ancoraggio
indissolubile (a volte anche solo subconscio) che sussisteva fra
l’idea di software libero e l’idea di gratuità
e non-commerciabilità del prodotto, con l’aggiunta
di una certa riluttanza verso il mantenimento di tutto l’apparato
etico che ne stava dietro. Non dobbiamo dimenticare che in inglese
la parola ‘free’ mantiene i due significati di ‘libero’
e di ‘gratuito’; se ‘sugar free’ vuol dire
‘senza zucchero’ (lett. libero da zucchero), ‘free
entry’ vuol dire ‘ingresso gratuito’ (lett. ingresso
libero)[44]. Ma la scelta dell’aggettivo ‘free’
non era stata compiuta per leggerezza; anzi, Stallman all’epoca
dei primi progetti GNU voleva proprio sottolineare – con scopi
appunto altamente propagandistici – la doppia implicazione
di libertà e gratuità. Anche in questo caso sono le
parole del diretto interessato (scritte nel 1996) che ci aiutano
ad inquadrarne al meglio la posizione assunta, oltre che a cogliere
con maggior chiarezza alcuni aspetti particolari del problema:
“Molta
gente crede che lo spirito del progetto GNU sia che non si debba
far pagare per distribuire copie del software, o che si debba
far pagare il meno possibile: solo il minimo per coprire le spese.
In realtà noi incoraggiamo chi ridistribuisce il software
libero a far pagare quanto vuole o può. […]
I programmi liberi sono talvolta distribuiti gratuitamente, e
talvolta ad un prezzo consistente. Spesso lo stesso programma
è disponibile in entrambe le modalità in posti diversi.
Il programma è libero indipendentemente dal prezzo, perché
gli utenti sono liberi di utilizzarlo. Programmi non-liberi vengono
di solito venduti ad un alto prezzo, ma talvolta un negozio vi
darà una copia senza farvela pagare. Questo non rende comunque
il software libero.” [45]
Ora,
invece, per fare quel passo decisivo nel mondo del marketing era
necessario ammorbidire i toni: non c’erano dubbi. Simili precisazioni
puramente teoriche da parte della FSF non erano sufficienti.[46]
Fu in questo frangente che però emerse nel modo più
palese l’integrità morale e la cocciuta coerenza di
Stallman, peculiarità a cui abbiamo già fatto cenno.
Nonostante gli inviti da parte di tutti i grandi personaggi che
stavano lavorando al progetto, egli fece mostra in tutte le occasioni
ufficiali (conferenze e ‘summit’) di non volerne nemmeno
parlare. Il concetto di libertà[47] era sacro ed intoccabile
e andava mantenuto con tutte le sue sfaccettature; sarebbe stato
il mondo degli affari a doversi adeguare e a trovare altre vie per
sensibilizzare i nuovi potenziali clienti/utenti. “Stallman
è in stallo” mi ricordo che recitava emblematicamente
il titolo di un articolo a firma di Simson Garfinkle[48], probabilmente
a segnalare come l’intransigenza dell’hacker per antonomasia
lo stesse effettivamente portando ad un progressivo isolamento.
9.
LA TEMUTA DIVISIONE. – Alcuni personaggi di rilievo che si
erano imbarcati in questo progetto, iniziarono a muoversi per predisporre
tutto affinché la nave arrivasse in porto eventualmente anche
senza il benestare di Stallman. I nomi che maggiormente destano
attenzione erano quelli di Tim O’Reilly, editore di manuali
informatici, e soprattutto Eric Raymond, attento osservatore della
cultura hacker e grande personalità all’interno della
comunità. Entrambi avevano da poco collaborato, assieme a
Linus Torvalds, al progetto di ‘liberazione del sorgente’
di Netscape Navigator, creando una famosissima licenza (la MPL,
Mozilla Public License) alternativa a quella redatta da Stallmann
per la distribuzione dei prodotti GNU (la GPL, General Public License).
La MPL era risultata più funzionale al caso Netscape (oltre
che epurata da componenti ideologiche) ed parsa subito ben accetta
alla comunità hacker mondiale. Sull’onda di questo
successo Raymond, O’Reilly e altri opinion leaders crearono
un gruppo di lavoro per riuscire ad escogitare la congeniale chiave
con cui presentarsi alle imprese e accedere così sul mercato.
L’avvento di Linux aveva rappresentato, d’altronde,
l’emersione di una nuova generazione di hacker, che ormai
erano cresciuti in un mondo in cui il software proprietario era
la normalità. Ciò comportava che essi non sentissero
il retaggio etico di coloro che avevano visto la scienza informatica
negli anni d’oro della totale libertà; a questi nuovi
hacker (che forse dovremmo chiamare più semplicemente ‘programmatori
indipendenti’) non premeva tanto l’aspetto ideologico
della libertà, quanto quello funzionale e pratico. In parole
povere, la massima libertà anche nelle scelte: libertà
anche di scegliere un software proprietario o un software libero
a seconda di ciò che più è congeniale, senza
dover rendere conto ai dettami di associazioni o guru più
o meno carismatici. Williams riporta un dibattito sull’uso
del programma PowerPoint di Microsoft che nel 1996 non aveva degni
concorrenti, quanto a praticità ed efficacia: “Parecchi
hacker Linux, compreso lo stesso Torvalds, erano cresciuti nel mondo
del software proprietario. A meno che un programma risultasse chiaramente
peggiore, la maggior parte di loro non vedeva alcun motivo per rifiutarlo
solo per il problema della licenza”.[49]
Ad ogni modo, la prima ‘scelta di campo’ di Raymond
e colleghi fu proprio coniare un termine che identificasse in modo
limpido, neutrale ed accattivante il tipo di prodotti che si offrivano.
Ci voleva qualcosa che sottolineasse, piuttosto che gli aspetti
etici e gestionali del software liberamente distribuito, le sue
caratteristiche tecniche più interessanti: ovvero, la malleabilità
e la specificità, che rendevano i programmi decisamente più
affidabili, meglio modificabili e personalizzabili e quindi più
efficienti ed economici. Michael Tiemann[50], uno del gruppo, propose
‘sourceware’, mettendo per primo l’accento sulla
centralità del codice sorgente. La proposta non convinse,
dunque Eric Raymond tirò fuori dal suo cilindro magico il
termine composto ‘open source’, che aveva già
usato informalmente e con segni di approvazione ad un recente congresso.
‘Open source’, ad un sguardo attento, mantiene in parte
una sfumatura di matrice etica, per il riferimento al concetto di
‘apertura’ (open) che appunto è col tempo uscito
dal suo senso puramente tecnico (‘aperto’ nel senso
di ‘codice disponibile e modificabile’), assumendo una
connotazione più ampia (‘aperto’ nel senso di
‘privo di vincoli’ tout court)[51].
Raymond nel ’98 propose inoltre la creazione di una organizzazione
che vigilasse sul corretto uso del termine ‘open source’
e coordinasse i vari progetti: la Open Source Initiative (OSI)[52].
In pratica, con un immagine matematica, la OSI sta al concetto di
‘open source’ come la FSF sta al concetto di ‘free
software’. Due distinte e rilevanti strutture organizzative
per progetti che nella maggior parte dei casi andavano verso la
stessa direzione.
Il canone dell’unità e della cooperazione poteva essere
ormai depennato dalla lista dei punti cardine dell’etica hacker.
Come reagì a tutto questo Stallman? Purtroppo accentuando
la sua inflessibilità e allargando così la crepa che
si era formata all’interno dell’edificio hacker. Nel
1998 aveva subito chiarito la sua posizione sul nuovo gergo emergente:
“open source, pur risultando utile nel comunicare i vantaggi
tecnici del software libero, al contempo finiva per allontanarsi
dalla questione della libertà nel software. Considerando
questo un aspetto negativo, egli avrebbe continuato a usare il termine
‘free software’.”[53] Intraprese perciò
una campagna di sensibilizzazione per invitare i colleghi hacker
a opporre resistenza alle “lusinghe dei facili compromessi”.
Fu purtroppo questo rigido approccio di Stallman ad innescare un
confronto ideologico che la OSI non aveva mai avuto intenzione di
innescare.[54]
10.
LA SITUAZIONE ATTUALE E LE PROSPETTIVE. – Ad ogni modo, con
questa altalenante frattura (un giorno più ampia, un giorno
più stretta), si è giunti alla situazione odierna,
dove il software libero o ‘open source’ come lo si voglia
chiamare ha raccolto una generale approvazione e ha dato veramente
un giro di vite al mercato del software. Oggi il sistema operativo
Linux (oppure Gnu/Linux?) è entrato con successo nelle case
di tutto il mondo; ovviamente non si può ancora dire che
abbia scalzato Windows di Microsoft nell’uso più comune;
Linux, d’altronde, è certamente più affidabile
e stabile del concorrente, ma risulta anche meno intuitivo e meno
indispensabile per l’utente medio, che non ha le grandi esigenze
di un network o di un impresa.
Tuttavia ormai le grandi compagnie di hardware o di software non
mettono più nulla sul mercato che non sia almeno compatibile
con Linux; e alcune (sempre più numerose) addirittura ne
incoraggiano l’uso, in previsione di una miglior gestione
dei servizi di manutenzione e aggiornamento. In generale, grazie
alla risonanza mediatica che proprio Linux ha generato, anche gli
utenti comuni (e non più solo i ‘professionisti’
del campo) cominciano a cogliere le peculiarità e i vantaggi
del software aperto e a capire che spesso, pur con le due diverse
definizioni, si tratta dello stesso concetto.
L’Opensource di Raymond ha finalmente fatto quel tanto atteso
passo nel mercato. Stallman, dal canto suo, sembra aver raccolto
i frutti della sua inattaccabile coerenza e, forse proprio grazie
ad essa, ha mantenuto la sua credibilità e il suo carisma.
Molto efficaci le parole che Williams scrive verso la conclusione
del cap. 11: “Può anche darsi che Stallman non possa
più considerarsi leader incontrastato del movimento software
libero, ma rimane comunque la calamita dell’intera comunità.”[54]
L’annosa “crociata per il software libero” se
non può dirsi del tutto vinta e conclusa, ha ormai all’attivo
una folta serie di trionfi; e ora il campo di battaglia si sta ampliando
a dismisura. Oggi infatti – come vedremo nel prossimo capitolo
– i principi etici-informatici di libertà, condivisione
e cooperazione che egli più di tutti ha saputo cristallizzare,
sono transitati con veemenza sulle altre sfere della creatività
e della comunicazione, comportando spesso un ribaltamento dei principi;
anche di quelli più assodati.
------------------------------------------
NOTE
AL CAPITOLO II
[3]-
Riporto una curiosa e interessante ricostruzione dell’etimologia
della radice “hack”, tratta da LEVY, ‘Hackers’,
1984, p. 23: “I membri anziani stavano al club per ore, discutendo
sul da farsi, sviluppando un gergo esclusivo, incomprensibile per
gli estranei: un progetto intrapreso o un prodotto costruito non
soltanto per adempiere a uno scopo specifico ma che portasse con
sé il piacere scatenato della pura partecipazione, era detto
'hack'. Quest'ultima parola proveniva dal vecchio gergo del MIT:
il termine 'hack' era stato a lungo usato per indicare gli scherzi
elaborati che gli studenti del MIT s'inventavano regolarmente".
Un impresa era definita vero hack se mostrava innovazione, stile
e virtuosismo tecnico. [...] I più produttivi si definivano,
con grande orgoglio, 'hacker'; tale citazione si trova anche in
RAGUSA, Sviluppo e ordinamento istituzionale nel mercato del software:
il modello del software libero, par. 1.1.1.; tesi di laurea, Università
Statale di Milano, 2002.
[4]- “[…]la programmazione per gli hacker è in
primo luogo gratificazione dell’ego e solo a volte diventa,
in aggiunta, leva di reddito. Allo stesso modo del canto o della
pittura per gli artisti”. Cfr. BASSI, Open Source - analisi
di un movimento, Apogeo, Milano, 2000; disponibile anche alla pagina
web http://www.apogeonline.com/ebook/90026/scheda.xhtml oppure alla
pagina web http://www.dvara.net/HK/open.asp; p. 36 (par. 2.2.).
[5]- Per una migliore e generale comprensione di queste questioni
etimologiche v. anche WILLIAMS, Codice libero - Richard Stallman
e la crociata per il software libero (trad. Bernardo Parrella),
Apogeo, Milano, 2003 (Appendice ‘B’).
[6]- Vedi per es. RAYMOND, Breve storia sugli hacker in AA.VV.,
Open Sources - Voci dalla rivoluzione open source, Apogeo, Milano,
1999.
[7]- Uno dei primi calcolatori a transistor è il Tx-0, comparso
nel 1959. E sempre nel 1959 ha inizio presso il MIT (Massachusetts
institute of technology dell’Università di Cambridge)
il primo corso di programmazione di computer.
[8]- Per una presentazione della genesi e dello sviluppo del software
Unix, vedi MCKUSICK, Vent’anni di Unix a Berkeley: dalla AT&T
alla ridistribuzione gratuita in AA.VV., Open Sources - Voci dalla
rivoluzione open source, Apogeo, Milano, 1999.
[9]- La divisione in tre generazioni di hacker è riportata
da Sabrina Ragusa nel cap. 1 della sua tesi.
[10]- Altri esempi di reti di connessione telematica erano già
stati sperimentati e adottati all’epoca, però erano
limitati ad una funzione di intelligence militare. ARPAnet invece
si avvicina di più ad Internet per il suo spirito di fondo,
ovvero la condivisione di informazioni.
Sabrina Ragusa fa una constatazione molto efficace quando, parlando
del contributo essenziale apportato dalla comunità hacker
alla realizzazione del progetto di connessione, dice: “La
rete […] nacque con l’etica hacker nel sangue”.
Cfr. RAGUSA, op. cit., par. 1.1.2.
[11]- E’ per questo che gli hacker di questa seconda generazione
sono detti “hacker dell’hardware”.
[12]- Cfr. RAGUSA, op. cit., par. 1.1.3.
[13]- Era dotato di un processore Intel 8088, di una memoria 16
K, di un lettore di cassette audio per memorizzare i dati (e non
di un disco rigido).
[14]- Sia Apple che IBM (fra le prime a mettere sul mercato i PC)
avrebbero infatti potuto cercare di brevettare la loro trovata industriale,
comportando uno stravolgimento della situazione.
[15]- La Ragusa parla addirittura di avversione totale per burocrazia
e formalismo (cfr. par. 2.2.).
[16]- Questo è il motivo per cui gran parte delle traduzioni
in Italiano si risolvono in tentativi piuttosto goffi che non rendono
giustizia al reale significato del termine.
[17]- Sui motivi e i risvolti della scelta di applicare le due diverse
tutele discorreremo approfonditamente nel cap. III.
[18]- Cfr. RAGUSA, op. cit., par. 1.1.3.
[19]- Riferendosi a quel sistema, Stallman dice nel suo saggio-manifesto:
“Una comunità cooperante era vietata. La regola creata
dai titolari di software proprietario era: ‘se condividi il
software con il tuo vicino, sei un pirata. Se vuoi modifiche, pregaci
di farle’.” Cfr. STALLMAN, Il progetto GNU, in AA.VV.,
Open Sources - Voci dalla rivoluzione open source, Apogeo, Milano,
1999.
[20]- v. infra, par. 1, note a pie’ di pagina.
[21]- E’ importante ricordare che per permettere tali interventi
sul software è necessario appunto distribuirne anche il codice
sorgente; ci si richiama dunque per la prima volta al concetto di
‘open source’ (in senso tecnico) descritto nel primo
capitolo.
[22]- Dice Stallman, parlando di Emacs: “Dato che lo condividevo,
era loro dovere condividere”. Cfr. RAGUSA, op.cit., par. 1.1.5.
[23]- Vedi a proposito RAYMOND, La vendetta degli hacker in AA.VV.,
Open Sources - Voci dalla rivoluzione open source, Apogeo, Milano,
1999.
[24]- Sul quale avremo modo di soffermarci dettagliatamente nei
prossimi capitoli.
[25]- Rispettivamente www.fsf.org , www.gnu.org , www.stallman.org
.
[26]- Il sito del Progetto GNU ha addirittura una sezione di contenuti
intitolata “materiale politico”.
[27]- La stessa etimologia di ‘software’ richiama l’idea
della elasticità e quindi, in un certo senso, anche della
modificabilità e adattabilità.
[28]- Su questi aspetti (solo all’apparenza marginali) della
personalità di Stallman vedi la ricostruzione biografica
compiuta da Sam Williams nel libro Free as in freedom, disponibile
in versione italiana: WILLIAMS, op. cit.
[29]- L’appellativo di “miracolo”, volutamente
iperbolico, sta a sottolineare però la portata di questa
nuova compagine che ha veramente rivoluzionato il mondo del software
negli ultimi anni. Di miracolo parla anche Eric S. Raymond nel suo
emblematico articolo La cattedrale e il bazar (par. 1) di cui più
avanti riportiamo un estratto.
[30]- Cfr. RAYMOND, Breve storia sugli hacker in AA.VV., op. cit.
(par. I primi free Unix).
[31]- Cfr. STALLMAN, Il progetto GNU, in AA.VV., op. cit. (par.
Linux e GNU/Linux).
[32]- A tal proposito vedi anche WILLIAMS, op. cit. (cap. 10 –
Gnu/Linux).
[33]- Cfr. RAYMOND, Breve storia sugli hacker in AA.VV., op. cit.
(par. I primi free Unix).
[34]- Cfr. RAYMOND, La cattedrale e il bazar (par. 1), 1998, disponibile
su http://www.apogeonline.com/openpress/doc/cathedral.html oppure
su http://www.dvara.net/HK/open.asp; un altro passo sempre tratto
dallo stesso paragrafo è il seguente: “Linux è
sovversivo. Chi avrebbe potuto pensare appena cinque anni fa che
un sistema operativo di livello mondiale sarebbe emerso come per
magia dal lavoro part-time di diverse migliaia di hacker e sviluppatori
sparsi sull'intero pianeta, collegati tra loro solo grazie ai tenui
cavi di Internet? […]. Linux stravolse gran parte di quel
che credevo di sapere. Per anni avevo predicato il vangelo Unix
degli strumenti agili, dei prototipi immediati e della programmazione
evolutiva. Ma ero anche convinto che esistesse un punto critico
di complessità al di sopra del quale si rendesse necessario
un approccio centralizzato e a priori. Credevo che il software più
importante […] andasse realizzato come le cattedrali, attentamente
lavorato a mano da singoli geni o piccole bande di maghi che lavoravano
in splendido isolamento […].”
[35]- WILLIAMS, op. cit. (cap. 11 – Open Source).
[36]- Per un approccio di tipo economico come questo, vedi: BASSI,
op. cit. (cap.3, pp. 61-87); DIDONÈ, Modelli di business
per il software libero (tesi di laurea); disponibile alla pagina
web http://superdido.com/luca/index-luca.html; MEO, Software libero
e open source, Mondo Digitale, 2002 (cap. 4, pp. 16-17); disponibile
anche su http://www.aiscris.it/open_source.php oppure su http://www.dvara.net/HK/open.asp;
RAGUSA, op. cit. (par. 3.5 e tutto il cap. 4); TIEMANN, Il futuro
della Cygnus Solutions - resoconto di un imprenditore in AA.VV.,
Open Sources (cit.); YOUNG, Regalato! Come Red Hat Software si trovò
fra le mani un nuovo modello economico e contribuì a migliorare
un’industria in AA.VV., Open Sources (cit.); BEHLENDORF, Open
Source come strategia commerciale in AA.VV., Open Sources (cit.).
[37]- Vedi per es. il par. intitolato Il supporto per il software
libero tratto dal già citato saggio di Stallman Il progetto
GNU, che appunto recita: “La filosofia del software libero
rigetta una diffusa pratica commerciale in particolare, ma non è
contro il commercio. Quando un’impresa rispetta la libertà
dell’utente, c’è da augurarle ogni successo.[…]
Quando la FSF prese in carico quest’attività, dovetti
cercare un’altra fonte di sostentamento. La trovai nella vendita
dei servizi relativi al software libero che avevo sviluppato. […]
Oggi tutte queste attività collegate al software libero sono
esercitate da svariate aziende.”
[38]- Di Linux, per esempio, esistono in commercio varie versioni,
dette ‘distribuzioni’ proprio perché derivano
la loro diversità dal gruppo di lavoro o dall’azienda
che ne ha assemblato e modellato le funzionalità e che ne
ha distribuito la versione così ottenuta. Oppure è
possibile scaricare diverse versioni dell’intero sistema operativo
o solo di alcune componenti dai vari siti che si occupano della
diffusione di Linux.
[39]- Un po’ il corrispondente del lavoro di assemblaggio
su commissione che si fa ormai regolarmente in ambito hardware con
le componenti del PC.
[40]- PERENS, The Open Source Definition, in AA.VV., Open Sources
(cit.), introduzione.
[41]- All’uopo venne redatta un’apposita licenza (la
Mozilla Public License), di cui parleremo più avanti.
[42]- Per una descrizione dettagliata del concetto di ‘software
libero’, vedi i saggi Il manifesto GNU (scritto nel 1984)
e La definizione di software libero (scritto nel 1996) entrambi
raccolti in STALLMAN, Software libero, pensiero libero: saggi scelti
di Richard Stallman, Stampa Alternativa, 2003 (disponibile anche
alla pagina web http://internet.cybermesa.com/~berny/free.html ).
[43]- A tal proposito vedi BASSI, op. cit., (par. 1.5., p. 21):
“La causa del Free Software sostenuta da Stallman e dalla
FSF non ha incontrato i favori della maggior parte (quasi tutte)
delle compagnie produttrici di software proprietario. Il motivo
è da ricercarsi nella matrice ideologica del movimento. La
FSF patrocina il Free Software per sancire la prevalenza del diritto
della libertà di utilizzare, modificare, distribuire ciò
che è un prodotto dell’ingegno, sul diritto di proprietà
dell’autore del medesimo. Tale posizione è stata tacciata,
siamo in America, di ‘comunismo’, ‘anarchia’
e anche di istigazione alla ‘pirateria’ dai sostenitori
del diritto di proprietà sul software.”
[44]- In modo simile si esprime STALLMAN, Vendere software libero
(scritto nel 1996) in Software libero, pensiero libero (cit.): “Il
termine ‘free’ ha due legittimi significati comuni;
può riferirsi sia alla libertà che al prezzo. Quando
parliamo di ‘free software’, parliamo di libertà,
non di prezzo. Ci si rammenti di considerare ‘free’
come in ‘free speech’ (libertà di parola) anziché
in ‘free beer’ (birra gratis). In particolare, significa
che l'utente è libero di eseguire il programma, modificarlo,
e ridistribuirlo con o senza modifiche.” Lo stesso concetto
ritrova poi nel preambolo della licenza GNU GPL: “Quando si
parla di software libero, ci si riferisce alla libertà non
al prezzo.” (cfr. il testo integrale della licenza).
[45]- Tratto da STALLMAN, Vendere software libero (cit.); il passo
procede ribadendo più avanti che “ridistribuire il
software libero è una attività buona e legale; se
la fate, potete anche trarne profitto”
[46]- Vedi a tal proposito WILLIAMS, op. cit. (cap. 11 – Open
Source): “Nonostante tutti gli sforzi da parte di Stallman
[…] per spiegare alla gente che la parola “free”
in “free software” andava intesa come sinonimo di “libero”
non di “gratuito”, il messaggio stentava a passare.
Gran parte dei dirigenti di società […] lo interpretava
come sinonimo di “a costo zero”, lasciando così
cadere ogni possibile iniziativa.”
[47]- Vedi a tal proposito il par. Paura della libertà del
saggio di STALLMAN, La definizione di software libero (cit.).
[48]- L’articolo è riportato in versione italiana in
VALVOLA SCELSI, No copyright - nuovi diritti nel 2000, Shake Underground,
Milano, 1994, p. 154.
[49]- Cfr. WILLIAMS, op. cit. (cap. 11 – Open Source).
[50]- Autore de Il futuro della Cygnus Solutions - resoconto di
un imprenditore in AA.VV., op. cit.
[51]- Ne è prova il fatto che gran parte dei progetti di
libera diffusione della conoscenze (informatiche e non) ama usare
l’aggettivo ‘open’: per es. OpenPress, OpenMusic,
OpenScience, OpenLabs.
[52]- Ne vedremo più avanti il ruolo con maggior precisione.
[53]- Cfr. WILLIAMS, op. cit. (cap. 11 – Open Source).
[54]- Per comprendere al meglio le critiche avanzate da Stallman
al progetto OSI, si veda STALLMAN, Perchè “software
libero” è da preferire a “open source”,
in Software libero, pensiero libero (cit.).
[55]- Cfr. WILLIAMS, op. cit. (cap. 11 – Open Source).
|