CAPITOLO I
INTRODUZIONE

PRESENTAZIONE. – Il testo che vado a presentare rappresenta la mia prima ufficiale pubblicazione di tipo scientifico. Si tratta della rivisitazione (in forma meno didattica) della mia tesi di laurea discussa presso la Facoltà di Giurisprudenza di Pavia il 17 dicembre del 2003: il suo titolo originale era “Open source e opere non software” così come suggeritomi dal mio relatore Professor Luigi Carlo Ubertazzi (docente ordinario di Diritto Industriale, nonché illustre avvocato e direttore della rivista giuridica AIDA).
L’intento accademico di questa tesi era appunto quello di studiare e verificare le implicazioni principalmente giuridiche della nuova filosofia di applicazione del diritto d’autore generata dal movimento per il software libero (o, per chi preferisce, open source) e negli ultimi anni trasmessa agli altri ambiti della creatività. Si doveva dunque compiere una chiara presentazione del fenomeno nel suo ambito d’origine, ovvero l’informatica, e poi esaminare (forse in certi casi, solo ipotizzare) in quali termini tali principi innovativi di proprietà intellettuale si potessero innestare negli altri principali campi della creatività. Ovviamente, come già fatto notare, l’ottica sotto cui tale analisi è stata compiuta è principalmente giuridica ma non ho voluto tralasciare alcuni aspetti di tipo storico, sociologico ed economico, dei quali si trovano numerose tracce, anche nelle annotazioni di tipo bibliografico.
La struttura di questo saggio ha seguito un ordine piuttosto logico e tradizionale: questo primo capitolo (oltre a contenere questa presentazione) delinea i concetti basilari utili a capire il linguaggio di tutto l’opera; il secondo capitolo descrive la dinamica storica e le radici ideologiche del fenomeno, dalle origini della scienza informatica fino ai giorni nostri; il terzo capitolo inizia ad entrare nel merito dell’analisi giuridica del fenomeno limitata all’ambito informatico, ovvero alla tutela dell’opera software; il quarto capitolo considera le nuove istanze del mondo delle comunicazioni e della creatività, facendo da trait d’union fra l’analisi in ambito informatico e quella negli altri ambiti (l’editoria multimediale, la musica digitale, l’iterconnessione telematica); il quinto capitolo (forse il più descrittivo) rappresenta un’ampia carrellata esemplificativa dei principali progetti ad oggi conosciuti in fatto di filosofia opensource e opere non software; infine il sesto capitolo cerca di tirare le fila di questa presentazione, chiudendo il cerchio della riflessione giuridica e prospettandone potenziali sviluppi.
Quest’opera non può però esser considerata completa senza la sua originaria ‘Appendice’ che però non è stato possibile (per questioni di spazio) accorpare alla prima versione cartacea (che è stata stampata con procedimenti non tipografici e on un budget limitato). Si consiglia dunque a chi volesse comprendere al meglio il significato delle parti più tecniche di procurarsi per via telematica il file contenente tutti i documenti rilevanti, fra i quali si annoverano tutte le licenze qui citate e i testi ad esse connessi, con tanto di traduzioni in italiano effettuate ad hoc; e di completare la conoscenza del fenomeno leggendo le altre opere che se ne occupano sotto ottiche differenti (economiche, informatiche, sociologiche). Tutte le informazioni utili per questi percorsi bibliografici (compresi i dati per reperire l’appendice) si trovano alla fine del testo.
Quest’opera (come si deduce dal suo frontespizio) è distribuita sotto la disciplina di una licenza opencontent che ne permette la sua più ampia e libera diffusione, anche per scopi commerciali: ciò per coerenza con l’apparato di principi di cui mi sono fatto portavoce in questo mio primo lavoro di ricerca. Tuttavia non ho ritenuto opportuno consentirne la libera modifica per il fatto che non si tratta di un testo prettamente tecnico-scientifico e che gran parte delle deduzioni compiute rispecchiano una visuale soggettiva e sono frutto di mia personale riflessione. Ciò non significa che non siano bene accette proposte di arricchimento o aggiornamento dell’opera, le quali verranno da me sempre prese in seria considerazione per un’eventuale inserimento nell’opera. Le proposte di modifiche o di aggiunte di testo, qualora reputate utili, verranno inserite nelle versioni successive dell’opera con la citazione dei rispettivi autori, i quali dovranno però consentire la distribuzione dei loro contributi in un regime di copyleft identico a quello applicato all’intera opera.
Prima di augurarvi una buona lettura, mi sento in dovere di ringraziare coloro che hanno concretamente collaborato alla realizzazione dell’opera, fra cui primo fra tutti il dott. Giuseppe Sanseverino che ha seguito in ambito accademico la realizzazione della mia tesi e dal quale ho attinto molti degli spunti di tipo giuridico di questa mia ricerca; per le consulenze in fato di traduzioni dei documenti (vedi Appendice) ringrazio invece mia mamma e Veronica Valentini.

Simone Aliprandi (gennaio 2004)



IL CONCETTO DI OPENSOURCE. – Il termine composto “Open Source” deriva (pur indirettamente[1]) dal mondo della programmazione informatica e sta ad indicare alcune caratteristiche tecniche del software: è quindi un concetto che necessita alcune conoscenze tecniche sui processi di progettazione dei programmi per calcolatore. Cercherò di fornire una basilare infarinatura per i più profani, consapevole del rischio di incorrere in goffaggini espressive agli occhi di un eventuale lettore tecnicamente esperto.
- IN SENSO PIÙ TECNICO. Soffermandoci dapprima sul senso più tecnico dell’espressione, bisogna spiegare innanzitutto una cosa: un programma non è altro che un insieme di istruzioni per far sì che il computer svolga determinate funzioni. Il computer “ragiona” in un sistema binario in cui ogni informazione deve essere codificata in una serie composta da sole due cifre: lo zero e l’uno. A seconda di come 0 e 1 vengono disposti e raggruppati abbiamo dei dati che possono essere riconosciuti ed elaborati dalla macchina.
La scienza informatica ha però creato diversi linguaggi che permettono di dialogare con la macchina senza dover inserire direttamente sfilze indeterminate e disorientanti di 0 e di 1. Perciò il programmatore scrive il programma in uno di questi linguaggi, dopo di che un altro programma (chiamato compilatore) trasformerà automaticamente durante l’istallazione le istruzioni in linguaggio binario rendendole così assimilabili da parte del computer. Nel gergo informatico si usa chiamare – per ragioni ora facilmente intuibili – il codice binario “codice oggetto”, mentre il codice con cui è stato sviluppato il software “codice sorgente”, il quale è comprensibile e modificabile a qualunque programmatore che conosca il determinato linguaggio informatico usato.
‘Sorgente’ in Inglese (la lingua madre dell’informatica) si traduce ‘source’ e sottintende in un'unica parola il sostantivo ‘codice’: è per questo che, per trasposizione, nel gergo corrente italiano è più facile trovare ‘il sorgente’, unendo un articolo maschile con un sostantivo femminile. Ai puristi della lingua di Dante e Manzoni può sembrare un obbrobrio; ma dobbiamo ricordarci che ogni volta che leggiamo ‘il sorgente’ dobbiamo intendere ‘il codice sorgente’. La traduzione letterale di ‘open source’ diviene dunque ‘sorgente aperto’ (e non ‘sorgente aperta’). L’aggettivo ‘open’ sta a significare che il codice sorgente rimane accessibile a chiunque voglia intervenire sul programma, correggerne gli errori (detti in gergo ‘bug’) sorti durante la sua stesura, aggiornarlo, perfezionare le sue funzioni, oppure semplicemente studiarne i meccanismi e prendere spunto per altri programmi.
Come vedremo più avanti, la scelta di lasciare accessibile il sorgente era la prassi nei primi anni di vita della nuova scienza informatica; la tendenza man mano s’invertì quando le imprese produttrici di software iniziarono a irrigidire il sistema inserendo dei meccanismi di crittazione per i quali è invece molto difficile o impossibile intervenire sul programma. Tutto ciò ovviamente con lo scopo di massimizzare lo sfruttamento economico e facendo leva sulle tutele proprie del diritto d’autore e sui relativi diritti esclusivi.
- IN SENSO PIÙ AMPIO. Passando ora ad ‘open source’ in senso più ampio, per quanto riguarda il nostro ambito (meno tecnico e più – per così dire – antropologico) non è necessario un simile rigore; anzi, come vedremo più avanti, può risultare addirittura fuorviante. Per un approccio di tipo giuridico (idem per approcci di tipo economico o sociologico) è più congeniale usare la locuzione ‘open source’ per individuare un fenomeno, una filosofia, un movimento culturale. Appunto, un movimento basato sui principi (e sull’orgoglio) di coloro che potremmo chiamare i programmatori di prima generazione (gli indipendenti, gli hacker) e nato come reazione a quella tendenza ormai costante ad iper-tutelare le creazioni informatiche.
Nei prossimi capitoli illustrerò l’evoluzione e il fondamento di questi principi. Per ora però mi preme appunto sottolineare ai lettori che in quest’opera userò il termine ‘open source’ in senso ampio e a volte quasi decontestualizzato dalla sua matrice strettamente tecnica. Userò ‘Opensource’ (tutto attaccato e con la lettera maiuscola) per indicare appunto una rivoluzionaria filosofia di gestione e diffusione del software, pur consapevole che gran parte dei principi etici e giuridici su cui mi soffermerò saranno figli di diversi movimenti culturali, talvolta piuttosto lontani dal concetto convenzionale di ‘open source’[2].

 

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NOTE AL CAPITOLO I

[1]- La scelta dell’espressione tecnica ‘open source’ (fra le tante che potevano identificare il fenomeno) venne in realtà fatta a tavolino con intenti anche propagandistici, come si mostrerà più avanti.
[2]- Mi riferisco alle divergenze, più che altro ideologiche, che intercorrono fra i fedelissimi del concetto di free software e i fautori del concetto di software open source. Parleremo a suo luogo della dinamica storica di questa divisione.