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La figura del Commissario

Si può trovare una chiara traccia di questo spostamento di interessi nella stessa struttura interna dell'amministrazione. Il contado di Vigevano era costituito, alla sua base, da una congregazione generale di undici rappresentanti che eleggevano come consiglio esecutivo una giunta di quattro deputati. A questi si aggiungevano il sindaco, il cancelliere e almeno un paio di procuratori, uno dei quali di stanza a Vigevano e l'altro a Milano. Compito precipuo di questi ultimi era di rappresentare il contado nelle ``liti'' presso gli organismi cittadini, Vigevano e soprattutto Milano. Due caratteristiche della rappresentanza furono costanti nel corso del secolo: il dominio della professione notarile nelle figure chiave, cioè il sindaco, talora i procuratori e il cancelliere (carica di appannaggio dei Cassini di Gambolò, prima Giovanni Antonio poi a partire dagli anni Cinquanta Giovanni Stefano), e la lunga durata delle cariche, che di fatto s'interrrompevano solo con la morte o a causa di gravi impedimenti1.51.

Se nel periodo delle ``origini'', tuttavia, la figura del sindaco era quella di gran lunga dominante, a causa del successivo spostamento di fuoco dalla rappresentanza degli interessi alla riscossione, se ne aggiunse un'altra altrettanto decisiva, quella del commissario. Se finanziariamente, nel Seicento, il sindaco aveva ampi poteri nel maneggio del denaro, non gestiva però la riscossione, che con i connessi pagamenti veniva delegata in toto al commissario, una figura esterna alla rappresentanza, e dotata di precise caratteristiche: capacità finanziaria, possibilità di dare «sigurtà» (mallevadoria, cioè garanzie di copertura) e di dotare di «scorte» in denaro il contado per anticipi di pagamenti, nonché, sempre più, di essere in grado di mobilitare un apparato quasi-militare per la riscossione. L'incarico dell' ``esattoria'' veniva incantato e affidato, in genere, per un biennio o per un triennio (questi sì effettivi), periodo durante il quale il commissario doveva «scodere» le terre secondo le disposizioni ricevute dal sindaco e, quindi, provvedere ai pagamenti. Si veniva a formare, così, una vera e propria ``diarchia'', con da una parte la gestione del sindaco dei rapporti politici e dall'altra la finanza demandata invece al commissario. In sostanza, erano queste due figure ad avere il controllo dello «scosso», e cioè a poter disporre materialmente del denaro1.52.

L'importanza del sindaco stava soprattutto nel fatto che era egli a gestire pressoché da solo il rapporto col Centro1.53. Le terre, infatti, non avevano la possibilità pratica di discutere del debito, dato che ciò avrebbe richiesto la presenza di rappresentanti delle comunità a Milano. Di queste, sappiamo che nel Vigevanasco solo Gambolò (la cui linea «politica», peraltro, era solidale con quella del sindaco) mandava abbastanza regolarmente propri rappresentanti a Milano1.54. L'autonomia del sindaco era legata al rispetto di due soli vincoli: raccogliere le somme richieste dal Centro secondo la quota assegnata al contado; e rispettare il sistema di «riparto» fra le comunità (nel Vigevanasco per lire d'estimo).

Significativi risultano in proposito i verbali della congregazione generale relativi all'elezione del nuovo sindaco, nel 1674, dopo oltre trentacinque anni di governo da parte del Custodi1.55. Le norme per l'elezione prescrivevano che il sindaco non avesse interessi con la città o il contado (con il che si escludevano candidati autoctoni); che non fosse soldato, prete o esente, e che non svolgesse già altri incarichi per conto del contado, norme che si rivelarono puramente teoriche, tanto che fra quattro candidati più o meno in possesso di queste caratteristiche si scelse proprio il Renolio che era esente per i «dodici figliuoli»1.56. Alla fine si escludeva Claudio Reghino avvocato, causidico e senatore, ed esperto «nella materia de' carichi, che è la più essentiale da sapersi da un sindaco» per scegliere «alle balle secrete», invece, Gio. Batta Renolio, in procura a Milano per più di vent'anni ed esente per i dodici figliuoli, contravvenendo così esplicitamente alle norme, aggirate con la formale rinuncia del Renolio all'esenzione1.57. Un criterio di scelta che ben evidenzia come si preferisse un uomo già attivamente impegnato col contado, ed esente (quindi con proprietà nella zona) piuttosto che un altro, più qualificato presso il Centro ma ``disinteressato''.

Parallelamente a questa linea di evoluzione del sindacato, cresceva sempre più d'importanza la figura del commissario. Vista la delicatezza del compito, ed essendo legato di volta in volta alla ``scossa'' di una cifra ben precisa, l'incanto dell'incarico veniva qui assegnato di biennio in biennio, o talora triennalmente, a seconda dei tempi a disposizione1.58.

I compiti del commissario si riferivano al complesso dell'esazione fiscale, ed erano cresciuti in parallelo all'aumentare di questa. A metà Seicento il commissario era «tenuto scuotere le imposte che annualmente gli saranno date d'ordine dei deputati di detto contado, overo dal sindaco d'esso, cioè tasse ordinarie, e dupplicate, censo del sale, et suo augmento, tasso di cavallaria, dodeci reali, presidij, et qualsivoglia altra tassa straordinaria»1.59.

Oltre a ciò, il commissario doveva riscuotere varie altre ``gravezze'' che, sommate a queste, componevano la complicata struttura fiscale d'imposizione intermedia. Innanzitutto, gli interessi derivanti dai censi accesi «per sostenimento dell'esercito nelle passate guerre», che su un debito capitale di 140.000 lire al 2% annuo circa imponevano, nel 1680, un esborso annuale di 2.883 lire1.60. Si trattava in ogni caso di una cifra irrisoria rispetto ai debiti consolidati delle comunità: si pensi che alla stessa data la sola Gambolò totalizzava un debito pari a più del doppio di quello del contado1.61. Si dovrebbe indagare, con maggior profondità di quanto fatto sinora, le ragioni di un ricorso comunque limitato al censo da parte degli enti intermedi. Una delle ragioni pare fosse l'assenza, da parte del contado, di beni propri sui quali accendere censi. Ci si trovava quindi di fronte all'impossibilità di ricevere prestiti dietro garanzia. Questo motivo sfumò però sempre più a partire dagli anni Trenta e Quaranta, quando anche a livello delle comunità i beni comunali non bastavano più a coprire l'entità del debito e l'unica garanzia di fatto rimaneva nel diritto da parte dei creditori di condurre «essecutioni» reali e soprattutto personali «in solidum» con la stessa ampiezza di poteri della Regia Camera (prerogativa che il Magistrato Ordinario, al fine di affrettare la riscossione, si premurava di fornire).

Come emerge dalla documentazione, fino al termine degli anni Venti i censi del contado erano piuttosto ridotti1.62. Il momento di ``rottura'' è databile al 1626, quando si decide di istituire «nuovi carichi, o redditi perpetui sopra l'estimo reale, et personale, civile et rurale in dettto contado»1.63: non essendo però l'estimo un bene stabile, non vi era in sostanza garanzia reale ma solo un diritto sulla riscossione futura del commissario.

Nel 1680 i censi erano:

Tabella 1.3: Censi del contado nel 1680 in lire; ducatoni quando indicato
Censuario Capitale Interesse
Galeazzo zio e Cesare Visconti 6.000 ducatoni 900 lire
Maddalena Ponti Gravalona 5.600 112
Laura Zocca e Rosa Rodolfa Masera 2.400 48
Francesco Bernardino Lucini 6.933 : 7 : 5 138 : 12
Eredi Gio. Antonio Zucca 5.651 : 2 : 4 113
Eredi Gio. Stefano Terzago 3.268 : 8 65 : 7 : 9
Francesco Pavia 906 : 18 : 7 18 : 2 : 9
Eredi Francesco Maria Seregno 6.000 120
Reverendi Mansionarij di Como 12.250 245
Eredi Elena Ferrari Torniella 6.000 ducatoni 900 lire
Eredi Gio. Batta Fossati 1.200 24
Eredi Camillo Bagliotti 10.000 80 + 120 al cessionario
Totale 144.209: 16 2.884

Si trattava, come si può vedere, di un numero limitato di censi, la maggior parte dei quali, però, decisamente consistente. Il frazionamento era ridotto al minimo, contrariamente che nelle comunità. In sostanza, investivano nel contado solo personaggi che erano sicuri di poter tornare in possesso del prestito grazie ai metodi della riscossione forzata; lo stesso sindaco si rivolgeva di volta in volta a prestatori che fossero in grado di coprire i buchi dell'ultimo minuto, a causa di improvvise richieste del Centro o di ``essecutioni'' soprastanti. Elementi, questi, che portavano lontano da una politica di piccoli prestiti.

Alcuni di questi censi accesi verso personaggi facoltosi e pieni di risorse si erano del resto rivelati un pessimo affare per il contado. Fra questi soprattutto il debito di 6.000 ducatoni (ben 45.000 lire1.64) contratto il 27 agosto del 1627 verso Cesare Visconti, «patto molto iniquo, qual non si doveva concedere»1.65. Il censo, ancora attivo nel 1680, rientrava a pieno titolo nella categoria di ``passivo cronico'' che, col pesante interesse del 7,5% a lungo protratto, aveva fiaccato le casse del contado,soprattutto in considerazione della progressiva svalutazione del costo della terra, come ben sottolineava il relatore dell ``Informatione'' al Pertusati del 16801.66. La discussione rientrava in pieno nelle polemiche sorte in tutte le plaghe dello Stato per la perdita di valore dei terreni e in particolar modo dei beni comunali, a causa del protratto stato di guerra e dell'indebitamento. Si era creata una vera e propria proliferazione di beni comunali a partire dagli anni Quaranta, con l'invasione dei francesi, e con le ultime pesanti recrudescenze della guerra dei trent'anni a fine anni Cinquanta. La spopolazione e l'abbandono di terre che ne era seguito aveva fatto sì che i beni ormai depauperati tornassero alle comunità, le quali si ritrovavano il problema di come gestire tali «beni derelitti»1.67.

Alcune disposizioni degli anni Cinquanta, d'altro canto, dopo che la provincia «era già da molti anni priva di comissario», prescrivevano che sia i ``censualisti'' come «gli assignatarij della Regia Camera», cioè i reddituari della mezza per cento, non avessero diritto di pretendere contanti per un quarto degli interessi, ma fossero costretti a «ricevere dal Commissario [...] tante terre debitrici ad elletione di detto Commissario», cioè le «terre derelitte», e gravate di debiti, tornate in possesso delle comunità1.68. Lo stesso Commissario non era poi obbligato al pagamento in Regia Camera per un quarto dei carichi. Anche così, il massimo che si era potuto trovare a metà anni Cinquanta era un Commissario disposto a ``scodere'' unicamente con la concessione che solo metà dell'imposta fosse coperta col capitolo «a suo rischio e pericolo», mentre l'altra metà dovesse spettare alla provincia. Col capitolo «a suo rischio e pericolo» si riteneva il commissario responsabile per l'imposta che essa fosse «scossa o non scossa»; un principio che comportava regolarmente problemi dato che il commissario finiva per prendere misure straordinarie (esecuzioni e alloggiamenti di soldati) per riscuotere1.69.


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2005-06-27