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Welcome
to Israel
di Wu Ming 4
Atene, UE, 4 aprile 2002, h. 0.01
La Grecia è in Europa. Paese membro
dell’Unione Europea, intendo. Forse già un po’
meno europeo degli altri: all’aeroporto di Atene ti lasciano
fumare anche se è proibito.
Mi aggiro nel cuore della notte tra freeshop chiusi, luci sparate
a giorno, tensiostrutture da architetto strapagato. Gli aeroporti
sono tutti uguali.
- Devo aver contratto la sindrome di Genova - dice Vittorio
Agnoletto col fiato corto e l’aria preoccupata - non riesco
a parlare cinque minuti che mi viene una tosse secca fastidiosissima.
Sono i lacrimogeni... chissà che merda c’era dentro.
Devo fare assolutamente delle analisi.
Me li ricordo i lacrimogeni di Genova, due in particolare: quelli
che un solerte carabiniere mi ha infilato tra i piedi da sotto
lo scudo di plexiglass che reggevo. Asfissia è la parola
giusta. Ero in via Tolemaide. Quasi un nome biblico.
Noi altri fumiamo per allentare la preoccupazione. Parliamo
fitto, io, Guido del Corto Circuito e Anubi. Anubi è
il suo nome anagrafico, non un soprannome. E’ nato nel
1970, tempi di fascinazioni esotiche, tempi di genitori giovani
e freakettoni. Noi parliamo, Agnoletto cammina per l’aeroporto
deserto, attaccato al cellulare.
- I compagni hanno telefonato da Gerusalemme: il nostro arrivo
è annunciato sui giornali.
- Bisognerà improvvisare qualcosa.
- Non ci faranno mai passare.
- La guerra come va?
- A Nablus i palestinesi sono riusciti a organizzare la resistenza
armata. Hanno fermato i tank. Betlemme è in fiamme. I
giornalisti sono usciti dalla chiesa, i francescani fanno da
intermediari. Gli italiani di Indymedia restano chiusi a Dehijeh,
ma c’è il progetto di creare un ponte umanitario
per farli uscire. Hanno posto delle condizioni, ma non tutti
sono d’accordo a venire via. Si stanno scazzando tra loro.
Anubi, da buon giornalista, è un bollettino in presa
diretta. Ha scovato una postazione Internet e non la molla.
Ogni mezz’ora un aggiornamento. E qui il tempo non manca.
- Il nostro programma?
- Dovremmo fare una conferenza stampa e incontrare i pacifisti
israeliani a Gerusalemme. Poi spostarci subito a Ramallah.
- Notizie da là?
- Ci aspettano. Quelli a cui dovremmo dare il cambio vengono
via domani. Dovremmo incrociarli all’aeroporto. Loro all’imbarco,
noi alla frontiera.
- Non ci faranno mai passare.
- Almeno i parlamentari sì.
Passo in rassegna i "nostri" parlamentari. Pagliarulo
dei Comunisti Italiani. Sui cinquanta, pelato, occhiali, cravatta,
aria distinta, accento meridionale. Non parla una parola d’inglese.
Martone dei Verdi. Giovane, occhiali, buon inglese, giacca a
vento. Luana Zanella. Caschetto biondo, sorriso simpatico, valigia
con le rotelle, scarpe col tacco, battuta pronta.
Il resto della delegazione sonnecchia o beve caffè al
bar. C’è Luciano Nadalini, storico fotografo bolognese.
Mi conosce da quando sono nato o giù di lì. Valerio
"Ciano" Monteventi. Consigliere comunale bolognese,
stazza da rugbysta, campione di retrospettive sul ’77.
Anche lui mi conosce da quando giocavo col pongo. Amici del
vecchio genitore, che oggi prende il sole a Cuba. Beato lui.
Egidio: trascorsi da anni settanta e una faccia che non dimentichi.
Poi Giangi. Era appena sceso dalla nave a Palau quando gli ho
annunciato che volevo raggiungere i compagni in Palestina. Ha
girato la macchina e il traghetto ed è tornato indietro
per venire con me.
Quattro compagni di Roma, insieme a Guido. Due della Cgil di
Trento. Marco Revelli, intellettuale senza bisogno di presentazioni,
cana blanca, baffi e sorriso inossidabili, sulla sessantina.
Agnoletto continua a parlare al telefono, non si ferma mai.
Incredibile che in un uomo così piccolo si concentri
tanta energia.
Guido Lutrario, uno dei portavoce del centro sociale Corto Circuito
di Roma. Fa il maestro elementare. Dice che se ci espellono
potrà almeno andare a prendere sua figlia a scuola, oggi
pomeriggio.
Anubi D’Avossa Lussurgiu. Che cazzo di nome. Impermeabile
di pelle nera e occhiali da sole cangianti. Che cazzo di abbigliamento.
Guardo tutti. Ne manca uno solo. Mi specchio in una vetrata.
Eccolo qua: lo scrittore.
Non ci faranno mai passare.
Tel Aviv, Israele, 4 aprile ’02, h. 4.15
Gli aeroporti sono tutti uguali. Stesse luci
a giorno. Stesse strutture. Stessi gabbiotti per il controllo
passaporti. La prima persona che vedo quando entro è
Giovanni De Rose, presidente dell’Arci Emilia-Romagna.
Faccio per salutarlo, ma mi fa un gesto impercettibile con la
mano. Poi mi accorgo dello sbirro enorme che lo sta accompagnando.
Faccio finta di niente e avverto gli altri. Lo portano in un
ufficio sulla destra. Ci sono altri italiani. Un paio li riconosco:
Claudio “Scarface” Sabbatini (ricordo una foto appesa
nella stanza di suo figlio: lui e Arafat che si abbracciano)
e Luciana Castellina. Sono una decina. La prima delegazione,
quella arrivata un’ora fa con il primo aereo.
Ci mettiamo in fila per il controllo passaporti. C’è
una ragazza dietro il vetro. Per la verità la maggior
parte degli sbirri in vista sono donne.
Le nostre risposte, in un inglese approssimato, la fanno sogghignare.
- E’ la prima volta che vieni in Israele?
- Sì.
- Dove vuoi andare?
- A Gerusalemme.
- Credevo volessi andare a Ramallah.
- No. A Gerusalemme.
- Ah sì? E che attività svolgi?
- Volontariato sociale.
- Certo, certo, come no... E perché vieni proprio in
Israele?
- Per partecipare a un progetto di pace al seguito dei nostri
parlamentari.
- Certo, certo. Accomodati pure in ufficio.
Io mi metto in fila per ultimo. Ho il tempo di guardarla a lungo.
Venticinque anni, brufoli in faccia, tono strafottente. Glieli
leggo negli occhi i pensieri. Eccoli qua gli amici di Arafat,
i fiancheggiatori dei terroristi. Comitiva di straccioni che
pensano di venire a fare i loro comodi nel nostro paese.
- Perché vieni in Israele?
- Accompagno i nostri parlamentari che sono qui per un progetto
di pace.
Sbuffa annoiata. Raccoglie tutti i passaporti e dice: - Per
accompagnarli a casa.
Quando raggiungo gli altri mi dicono che la prima delegazione
è stata già accompagnata al controllo bagagli.
Nadalini telefona a De Rose.
- Ci stanno espellendo. Ci hanno già perquisito le valigie
e ci hanno attaccato l’adesivo per il prossimo volo su
Linate. Hanno fatto passare soltanto i parlamentari.
Meglio che niente. Quelli a Ramallah devono arrivarci a tutti
i costi.
- Voi cosa pensate di fare?
- Cercheremo di convincerli.
Il tempo passa. Più volte i parlamentari chiedono spiegazioni
sul nostro fermo, ma i poliziotti non danno risposte. Le poliziotte
sono tutte giovani. Luciano si accorge che le sto guardando.
- Hai notato che sono tutte dei cessi? Hanno tutte dei culi
enormi. Come le nostre vigilesse.
Sorridiamo.
- E tutta ‘sta gente chi sarà?
In effetti nell’aeroporto continuano ad arrivare centinaia
di persone. Appena scese dagli aerei, si incolonnano ai gabbiotti
riservati ai cittadini israeliani. Non ho mai visto una raffica
di arrivi come questa, a quest’ora di notte, in un aeroporto.
In un paese in guerra, poi.
Un sospetto. I nostri sguardi si incrociano.
Un paese in guerra.
Un brivido ci percorre la schiena, mentre li osserviamo ammassarsi
e passare in fretta.
Riservisti.
Cittadini israeliani residenti all’estero che tornano
per essere arruolati. Magari con voli speciali. Sharon ne ha
richiamati già 40.000.
Li guardo e quasi non ci credo. Sono padri di famiglia, giovani
in tenuta da mare che tornano dalle vacanze, ragazze in canottiera.
Gente normale. Borghesi che rientrano dalle ferie, ma che domattina
non andranno in ufficio. Indosseranno una tuta mimetica e imbracceranno
un M16. Guideranno un carro armato. Forse ammazzeranno qualcuno.
Deglutisco a fatica. Il brivido non mi abbandona più.
Insieme a noi aspettano altri italiani. Sono dei Beati Costruttori
di Pace. Ci dicono che sono fermi qui da dodici ore. Li stanno
espellendo.
Mi avvicino a quattro tizi con pance e baffi uguali. Sono greci.
Medici Senza Frontiere.
- Venivamo qui per dare una mano. Per assistere i feriti. Ma
non ci vogliono. - dice il più giovane.
Una sbirra esce dall’ufficio e ci chiede di seguire il
collega che ha i nostri passaporti al controllo bagagli.
Agnoletto protesta, chiede perché siamo stati fermati.
Il "collega" è due metri per un quintale e
dieci di peso.
- Noi siamo la polizia. Quello che diciamo, tu lo devi fare.
Qui funziona così.
- Anche in Italia, - dice il piccoletto - ma è nostro
diritto sapere cosa avete intenzione di fare. Se ci state espellendo
dovete fornirci un motivo.
- Qui non è questione di diritti. Quello che dico, tu
lo devi fare.
Agnoletto si agita, si gira verso di noi: - Bisogna fare qualcosa.
Cominciamo a chiamare l’Ansa, l’ambasciata, il consolato,
la Farnesina…
I parlamentari telefonano. I parlamentari parlamentano con la
polizia.
I parlamentari ritelefonano. Esibiscono i tesserini.
La tensione sale. Rimango un po’ scostato con Ciano, che
mi fa: - Oh, ma lo sai che nel ’70 Potere Operaio fece
un manifesto con Leyla Kahled, seduta alla macchina da scrivere,
col mitra di fianco. E sai qual era il titolo? "Padroni,
bastardi, vi dirotteremo!".
Poi ride forte. La tensione gioca brutti scherzi.
All’improvviso, una telefonata ci avverte che dall’altra
parte della frontiera c’è un rappresentante dell’ambasciata.
- Finalmente. Il console?
- No, l’addetto commerciale.
Rido. Non frega a nessuno che siamo qui e che ci stanno ricacciando
indietro senza addurre alcuna motivazione.
- Abbiamo giusto il tempo di arrivare al controllo bagagli per
decidere cosa fare. - dice Agnoletto.
Guido, Giangi e Anubi, con i cellulari quasi scarichi, si mettono
in contatto con i compagni che ci aspettano fuori dall’aeroporto
e comunicano la situazione.
Poi arriva la notizia peggiore. E’ De Rose, la prima delegazione
sta venendo imbarcata su un aereo per l’Italia con la
forza.
- Hanno spintonato Sabbatini, la Castellina l’hanno trascinata
per i piedi fino all’uscita, a De Rose gli hanno storto
una caviglia. Perfino l’addetto commerciale del consolato
si è preso degli spintoni! - annuncia Nadalini.
Ok, adesso sappiamo cosa ci aspetta.
Adesso dobbiamo decidere. Agnoletto ha ragione, non resta molto
tempo, stiamo già camminando verso il controllo bagagli,
in fondo all’aeroporto.
Ci siamo.
Il piccoletto non molla: - Non potete espellerci così.
I parlamentari protestano: - Dovete fornirci una motivazione.
Non è ammissibile che non possiamo sapere perché
ci mandate via. Vogliamo parlare con un rappresentante del nostro
consolato.
Arriva un altro funzionario di polizia, in borghese.
- Il vostro consolato non c’entra niente. Questo è
un paese in guerra e siamo a noi a decidere chi può entrare
e chi no.
Sono tutti gentili. Per ora. Fermi, ma gentili. Sordi alle proteste,
ma gentili.
- Volete creare un incidente diplomatico? - chiede Martone.
Non gliene frega niente. Questo è un paese in guerra
eccetera eccetera.
- Siamo in contatto telefonico col nostro Ministero degli Esteri.
Questo è un paese in guerra eccetera.
- L’Italia non ha mai espulso nessun cittadino israeliano.
Questo è un paese in guerra eccetera.
Mentre la discussione prosegue, mi accorgo che ci hanno circondati.
Sono ancora soprattutto donne. Che ridono e ci sfottono. Ma
già, siamo amici dei terroristi.
Però ci sono anche cinque o sei energumeni in divisa.
E altri sbirri in borghese.
Mi accorgo che Ciano è rimasto fuori dal cerchio, isolato
dal gruppo con una manovra lenta e "gentile". Lo fanno
entrare per primo al controllo bagagli, cioè lo perquisiscono,
poi lo accompagnano da un’altra parte. Mentre lo scorta
via, lo sbirro lo indica ai passeggeri appena sbarcati. Non
capisco l’ebraico. Ma la parola “Arafat” è
chiara come il sole e ripetuta ogni frase. Quelli annuiscono
o sorridono.
Ciano è una montagna. Ciano è il più grosso
della comitiva. Troppo grosso. Meglio allontanarlo con modi
gentili, prima di passare alle maniere forti con noi.
Agnoletto e i parlamentari continuano a discutere, ma i poliziotti
si stanno innervosendo. Sento un rumore di legno sbattuto e
intravedo uno di loro che nasconde un mazzo di manganelli nella
stanza del controllo bagagli. Dove gli sbirri vogliono convincerci
a entrare uno a uno, per perquisirci.
Merda.
Cercano di spingerci dentro stringendo il cerchio.
Con una rapida consultazione decidiamo di sederci e incordonarci
tra noi. Ci trascineranno via come hanno fatto con gli altri.
Una poliziotta si china a parlare con Agnoletto.
- Se fate così dovremo usare la forza.
- Non avete alcun diritto di espellerci. Siamo pacifici e non
abbiamo fatto niente.
Un energumeno in divisa alto due metri scosta la poliziotta
e prende su di forza il piccoletto. Lo sfila come un’acciuga
dal barattolo e senza nessuna fatica lo lancia dentro la stanza
delle perquisizioni. Gli altri ci impediscono di muoverci. Nadalini,
che, forse per via della telecamera a tracolla, pensano sia
un giornalista, viene afferrato e bloccato sulla porta. Lui
deve vedere cosa ci aspetta.
Agnoletto viene sbattuto sul bancale, un braccio girato dietro
la schiena. Il poliziotto gli preme il ginocchio sulla spina
dorsale e altri tre lo prendono a calci e pugni. Le urla si
sentono da fuori. Dura tutto pochi secondi, poi lo rispediscono
fuori.
- Ragazzi, questi menano... - dice con gli occhi sbarrati e
la voce strozzata.
Lo soccorriamo. Non ha niente di rotto, anche se sembra potersi
spezzare come un grissino. Solo qualche bozzo in faccia.
E’ la volta di Marco Revelli. Lo trascinano dentro per
la collottola, mentre lo riempiono di calci alle costole. Quindi
afferrano Egidio, che per fortuna se la cava con poco.
Noi siamo ormai tutti in piedi e urliamo. Accenti emiliani e
romaneschi si mescolano in un coro di “Basta!”,
“Stop the violence!”.
Siamo in mezzo a un aeroporto internazionale. Un aeroporto come
tutti gli altri. Stesse luci troppo forti, stesse tensiostrutture
del cazzo, stessa organizzazione dello spazio, stesso ferro
e cemento. La polizia sta pestando un piccoletto di quaranta
chili e un signore di sessant’anni. Mi guardo intorno,
cerco di incrociare gli sguardi della gente che affolla la sala.
Sono indifferenti. Nessuno dice nulla.
Mormoro tra i denti: - Siete finiti.
Basta così. Non ha senso farci massacrare tutti quanti.
Sono disposti a farlo. Non gliene frega niente. Né alla
polizia né a chi sta assistendo ala scena senza battere
ciglio. Loro sono in guerra. Noi siamo nemici. O amici dei nemici.
Dobbiamo andare a farci fottere a casa nostra.
Rassegnati entriamo uno dopo l’altro a farci perquisire.
Risparmiano solo i parlamentari.
Io resto per ultimo.
Quando mi fanno entrare mi trovo di fronte un ragazzino. Avrà
al massimo vent’anni, i capelli rossi e le lentiggini.
E’ almeno trenta centimetri più basso di me. Dietro
di lui, gli energumeni mi fissano.
Prima la giacca. Poi il marsupio, oggetto per oggetto. I liquidi
per le lenti a contatto.
Il ragazzino si ferma. Mi guarda e dice: - Stand! - indicando
un punto davanti a sé e mimando il gesto delle braccia
allargate.
Deve perquisirmi.
Resto fermo. Guardo lui. Guardo gli sbirri che hanno picchiato
i miei compagni di viaggio. E’ davvero finita. Ci cacciano
via, ci timbreranno il passaporto, memorizzeranno i nostri nomi.
Probabilmente non potremo più rimettere piede in questo
paese. Non ci abbiamo mai messo piede, a dire il vero. I nostri
compagni sono nell’ospedale di Ramallah, a tenere aperto
lo spiraglio di una debole speranza. I nostri compagni hanno
sfidato i cecchini e i posti di blocco per consegnare cibo alla
popolazione civile. Hanno scortato le ambulanze. Sono stati
testimoni oculari dell’orrore. Del cecchinaggio e delle
esecuzioni. Dei civili massacrati.
Avremmo dovuto dare loro il cambio. Accompagnare i deputati
di un parlamento europeo a vedere cosa succedeva a Ramallah.
A garantire la sicurezza per i convogli umanitari e a difendere
i medici palestinesi. Non potremo farlo. Ce lo hanno fatto capire
in modo molto chiaro.
Avete vinto, bastardi. Ce ne andiamo.
Incrocio tutti i loro sguardi. E mi inginocchio con le mani
sopra la testa.
Il ragazzo è rapido, mi fa subito rialzare, rosso d’imbarazzo,
e mi consegna agli sbirri.
Tel Aviv, Israele, 4 aprile ’02, h. 8.15
La buona notizia è che ci reimbarcano
sullo stesso aereo dei compagni che erano a Ramallah e che sono
in partenza per tornare a casa. Almeno faremo il viaggio accompagnati
dai loro racconti. Un bagno di calore umano dopo la doccia fredda.
Resto in fondo alla fila anche stavolta. E quando metto il piede
sulla scaletta, mi fermo a stringere la mano a uno degli sbirri.
Rimane talmente stupito dal gesto che non riesce nemmeno a ritirarla.
- Volevo soltanto visitare il tuo paese. Vedere con i miei occhi.
Incontrare i miei amici. Perché non posso farlo?
Lui scuote la testa, non capisce se dico sul serio o se lo sto
prendendo per il culo. Guarda i colleghi e balbetta qualcosa
di incomprensibile.
Salgo la scaletta col cuore che batte per l’emozione di
rivedere tutti i miei supereroi preferiti.
Vaffanculo, sono uno scrittore. Torno a casa e scrivo.
no (c) 2002, WM4
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