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Full
of life
1952 - Fazi editore, pag.151
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l'inizio...
Era
una casa grande perché eravamo gente con progetti grandiosi.
Il primo era già lì, una sporgenza all'altezza
del suo punto vita, una cosa dai movimenti sinuosi, striscianti
e contorti come un groviglio di serpi. Nelle tranquille ore
prima di mezzanotte appoggiavo il mio orecchio su quella zona
e sentivo un gocciolio come da una sorgente, dei gorgoglii,
dei risucchi e degli sciabordii.
Dicevo: "Si comporta proprio come il maschio della specie".
"Non necessariamente".
"Nessuna femmina scalcia così tanto".
Ma non discuteva la mia Joyce. Quella cosa era dentro di lei,
e lei era remota, sdegnosa e beata.
Eppure, a me non importava ancora nulla di quella sporgenza.
"E' poco estetica", e le suggerivo di indossare qualcosa
per nasconderla.
"E ucciderlo?".
"Ci sono delle cose adatte. Le ho viste".
Mi guardava con freddezza - ero l'ignorante, il balordo che
passanella notte, non più una persona, diventavo malefico,
assurdo.
La casa aveva quattro camere da letto. Era carina. Intorno c'era
uno steccato. Aveva un tetto alto e a punta. Un corridoio di
rose andava dalla strada all'ingresso principale. Un ampio arco
di terracotta si alzava sopra a questo. C'era un batacchio di
ottone massiccio sulla porta. C'era un 37 nel numero civico,
ovvero il mio numero fortunato. A volte attraversavo la strada
e guardavo tutto ciò con la bocca spalancata.
La mia casa! Quattro camere da letto. Spazio. Due di noi ci
vivevano già, e uno era in arrivo. Ce ne sarebbero stati
sette. A trent'anni un uomo aveva ancora tempo per tirarne su
sette. Joyce aveva ventiquattro anni. Uno ogni due anni. Uno
in arrivo, sei ancora da fare. Che meraviglia il mondo! Che
vastità il cielo! Come era ricco il sognatore! Avremmo
naturalmente dovuto aggiungere una stanza o due.
"Hai delle voglie? Gusti particolari? So che succede. Ho
letto alcune cose sull'argomento".
"Certo che no".
frammenti...
Alle
9.27 della mattina del 18 marzo, al settimo mese della sua gravidanza,
Joyce Fante sprofondò nel pavimento della cucina della
nostra casa. Il suo peso - era aumentata di venticinque libbre
e la bilancia ne segnava ora centoquarantaquattro - unito allo
stato del legno, provocò il climax mozzafiato quando
le tavole infestate dalle termiti crollarono sotto il linoleum
strappato e la donna con la gran sporgenza precipitò
sulla terra tre piedi più in basso.
In quel momento io ero di sopra, nella vasca, e ricordo distintamente
tutti gli insignificanti particolari di prima e dopo la calamità.
Prima c'era quella bella mattinata tranquilla, abbellita dalla
lucentezza dorata del sole, c'era la placidità del bagno,
le acque ferme misteriosamente evocative, il richiamare alla
mente core lontane, e poi, da qualche parte, da tutte le parti,
l'atmosfera rabbrividì, fu come avvertire il potere sinistro
della reazione a catena sui materiali fissili. Un momento più
tardi la sentii urlare. Era un urlo da teatro, Barbara Stanwyck
intrappolata da uno stupratore, e quell'urlo mi pizzicò
la colonna vertebrale come le dita di un gigante.
Saltai fuori dalla vasca e aprii la porta. Sentivo Joyce che
gridava dal basso. Il mio unico pensiero fu per il bambino -
quel prezioso melone bianco.
- Sto arrivando Joyce. Coraggio cara, sto arrivando - .
[...]
Tornai
in cucina e mi fermai davanti al buco nel pavimento. Funghi
e termiti avevano divorato il legno. Si sbriciolava fra le mie
dita come soffice pane. Attraversai la stanza andando verso
l'acquaio e picchiai con il tallone sul pavimento. Il colpo
lasciò un segno profondo, aprendo un buco. Sembrava che
tutto il pavimento fosse marcio. Nell'angolo dove era il tavolo
diedi un pugno al muro. Le mie nocche affondarono nello stucco
e nel legno spugnoso. Mi arrampicai sul tavolo per controllare
il soffitto, ma il mio peso ne fece affondare le gambe. Andai
in camera da pranzo e mi fermai davanti a un tramezzo verde
pallido, appena dipinto, immacolato. Alzai il pugno, ma dentro
di me sentii una profonda nausea ed ebbi paura a colpire.
La mia casa! Perché era capitato questo a John Fante?
Cosa avevo fatto per stravolgere il ritmo delle stelle durante
il loro corso? Tornai al buco di Joyce e lo guardai attentamente.
Sollevai un pezzo di legno marcio. Fu allora che le vidi, quelle
piccole bestioline bianche, che strisciavano nel legno morto,
il legno della mia casa, ne presi una fra le dita, con le zampette
che si agitavano nell'aria - una termite, una bestia inumana,
e la uccisi; io che non potevo sopportare di uccidere nulla,
dovetti spegnere la sua vita, per quello che lei e la sua ignobile
stirpe avevano fatto alla mia casa. Era la prima termite che
avessi mai ucciso. Per molti anni le avevo viste muoversi, osservandole
con curiosa ammirazione. Ero un fermo assertore della filosofia
del vivi e lascia vivere, e questo era il ringraziamento che
ne ricevevo, questo schifosissimo tradimento. Bene, allora c'era
qualcosa di sbagliato nella mia convinzione, sarebbero dovuti
subentrare dei cambiamenti nel mio rapporto con gli insetti,
la dura realtà dei fatti doveva essere considerata, e
cominciai in quell'istante medesimo a farle fuori, spaccando
il legno, spiaccicandole, annientando le loro nefaste piccole
vite mentre correvano in preda al panico fra le mie dita.
***
Salutare
la mamma era sempre l'impresa più difficile quando si
tornava a casa. Mia madre era del tipo di quelle che svengono,
specialmente se eravamo stati via per più di tre mesi.
Entro i tre mesi c'era sempre un minimo di controllo della situazione.
In quel caso infatti lei pareva solo vacillare pericolosamente
e sul punto di cadere, dandoci il tempo di prenderla prima del
crollo. L'assenza di un mese non comportava nessun problema.
Piangeva solo per qualche momento prima del solito fuoco di
domande.
Ma quello era stato un intervallo di sei mesi e l'esperienza
mi aveva insegnato che non dovevo piombarle addosso. La tecnica
era invece di entrare in punta di piedi, abbracciarla da dietro,
annunciarsi con calma, e aspettare che le ginocchia le cedessero.
Altrimenti avrebbe ansimato: «Oh, grazie a Dio!»,
e sarebbe crollata sul pavimento come un sasso. Una volta per
terra aveva un suo modo di rendere molli tutte le giunture come
una massa di mercurio, ed era impossibile sollevarla. Dopo che
il figlio ritornato aveva annaspato e mugolato inutilmente,
si alzava in piedi con le sue sole forze e immediatamente cominciava
a preparare grandi cene. La mamma amava svenire. Lo faceva con
grande maestria. Tutto ciò di cui aveva bisogno era un'imbeccata.
La mamma amava anche morire. Una volta o due l'anno, in special
modo a Natale, arrivavano i telegrammi, annunciando che la mamma
stava di nuovo morendo. Ma noi non potevamo rischiare che per
una volta fosse vero. Da tutto il lontano ovest ci precipitavamo
a San Juan per essere al suo capezzale. Moriva per un paio d'ore,
producendo con la gola un frastuono come di casseruole, mostrando
il bianco degli occhi, e chiamandoci per nome mentre entrava
nella valle delle ombre. Poi improvvisamente si sentiva meglio,
si levava dal suo letto di morte, e preparava per cena una enorme
quantità di ravioli.
Era davanti ai fornelli, e mi dava la schiena, quando entrai
in cucina e mi avvicinai in silenzio a lei. A metà strada,
avvertì la mia presenza, e si girò lentamente,
con un mestolo in mano. Sembrò sopraffatta da un senso
di nausea, l'anima che abbandonava il corpo, l'ascensore che
precipitava senza più controllo, il momento di capogiro
subito prima della caduta da una grande altezza; i suoi occhi
si rovesciarono, il sangue abbandonò il suo viso subito
pallido, le sue dita rimasero prive di forza e il mestolo finì
per terra.
«Johnny! Oh, grazie a Dio!».
***
Papà
stava dando calci al prato con la punta spessa della sua scarpa.
- Erba del diavolo. Tutta erba del diavolo. Non è buono,
questo paese - .
Il suo sguardo si spostò sulle due file di alte palme
che marciavano su entrambi i lati del viale, con i loro tronchi
sottili che si libravano verso l'alto, e le fronde come dei
piumini per spolverare dal lunghi manici.
- Non sono buoni, quegli alberi. Niente ombra, niente frutti,
niente di niente - .
Prendemmo il bagaglio e lo portammo in casa, appoggiandolo nell'ingresso
davanti alla scala. A sinistra, un gradino più giù,
c'era il salotto, con ampie porte finestre e muri dipinti di
un fresco verde, era una camera grande e piacevole con un tappeto
beige e dei mobili di quercia bianca scelti con attenzione.
Lì sentii nuovamente che era una casa come si deve nonostante
il buco nel pavimento della cucina; si, una bella casa, una
casa felice, mi sentii orgoglioso di esserne il padrone, e passai
un braccio attorno a Joyce.
- Eccola, papà. La mia casa - .
Lui girò la testa da una parte e dall'altra, mordendo
l'estremità di un sigaro nuovo e allo stesso tempo sfregando
un fiammifero contro la coscia per accendersi da fumare.
- Il pavimento non è a piombo - .
- E’ di quercia, papà. E’ ottimo - .
- Non è a piombo - .
Lo guardammo. Sembrava perfetto.
- Attrezzi - , disse.
La sua sacca era assieme agli altri bagagli.
- Attrezzi -, disse di nuovo.
- Son qui- .
- Attrezzi - , ripeté.
Ci volle qualche minuto prima che capissi quello che voleva
dire - dovevo aprire la sacca. Mentre mi rendevo conto di ciò,
realizzai che quell'uomo aveva preso il sopravvento, che il
nostro rapporto era improvvisamente cambiato, che era il capo.
Mi ricordai di un tempo remoto, di quando vivevo sotto il suo
tetto con i miei fratelli e lavoravo come suo aiutante in cantiere.
Era il modo peggiore di lavorare per quell'uomo, e ai miei fratelli
e a me non piaceva affatto. In quei giorni diceva: - Matita-
, e voleva dire: dammi una matita. Oppure: - Due per quattro,
da tre piedi - . Faceva parte del mistero del lavorare con lui,
perché non rivelava mai il motivo per cui aveva bisogno
delle cose che chiedeva. Non spiegava mai nulla, e capitava
spesso che andassimo via dal cantiere furiosi per la frustrazione
e per la rabbia, perché ci trattava come schiavi. Ed
eccolo lì un'altra volta, dopo sedici anni, quell'uomo
a casa mia che diceva: - Attrezzi - .
***
la
fine...
[...]con
un fazzolettone rosso nel quale si riversavano le lacrime, e
mentre stava lì davanti a piangere, io dicevo all'infermiera
che lui voleva vedere suo nipote. Lui non la guardò,
ma la sua dolorosa gioia era più di quanto lei potesse
sopportare.
- E’ contro le regole- , disse, - ma...- .
La seguimmo attraverso delle porte girevoli, la mano di papà
era nella mia. Lei scomparve e un momento dopo era dall'altra
parte del vetro, con una maschera sul viso, e teneva in braccio
il bambino. Papà non lo vide, perché le sue due
mani nel fazzolettone rosso gli coprivano gli occhi, ma sapeva
che il bambino era molto vicino, ed era riverente, come se avesse
paura di alzare lo sguardo fino al volto di Dio. E anche se
avesse alzato gli occhi, non avrebbe potuto vedere il bambino
lo stesso, perché era accecato dalle lacrime. Dopo pochi
istanti l'infermiera lo portoò via e io condussi papà
lungo il corridoio. Pianse fino a quando raggiungemmo la macchina.
Quella prova lo aveva spossato. Era come inebetito mentre guidavo
verso casa, con la testa appoggiata al sedile, e le mani immobili
sulla pancia.
- Voglio andare a casa- , disse.
- Ci saremo fra pochi minuti - .
- A San Juan. Dalla mamma -.
Guardai l'orologio. - Il San Joaquin Daylight parte fra un'ora.
E’ un treno veloce - .
- Prendo gli attrezzi. Tu poi mi porti alla stazione - .
Proseguimmo in silenzio. Gradualmente, la sua forza tornò.
Parcheggiai la macchina sulla strada, davanti alla casa. Ne
scendemmo e lui si fermò per studiare l'alto tetto a
punta, l'ingresso ad arco.
- E’ una buona casa - , disse.
- Il pavimento è un po' in pendenza - .
- Bah. Non vuol dire nulla - .
- Abbiamo qualche termite - .
- Tutti hanno le termiti - .
- Ma nessuno ha un camino come il mio - .
Sorrise e si accese un sigaro.
- E’ ben fatto, figliolo. C'è un sacco di spazio
per Babbo Natale quando scende dalla cappa - .
- Papà, sai quel pezzo di terra vicino a Joe Muto? Credi
che dovrei comprarlo? - .
- Tu te ne stai qui e tiri su la tua famiglia - , disse. Entrammo
in casa e lo sentii che cantava mentre faceva la valigia.
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