John Fante

 

 

La Confraternita del Chianti
1977 - Marcos y Marcos, pag.192

la confraternita del chiantiTirannico e orgoglioso primo scalpellino d'America, il vecchio Nick Molise è di nuovo in crisi con la moglie. Nessuno dei figli ha voglia di intervenire; d'altronde Nick, che sarebbe stato un uomo più felice se non avesse avuto famiglia... i suoi quattro figli erano i chiodi che lo tenevano crocifisso a mia madre, non ha intenzione di chiedere nulla a nessuno, tanto più che se la spassa a meraviglia con i vecchi amici e, nonostante l'età, coltiva un mucchio di progetti. Può divertirsi, sbevazzare e gloriarsi quanto gli pare del suo grande passato (la città di San Elmo era il suo Louvre, il suo museo a cielo aperto offerto agli occhi del mondo). Il sogno, neppure troppo segreto, sarebbe una tribù di figli-muratori seguaci della sua arte, mentre gli tocca fare i conti con un frenatore di treni, un funzionarietto di banca e uno scrittore. In barba alla propria innata pigrizia, henry - alias John Fante- lascia moglie e figli, si imbarca su un aereo e si tuffa alla volta dei genitori; giunto a San Elmo, il padre lo prende in contropiede, invitandole a un'impresa assurda quanto inutile: costruire un essiccatoio per pelli di cervo, in una località impervia a duemila metri di altezza. Henry in un primo tempo esita, poi acconsente, attratto dalla banda di squinternati confratelli del babbo.

***

l'inizio...

Una sera, lo scorso settembre, telefona mio fratello da San Elmo per informarmi che mamma e papà avevano tirato in ballo un'altra volta la faccenda del divorzio.
"Bè, che c'è di nuovo?".
"Stavolta fanno sul serio" disse Mario.
Nicholas e Maria Molise erano sposati da cinquantun anni. Fin dall'inizio il loro era stato un rapporto agitato, tenuto insieme dall'indefettibile fede cattolica di mia madre che soleva punire il marito per il tramite di una esasperante tolleranza dell'egoismo e del menefreghismo di lui, pure, lasciarsi così avanti negli anni aveva ormai l'aria di una suprema follia da parte di quei due vecchietti( mia madre ne aveva settantaquattro e mio padre due di più).
Chiesi a Mario quale fosse stavolta il problema.
"Adulterio. L' ha beccato con le mani nel sacco."
Risi. "Il vecchio?Andiamo, come può essere colpevole di adulterio?"

***

frammenti...

[…] Tutti i miei pensieri erano per mio padre, che ormai si era fatto vecchio; si accorciava il tempo a sua disposizione, e meno gliene restava, più ribelle diventava, laddove pareva che mia madre, a dispetto della vista difettosa, dei reumi alle dita e del mal di schiena, sarebbe rimasta fra noi per molti anni ancora.
Mio padre sarebbe stato un uomo più felice se non avesse avuto una famiglia. Non fosse stato per i suoi quattro figli, avrebbe divorziato da tempo e si sarebbe trasferito in qualche altra città. Gli piacevano Stockton, che era piena di italiani, e Marysville, dove si poteva puntare giorno e notte sul lotto cinese. I figli erano i chiodi che lo tenevano crocefisso a mia madre. Senza di loro, sarebbe stato libero come un uccello.
Non gli andavamo particolarmente a genio, e di certo non ci amava proprio. Eravamo soltanto dei ragazzi comuni, normali e senza qualità fuori dall'ordinario; lui aveva sperato in qualcosa di più. Eravamo una corvè che andava fatta: non una messe abbondante, non asparagi o fichi o datteri, ma una cosetta da poco, patate grano e fagioli, e lui a questa fatica era dannato, gli toccava di bestemmiare e scalciar zolle finche il raccolto non maturava.
Era un montanaro venuto dall'Abruzzo, un nasone dalle mani grosse, basso (uno e sessanta), largo come una porta, nato in una parte d'Italia in cui la miseria era spettacolare quanto i ghiacciai circostanti e dove qualunque bambino che fosse riuscito a sopravvivere per i primi cinque anni ne avrebbe campati ottantacinque. Logicamente, non molti riuscivano a compiere cinque anni. Di tredici che ne erano, restavano soltanto lui e mia zia Pepina, che ne aveva ottanta e abitava a Denver. La sua durezza, mio padre l'aveva ereditata da quel modo di vivere. Pane e cipolle, si vantava, pane e cipolle: che altro serve a un uomo? Ecco perché per tutta la mia vita ho provato ripugnanza per pane e cipolle. Lui era qualcosa di più che il capofamiglia. Era giudice, giuria e carnefice, Geova in persona.
Non c'era nessuno che potesse avere a che fare con lui senza litigare. Non gli piaceva quasi niente, in modo particolare sua moglie, i suoi figli, i vicini, la chiesa, il prete, la città, lo stato, il suo paese e il paese dal quale era emigrato. Né gli importava un fico secco del mondo intero, né del cielo né delle stelle o dell'universo, né del paradiso né dell'inferno. Ma le donne, quelle gli piacevano.
Gli piaceva pure il suo lavoro e una mezza dozzina di paisani che, come lui, erano italiani del genere dittatoriale. Era un perfetto artigiano la cui fantasia e perizia sembravano essersi concentrate in quelle mani meravigliosamente forti, e benché si definisse un impresario edile, io m'ero abituato a considerarlo uno scultore, perché a una pietra poteva dare la forma d'un uomo, o d'un animale. Era un muratore superbo, veloce, preciso. Ma anche un eccellente falegname, stuccatore e cementiere.
Provava un grande disprezzo per se stesso, e tuttavia era orgoglioso, e perfino presuntuoso. Nick Molise era convinto che ogni mattone che aveva posato, ogni pietra che aveva modellato, ogni marciapiede o muro o caminetto che aveva costruito, ogni lastra tombale che aveva ideato appartenessero alla posterità.

***

Avvertii il respiro caldo di mia madre sul collo e mi voltai a guardarla mentre origliava. Così, senza infingimenti, sfacciatamente.
«Fammi parlare» disse, togliendomi la cornetta di mano. E poi: «Prontooo, Harrietta. Songo io a telefono, 'a suocera tua. Comme stai, Harrietta? Buono. Io? Stongo buono, si».
Eccola di nuovo, con quel suo modo ipocrita di lusingare Harriet, quell'inchinarsi come una serva al cospetto di una baronessa, una forma di autodegradazione tale che anche la sua facoltà di parola ne risentiva. Nata a Chicago, e a conoscenza della sola lingua inglese, mia madre ciononostante parlava come un'emigrante napoletana fresca di sbarco ogni volta che le capitava di sentire Harriet.
Ascoltai, esasperato, tirandomi i capelli. «Harrietta, ti debbo cercare una cortesia, va buono? Ti dispiace che tuo marito rimmane due o tre giorni, una settimana? Papa suo tiene bisogno di aiuto, quel povero vecchiarello che tiene pure i reumatismi. Si, una settimana, oppure dieci giorni; può darsi che so' due settimane o tre, poi la giobba a fernuta. Okay, Miss Harrietta? Grazie assai. Dio ti benedice... »
Le strappai la cornetta. «Sarò a casa domani, Harriet. Lascia perdere tutte queste scemenze! »
Mamma ficcò la bocca nell'apparecchio.
«Pe' piacere, Harrietta, spero che non faccio guai in casa tua, va buono? Voglio solamente aiutare a papà che tiene la schiena offesa.»

***


Scampanai quattro volte sull'uscio di Hilda Dietrich prima che le tendine fossero accostate e la faccia bianca della vecchia signora apparisse dietro la porta a vetri, gli occhi freddi che si allargavano in un'espressione di fastidio. Rimase la a fissarmi, senza nemmeno accennare l'atto dell'apertura della porta.
- Buongiorno - dissi.
- Che c'è?- domandò.
- Harriet mi ha chiesto di farmi vivo.
- E perché mai?-
- Così, una visita. Per vedere come se la passa. -
Esitò. Ho molto da fare. Dica ad Harriet che me la passo bene. -
- Solo un momento. -
- Un'altra volta, signor Malizia -
- Molise - compitai. - Con la o -
- Visto che è qui, gradirei che si portasse via le sue mazze da golf -
Avevo lasciato le mazze la volta che le avevamo fatto visita quand'era malata. L'avevo fatto di proposito, perché mi piaceva il campo del posto, ma mi scocciavo di viaggiare con le mazze da golf. A parte che a casa ne avevo un altro assortimento.
- Vorrei lasciarle qui, se non ingombrano. –
- Altroché, se ingombrano - sibilò.
- In questo caso, le porterò via - dissi, aspettandomi che aprisse la porta.
- Le troverà nella rimessa degli attrezzi.-
La conversazione giunse a un gelido punto morto; ci si guardava, e io sentii ribollirmi il sangue in gola, con il desiderio di prendere quel vecchio collo nodoso tra le mani e spezzarlo.
Insondabile era la profondità del suo disprezzo. Harriet aveva detto che era "cambiata". E questo era il risultato, che mi odiava ancora di più? Che le avevo fatto a questa donna? Fossi stato crudele con sua figlia, fossi stato beccato con un'altra donna, l'asprezza di una madre sarebbe stata comprensibile. Ma non c'era altro che astio nella luce di quei vecchi occhi. C'era paura, paranoia, c'era un'ossessione morbosa, c'era il terrore che potessi vibrarle un colpo di coltello, alla maniera italiana. Non potevo dire o fare nulla per toglierglielo dalla testa, e questo mi provocava nausea, mi rendeva furioso.
Girai i tacchi, scesi rapidamente i gradini e mi affrettai verso il capanno degli attrezzi, dietro casa.
Le mie mazze da golf! Erano in un angolino di un armadio da letto. Le mie mazze! Le mie magnifiche Stan Thompson su misura: quattro di legno, nove di metallo, con impugnature speciali, coi manici di grafite leggeri come piume; attrezzi costosi dal perfetto equilibrio, in grado di sparare una pallina lontanissimo e con la massima precisione.
Eccole là, sul cotto umido della rimessa: la borsa di pelle si era strappata nel momento in cui l'avevo sollevata. Un brutto colpo. Un disastro. Una cosa sacrilega, come sputare sull'ostia consacrata. Soltanto un golfista poteva misurare tutta l'estensione di questo crimine brutale e immotivato. Le mazze erano tutte arrugginite, le impugnature venivano via dai manici. Era qualcosa di più che un assassinio di mazze da golf. Era un attacco a me, alla mia vita, ai miei piaceri. Soltanto uno squilibrato poteva concepire una simile dissacrazione.
Volevo vendetta: restituire il colpo, distruggere. Mi guardai intorno e li vidi appesi in bell'ordine ai loro ganci: i suoi rastrelli, le pale, le cesoie, gli attrezzi da giardinaggio. Afferrai una sega e una pala e sospirai di piacere quando i denti della sega ebbero finito di tagliare il manico della pala. Ma dopo mi sentii assurdo e imbarazzato.
Scoprii poi i guanti, un paio di guanti da giardinaggio da donna appesi a un chiodo, della misura delle piccole mani di Hilda Dietrich. Tirai giù la lampo della patta e ci versai dentro il liquido dorato. Quando li riappesi, avevano una forma umana: così pieni, avevano un'aria grottesca, gocciolavano a palme aperte, umide, supplichevoli.

***


[…] Angelo si rimise a scrivere: un'altra frase all'impronta. Poi passò il foglio a Benedetti, che tradusse di nuovo.
"Meglio morire tra amici che morire tra i dottori."
Ci fu un applauso, un battimani, e calici levati per un brindisi e subito vuotati; fece un gesto anche mio padre, il quale era al di là della soglia in cui non si capisce più nulla.
Incoraggiato, Angelo si rimise a scrivere un'altra volta. Per quanto mi riguardava, c'era una sola cosa da fare. Tirai indietro la sedia di mio padre e cercai di sollevarlo, mettendogli le braccia attorno al petto. Lui si dibatteva, debolmente ma con accanimento, contorcendosi per rimanere seduto. I paisani osservavano. Non mi avrebbero aiutato.
- Per favore - dissi - qualcuno mi dia una mano. Quest'uomo è molto malato.-
Loro rimasero immobili come sepolcri. Mi misi a piangere, non di dolore, non di angoscia per la sorte di mio padre, ma autocompatendomi. Com'ero buono. Che bravo figlio leale! Guardatemi, sto cercando di salvare la vita a mio padre. E com'ero orgoglioso di me. Che impeccabile essere umano ero!
Piansi e battei i pugni sul tavolo, e il vino si agitò e zampillò fuori e le vespe si risentirono. Mi strappai i capelli. Caddi in ginocchio e abbrancai mio padre. - Vieni con me, papà! Hai bisogno di cure. Non devi morire in questo posto sciagurato. -
Il suo sguardo svagato riuscì a trovarmi.
Va' a casa ragazzo. Vedi un po' che vuole mamma.
Mi alzai, pieno di vergogna e di nausea, e poi presi posto sulla panca, singhiozzando. Avevo un mio talento per i pianti. Mi aveva procurato svariati riconoscimenti nel corso della vita, e anche qualche fastidio. Quando le tue debolezze sono la tua forza, che fai? piangi. Dal momento che il pianto semina sconcerto, la gente non sa come prenderla; sono lì che magari si aspettano un'esplosione di violenza e d'un tratto tutto svanisce in una pozza di lacrime. Piansi alla prima comunione. Le mie lacrime ebbero ragione di Harriet e così alla fine lei mi sposò. Senza lacrime non avrei mai potuto sedurre una donna; con le lacrime non mi andò mai buca. Era una cosa che devastava il cuore delle donne alle quali non andavo a genio e che, in seguito, avrebbero voluto uccidermi perché le avevo fatte soccombere. Piangevo persino mentre scrivevo cose melanconiche. E più invecchiavo, più piangevo.
E ora Zarlingo s'era commosso e si era sporto per stringermi una mano. - Calmati, figliolo - mi consolò. -Asciugati gli occhi, bevi qualcosa. Non ti preoccupare per tuo padre. E’ forte come un bue.-
Mi strofinai il viso e mi soffiai il naso. Mandai giù un sorso di vino. Dalla statale, in basso, venne l'urlo di una sirena: sempre più vicino, sempre più alto. Andai sul viale e vidi un'ambulanza bianca che sollevava una scia di polvere mentre percorreva la strada privata di Angelo. Quando rallentò, vidi due assistenti in camice bianco nell'abitacolo. Con loro c'era il dottor Maselli. Saltarono a terra.
- Dov'è?- chiese il dottore.
Mi venne dietro sotto il pergolato e si avvicinò a mio padre. Gli prese il capo e gli sollevò una palpebra. Prendendo una siringa dalla borsa, la riempì d'una sostanza lattiginosa che stava in una fiala, e poi la iniettò nel braccio di mio padre. Angelo e gli altri confratelli si fecero intorno, osservando. Fecero largo quando gli assistenti vennero con la barella. Con cura, sistemarono mio padre sulla barella e lo tirarono su da terra. Mentre lo portavano verso l'ambulanza, ciascuno dei suoi amici mormorò il suo addio.
- Ciao, Nicola. Buona fortuna.
- Addio, amico mio.-
- Coraggio, Nick.-
- Sii coraggioso, Nicola. -
Mio padre giaceva immobile, a occhi chiusi. Nemmeno il sole ardente riusciva a disturbare le sue palpebre. Angelo si avvicinò a lui con un fiasco di chianti e glielo piazzò per lungo sotto il braccio.


***

la fine..

Aiutai mia madre a scendere dall'auto e lei soffocò un grido nell'avviarsi verso il prete. Stavo per seguirla, ma Virgil mi afferrò un braccio.
- Stiamo attenti, adesso - mi ammonì. - Teniamola fra di noi. Potrebbe cercare di fare qualche stranezza.-
- Di fare che?-
- Di saltare dentro la fossa.-
Era possibile, ma non accadde. Entrambi la tenemmo per un gomito durante le ultime preghiere, e benché si agitasse nel vedere la bara che veniva calata in uno stridere di pulegge, rimase composta, impassibile. In seguito padre Martin le venne vicino e prese le sue mani nelle proprie mentre lei lo guardava e si metteva a piangere. Lui si chinò e la baciò in fronte, cosa che fece piangere tutti, adulti e bambini allo stesso modo, quindi la gente si girò cercando di nascondere il proprio sconforto mentre ciascuno si dirigeva verso la propria auto.
Harriet mi raggiunse e insieme scortammo mamma tra i sicomori. Poi, di lontano, la sentimmo: una voce, meccanica, elettronica, che pulsava per il terreno e tra gli alberi quasi a voler far vibrare ogni foglia: era un grido di battaglia, che cresceva di intensità. Ci fermammo ad ascoltare. Era la voce d'una radio, di un programma sportivo: tesa, esplosiva, a profanare il santo cimitero con le sue vibrazioni estranee.
- Siamo alla fine del nono! - proclamò la voce. - Due eliminati, Bonds in seconda, Rader in terza, Kingman alla battuta. Due falli e due strike. Capra sta per lanciare. Partito: fallo! -
Tra gli alberi avanzò il furgone scassato di Mario, uno stridio di dadi e bulloni, e quella voce che crepitava incedendo verso di noi. Il viso di mia madre s'illuminò di gioia.
- E’ Mario! - esultò. -Oh Mario! Alla fine è venuto. Sapevo che l'avrebbe fatto, lo sapevo! Oh, sia reso grazie a Dio!
II furgone sbandò in curva e frenò a uno stop davanti a noi, sollevando ghiaia. L'isteria irriverente della radio pareva farsi beffe dei pacifici morti: rude, scherniva il loro riposo eterno.
Tre strike contro Kingman. I Giants avevano perso. Per un momento Mario crollò sullo sterzo. Spense la radio e tornò alla realtà, guardandoci.
- Sono in ritardo? -
- No, Mario - disse mamma. C'è ancora tempo. Corri, prima che lo sotterrino!
Lui balzò fuori dal furgone e s'avviò rapidamente verso la tomba dove due uomini coi badili si stavano preparando a riempire la fossa. Lo guardammo abbassare lo sguardo sulla bara, coprirsi il viso con le mani, cominciare a piangere. Poi proseguimmo verso la macchina.
Mia madre si mise tra Harriet e me. Si tolse il velo, si accasciò e sospirò. Aveva un viso bellissimo, con gli occhi caldi e un senso di pace. Mi prese la mano.
- Sono così felice - disse.
- E’ morto in fretta - dissi. -Non ha proprio sofferto.-
Lei sospirò.
- Mi ha sempre dato un sacco di preoccupazioni, fin dal giorno che ci siamo sposati. Non sapevo mai dove fosse, che cosa stava facendo, con chi stava. Non mi diceva mai niente. Ogni sera mi chiedevo se sarebbe tornato a casa. E ora è finita. Non mi devo più preoccupare. So dov'è. E che è tutto a posto. - Emise un breve gemito. - Oh Dio. Quello che non gli trovavo in tasca! -
Misi in moto.
- Andiamo a casa. -
- Ho comprato una coscia d'agnello - disse lei. - Faremo una bella cenetta. Tutta la famiglia. Tengo pure le patatine novelle.-

 


 

il prossimo libro è Sogni di Bunker Hill

John FANTE - foto - romanzi - racconti - lettere - gli altri SCRITTORI - HOME