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alla polvere
1939 - Marcos
y Marcos, pag.192
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Dalla
polvere grigia e inquieta dei sobborghi di Los Angeles Arturo
Bandini, fiero e squattrinato futuro astro della letteratura
mondiale, invia i primi racconti all'ineguagliabile Hackmuth,
munifico e geniale editore.
Unico suo chiodo fisso: Camilla Lopez, altrettanto orgogliosa
cameriera chicana, corpo stupendo e testa vuota; ma un'improvvisa
fuga d'amore di Arturo e Camilla alla volta dell'oceano si trasforma
in catastrofe erotica, e nel giro di poco tempo Bandini finisce
tra le braccia mature e arroganti di una deforme ninfomane,
Vera. Il rimorso per l'adulterio scatena un vero e proprio terremoto
sotto i piedi dell'ingenuo scrittore, e il suo desiderio di
redenzione lo porta a inseguire e proteggere Camilla, rivelatasi
grande consumatrice di marijuana e innamorata di Sammy, suo
mediocre collega. Gravemente malato, Sammy si ritira a vivere
a un passo dal deserto, cimentandosi in romanzetti western di
infimo ordine e, incredibilmente, respinge Camilla...
Un romanzo comico e romantico, beffardo e straziante, avvolto,
come la vita e i luoghi dei suoi protagonisti, da una sorta
di "polvere-del-mondo" fatta di sabbia e di luce,
di gioia e amarezza.
***
la prefazione
di Charles Bukowski...
Ero
giovane, saltavo i pasti, mi ubriacavo e mi sforzavo di diventare
uno scrittore. Le mie letture andavo a farle alla biblioteca
pubblica di Los Angeles,nel centro della città, ma niente
di quello che leggevo aveva alcun rapporto con me, con le strade
o con la gente che le percorreva. Mi sembrava che tutti giocassero
con le parole e che i cosiddetti grandi scrittori non dicessero
un accidenti di niente. Il loro stile era una mistura di sottigliezza,
mestiere e forma e ciò che scrivevano veniva letto ,
appreso, assimilato e poi ritrasmesso a qualcun altro. Era un
congegno funzionale, una "cultura della parola" assai
scorrevole e prudente. Bisognava tornare agli scrittori russi
precedenti alla rivoluzione per ritrovare il rischio e la passione.
C'erano delle eccezioni, ma erano così poche che le si
esauriva in un attimo, per poi ritrovarsi a fissare file e file
di libri di un'incredibile monotonia. A paragone degli scrittori
del passato, i moderni non valevano gran che.
Tirai giù dagli scaffali un libro dopo l'altro. Perché
nessuno diceva niente? Perché nessuno gridava?
Mi misi a cercare nelle altre sale della biblioteca . La sezione
dei libri religiosi non era che un vasto acquitrino, almeno
per me. Passai al reparto filosofia. Scovai un paio di tedeschi
dall'animo amaro che mi tennero allegro per un po', ma l'esperienza
si esaurì ben presto. Provai con la matematica, ma era
esattamente come la religione, mi scorreva sopra senza lasciar
traccia. Ovunque cercassi, non trovavo niente che mi interessasse.
Mi rivolsi alla geologia e scoprii che era una materia curiosa,
ma di scarso nutrimento.
Trovai alcuni libri di chirurgia e ne fui incuriosito: la terminologia
era del tutto nuova e le illustrazioni mi sembravano fantastiche.
Apprezzai soprattutto l'operazione sul mesocolon, la cui tecnica
finì per diventarmi familiare.
Poi abbandonai la chirurgia e tornai nella sala principale,
che ospitava la narrativa. ( I giorni in cui non ero a corto
di vino, non andavo mai in biblioteca. La biblioteca era il
posto ideale per quando non avevo niente da mangiare o da bere,
o la padrona di casa mi stava alle costole pere recuperare l'affitto
arretrato. In biblioteca , almeno, c'erano i gabinetti. ) Ci
ho visto una quantità di barboni, là dentro, per
lo più addormentati sui loro libri.
Continuavo ad aggirarmi per la sala grande, tirando giù
un libro dopo l'altro, leggendo qualche riga, a volte qualche
pagina, per poi rimetterli al loro posto.
Poi, un giorno, ne presi uno e capii subito di essere arrivato
in porto. Rimasi fermo per un attimo a leggere, poi mi portai
il libro al tavolo con l'aria di uno che ha trovato l'oro nell'immondezzaio
cittadino. Le parole scorrevano con facilità, in un flusso
ininterrotto. Ognuna aveva la sua energia ed era seguita da
un 'altra simile. La sostanza di ogni frase dava forma alla
pagina e l'insieme risultava come scavato dentro di essa. Ecco,
finalmente, uno scrittore che non aveva paura delle emozioni.
Ironia e dolore erano intrecciati tra loro con straordinaria
semplicità. Quando cominciai a leggere quel libro mi
parve che mi fosse capitato un miracolo, grande e inatteso.
Ero socio della biblioteca. Presi in prestito il libro e me
lo portai in stanza, mi sdraia sul letto e ripresi a leggerlo,
ma prima ancora di finirlo capii che l'autore era riuscito a
elaborare un suo stile particolare . Il libro Ask the Dust e
l'autore era John Fante, che avrebbe esercitato un'influenza
duratura su di me. Terminato Ask the Dust tornai in biblioteca
in cerca di altri suoi libri. Ne trovai due: Dago Red e Wait
until Spring, Bandini. Erano dello stesso tipo, scritti con
le viscere e per le viscere, con il cuore e per il cuore.
Si, Fante ha avuto una grande influenza su di me. Non molto
tempo dopo averlo scoperto, mi misi a vivere con una donna.
Beveva come una spugna , anche più di me,e assieme facevamo
delle litigate feroci, durante le quali le gridavo: " Non
chiamarmi figlio di puttana! Io sono Bandini, Arturo Bandini!".
Fante era il mio dio e io sapevo che gli déi vanno lasciati
in pace, non si andava a bussare alla loro porta. E tuttavia
mi piaceva immaginare la casa dove era vissuto, in Angel's Flight,
e illuderni che ci abitasse ancora. Ci passavo davanti quasi
ogni giorno e mi chiedevo : è questa la finestra da cui
è uscita Camilla? E' quella la porta dell'albergo ? Quella
la hall? Non l' ho mai saputo.
Ho riletto Ask the Dust quest'anno, trentanove anni dopo la
prima volta, e ho dovuto riconoscere ce ha resistito al tempo,
come tutte le altre opere di Fante. Questa ,però, resta
la mia preferita perché è con essa che ho scoperto
la magia. Fante ha scritto altri libri oltre Dago Red e Wait
until Spring, Bandini, e i loro titoli sono Full of Life e The
Brotherhood of the Grape. Attualmente sta lavorando al suo nuovo
romanzo, A Dream of Bunker Hill.
Per una serie di circostanze, quest'anno l' ho finalmente conosciuto.
Ma la storia di John Fante non è tutta qui. E' la storia
di un uomo fortunato e sfortunato in ugual misura , di un uomo
di raro coraggio naturale. Un giorno qualcuno la racconterà
, ma ho la sensazione che lui non voglia che lo faccia qui.
Dirò solo che, nel suo caso, linguaggio e personalità
coincidono: entrambi sono forti, buoni e caldi.
E ora basta. Il libro è vostro.
Charles Bukowski
***
l'inizio...
Una
sera me ne stavo a sedere sul letto della mia stanza d'albergo,
a Bunker Hill, nel cuore di Los Angeles. Era un momento importante
della mia vita; dovevo prendere una decisione nei confronti
dell'albergo. O pagavo o me ne andavo: così diceva il
biglietto che la padrona mi aveva infilato sotto la porta. Era
un bel problema, degno della massima attenzione. Lo risolsi
spegnendo la luce e andandomene a letto.
Al mattino mi svegliai ,decisi che avevo bisogno di un po' di
esercizio e cominciai subito. Feci parecchie flessioni ,poi
mi lavai i denti. Sentii in bocca il sapore del sangue, vidi
che lo spazzolino era colorato di rosa, mi ricordai cosa diceva
la pubblicità, e decisi di uscire a prendermi un caffè.
Andai al solito ristorante, mi sedetti su uno sgabello davanti
al bancone e ordinai un caffè. Il sapore era più
o meno quello ma, nel complesso, la bevanda non valeva quello
che costava. Mentre ero seduto lì mi fumai un paio di
sigarette, lessi i cartelloni che riportavano i risultati delle
partite dell 'American League, evitando con cura quelli della
National League, e notai con soddisfazione che Joe DiMaggio
teneva ancora alto l'onore degli italiani, perché era
in testa alla classifica dei battitori. Un gran battitore quel
DiMaggio. Uscii dal ristorante, mi immobilizzai davanti a un
immaginario lanciatore e battei la palla, segnando un punto
a mio favore. Poi mi incamminai verso Angel's Flight, domandandomi
come avrei passato la giornata. Non avevo niente da fare e così
decisi di andarmene a zonzo per la città.
Mi avviai lungo Olive
Street e oltrepassai un caseggiato giallo, impregnato come una
carta assorbente della nebbia notturna, e pensai ai miei amici
Ethie e Carl, che venivano da Detroit e avevano vissuto lì,
e mi ricordai di quella sera in cui Carl aveva picchiato Ethie
perché aspettava un bambino e lui non voleva figli. Comunque
il bambino era arrivato e la storia era finita lì. Mi
venne in mente l'interno del loro appartamento, che puzzava
di topi e di polvere, e le donne anziane che stavano a sedere
nell'ingresso nei pomeriggi di calura, e una in particolare,
che aveva un bel paio di gambe. Pensai anche all'uomo dell'ascensore,
un fallito di Milwaukee, che grugniva immancabilmente quando
gli si diceva il numero del piano a cui si era diretti, come
se, tra tanti, quello fosse il peggiore. Rividi il vassoio colmo
di panini e il pacco di rotocalchi che si portava sempre appresso.
Discesi lungo Olive Street, oltre le orrende casupole in legno
che trasudavano storie di omicidio, fino all'Auditorio della
Filarmonica e mi tornò in mente quella volta che lì
c'ero andato con Helen per sentire il gruppo corale dei Cosacchi
del Don. Mi ero annoiato a morte e proprio per questo avevamo
litigato. Lei portava un abito bianco, che mi procurava una
fitta di piacere tutte le volte che lo toccavo. Oh, quella Helen...
ma non è il momento. Mi ritrovai all'incrocio tra la
Quinta e Olive, dove lo sferragliare dei grandi tram mi rodeva
le orecchie, e l'odore della benzina velava le palme di tristezza;
il marciapiede nero era ancora bagnato per la nebbia notturna.
Arrivai al Biltmore Hotel, davanti al quale stazionava una lunga
fila di taxi con gli autisti che dormivano al posto di guida,
tutti, tranne quello che era di fronte alla porta principale.
Cominciai a pensare a loro, a chi erano e a cosa sapevano, e
mi ricordai di quella volta che uno di loro ci aveva allungato
un indirizzo, a Ross e a me, sogghignando con aria maliziosa,
e poi ci aveva portato a Temple Street, di tanti posti che c'erano,
dove avevamo trovato solo due bruttone e Ross aveva concluso,
mentre io ero rimasto nel salottino a far andare il fonografo,
impaurito e solo.
Oltrepassai il portiere del Biltmore e lo odiai subito, lui
e i suoi galloni dorati, il suo metro e ottanta e la sua dignità,
quando un'automobile nera si fermò accanto al marciapiede
e ne smontò un tizio. Aveva l'aria di essere ricco. Dopo
di lui scese una donna ed era bella, portava una pelliccia di
volpe argentata e quando attraversò il marciapiede e
varcò le porte girevoli fu come una musica. Cosa non
darei per godermela un po', pensai, mi basterebbe un giorno
e una notte, ma proseguii e lei non fu più che un sogno,
mentre il suo profumo indugiava ancora nell'aria umida del mattino.
Mi incantai davanti alla vetrina di un negozio di pipe e ci
rimasi un sacco di tempo, mentre il mondo intero spariva a eccezione
di quella vetrina e delle pipe. Le fumai una per una, immaginando
di essere un grande scrittore e di scendere da una grossa auto
nera con un'elegante pipa di radica in bocca e in mano un bastone
da passeggio, seguito dalla donna con la volpe argentata, visibilmente
orgogliosa di me. Firmammo il registro dell'albergo, poi ordinammo
un cocktail, ballammo un po', prendemmo un altro cocktail e
lo recitai qualche strofa in sanscrito, e la vita mi sembrava
meravigliosa perché ogni due minuti una fata mi fissava
estasiata e io, il grande scrittore, ero costretto a farle un
autografo sul menù, rendendo pazza di gelosia la mia
compagna con la volpe argentata.
Los Angeles, dammi qualcosa di te! Los Angeles, vienimi incontro
come ti vengo incontro io, i miei piedi sulle tue strade, tu,
bella città che ho amato tanto, triste fiore nella sabbia.
***
frammenti..
Mi
trovavo a Spring Street, nel bar di fronte al negozio di roba
usata. C'ero andato per prendermi una tazza di caffè
con gli ultimi cinque cent che mi restavano. Un locale vecchiotto,
con la segatura per terra e, sulle pareti, dei nudi disegnati
con crudezza. Un posto frequentato dagli anziani, dove la birra
costava poco e puzzava di acido, e il passato era rimasto immutato.
Mi sedetti a uno dei tavolini appoggiati al muro. Ricordo che
mi presi il capo tra le mani. Udii la sua voce, ma non alzai
gli occhi. Ricordo che mi chiese: - Cosa ti porto? - e io le
ordinai un caffè con la panna. Rimasi lì, seduto
immobile, finché non mi mise davanti la tazzina, rimasi
lì per un tempo interminabile, pensando all'ineluttabilità
del mio destino.
Il caffè era pessimo. Quando mescolai la panna, capii
che doveva trattarsi di tutt'altro, perché l'insieme
assunse una sfumatura grigiastra e il gusto mi parve quello
della risciacquatura di stracci. La cosa mi irrito perché,
per quel caffè, avevo speso i miei ultimi cinque cent.
Mi guardai attorno in cerca della ragazza che mi aveva servito.
Era piuttosto lontana e stava trasferendo delle birre dal vassoio
che aveva in mano a un tavolo. Era girata di schiena e io notai
la linea morbida e compatta delle spalle sotto il grembiule
bianco, la lieve traccia dei muscoli sulle braccia e i capelli
neri, folti e lucenti, che le ricadevano sciolti.
***
la fine…
XIX
Il mio libro uscì una
settimana dopo. Per un po' fu divertente. Entravo nelle librerie
e lo vedevo, confuso tra migliaia di altri; il mio libro, le
mie parole, il mio nome, la mia ragione di vita. Ma non era
più la sensazione che avevo provato quando avevo visto
pubblicato Il cagnolino rise sulla rivista di Hackmuth.
Quella era sparita per sempre. Non avevo più avuto notizie
di Camilla. Le avevo lasciato solo quindici dollari; non potevano
durarle più di dieci giorni. Sapevo che mi avrebbe telegrafato
appena fosse rimasta senza soldi. Camilla e Willie... che ne
era di loro?
Ricevetti una cartolina da Sammy. La trovai nella cassetta delle
lettere, un pomeriggio. Diceva:
Caro signor Bandini,
quella ragazza messicana è qui e lei sa benissimo che
non mi va di avere delle donne tra i piedi. Se è la sua
ragazza è meglio che se la venga a prendere, perché
mi dà fastidio.
Sammy
Il timbro postale era quello
di due giorni prima. Feci il pieno di benzina, buttai una copia
del mio libro sul sedile anteriore e partii alla volta della
baracca di Sammy, nel deserto Mojave.
Arrivai che era mezzanotte passata. C'era luce all'unica finestra.
Bussai e lui mi aprì. Prima ancora di parlare, mi guardai
attorno. Lui tornò a sedersi accanto alla lampada, raccolse
da terra un rotocalco e continuò a leggere, senza dire
una parola. Di Camilla, nessuna traccia.
- Dov'è? - gli domandai.
- E chi diavolo lo sa? Se n'è andata -.
- Vorrai dire che l’hai sbattuta fuori -.
- Non la reggo qui attorno. Sono malato -.
- Dov'è andata? -
Indicò con il pollice verso sud-est.
- Da quella parte -.
- Ma lì c’è il deserto -.
Si strinse nelle spalle. - Si è portata con sè
il cagnolino. Carino, quel botolo -.
- Quando è stato? -
- Domenica sera -.
- Domenica! - esclamai. - Cristo, sono passati tre giorni! Aveva
con sè da mangiare o da bere? -
- Del latte - rispose. - Una bottiglia di latte per il cane
-.
Uscii all'aperto e guardai verso sud-ovest. Faceva molto freddo,
la luna era alta e le stelle splendevano a grappoli nella cupola
blu del cielo. A sud, a ovest e a est si stendeva una landa
desolata, disseminata di rialzi pietrosi, di sterpi e di scuri
alberi di yucca. Tornai alla baracca. - Vieni fuori a indicarmi
da che parte è andata - dissi a Sammy. Abbassò
la rivista e fece cenno verso sud-est. - Di là - rispose.
Gli strappai il giornale di mano, lo afferrai per il collo e
lo trascinai fuori, nel buio della notte. Non pesava niente
e traballò sotto la mia spinta.
- Avanti, fammi vedere - ripetei. Arrivammo fino al limite dello
spiazzo antistante la baracca. Lui borbottò che era malato
e che io non avevo diritto di trattarlo così, e intanto
si risistemava la camicia, stringendosi la cintura. - Su, fammi
vedere dov’è andata - ripetei. Lui me lo indicò.
- L'ho vista sparire oltre quella cresta -.
Lo piantai lì e percorsi il mezzo chilometro che mi separava
dal punto indicato. Faceva così freddo che dovetti chiudermi
la giacca attorno al collo. Il suolo che calpestavo era composto
da grossa sabbia scura mista a sassolini e forse, in qualche
lontana era geologica, aveva fatto da fondo a un mare. Oltre
la cresta ce n'era un'altra, e poi altre ancora, all'infinito.
Il terreno sabbioso non recava alcuna impronta; sembrava che
di lìl non fosse mai passato nessuno. Continuai a camminare,
avanzando a fatica sul suolo che cedeva e si ricostituiva, ricoprendo
le mie orme di uno spolverio di sabbia grigia.
Dopo circa tre chilometri, mi sedetti a riposare su un sasso
rotondo. Nonostante il freddo, sudavo. La luna si muoveva verso
nord. Dovevano essere circa le tre. Avevo camminato senza fermarmi,
anche se lentamente, ma le creste continuavano a succedersi
l'una all'altra, le colline subentravano alle colline e solo
i cactus e le altre piante del deserto permettevano di distinguere
la terra dal cielo.
Cercai di ricordarmi le carte della zona. Non c'erano strade
ne città, e nemmeno tracce di vita umana di lì
all'altra estremità del deserto; nulla se non desolazione
per chilometri e chilometri. Mi alzai e mi rimisi in cammino.
Ero intorpidito dal freddo, ma continuavo a sudare. A oriente
il grigio del cielo si illuminò, assumendo una sfumatura
rosata e poi più rossa, finché la palla di fuoco
sorse da dietro le colline nerastre. Una suprema indifferenza
ricopriva il deserto e l'eterno rinnovarsi dell'alba, e tuttavia
il mistero di quelle colline, il loro segreto consolatore rendevano
la morte senza importanza. Si poteva morire, ma il deserto avrebbe
mantenuta segreta la nostra morte e ne avrebbe spazzato il ricordo
col vento, il caldo e il freddo.
Era inutile. Come fare a trovarla? E perché cercarla?
Cosa potevo offrirle di diverso da quel mondo brutale che l'aveva
già stroncata una volta? Ripresi il cammino in senso
inverso, triste, nella triste luce dell'alba. Lei apparteneva
alle colline, ora, e le colline l'avrebbero nascosta. Dovevo
lasciarla tornare alla loro solitudine, lasciarla vivere con
i sassi e con il cielo, lasciare che il vento giocasse con i
suoi capelli fino alla fine. Era quella la sua strada.
Il sole era alto quando tornai alla baracca. Faceva già
caldo. Sammy era sulla soglia. - Trovata? - mi domandò.
Non gli risposi. Ero stanco. Rimase a osservarmi per un istante,
poi sparì all'interno. Udii scorrere il chiavistello.
Si cominciava a scorgere, in distanza, il luccichio tremolante
della canicola. Risalii il sentiero fino alla Ford. Presi la
copia del mio libro, del mio primo libro, la aprii e scrissi
a matita sul risguardo:
A Camilla, con amore,
Arturo
Percorsi
un centinaio di metri verso sud-est e, con tutta la forza che
possedevo, gettai il libro nella direzione che lei aveva preso.
Poi montai in macchina, avviai il motore e partii per Los Angeles.
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