John Fante

 

 

A Ovest di Roma
1986 - Fazi editore

Quattro figli (più o meno ribelli e scansafatiche) dediti all'erba e alla musica di Frank Zappa, una moglie stanca e annoiata, una gloriosa casa a forma di ipsilon sulla costa dell'oceano: la vita di Henry Molise, scrittore cinquantenne in crisi di ispirazione sembrerebbe destinata a una quotidianità prevedibile fatta di litigi e rappacificazioni domestiche, libri malriusciti e sbornie solenni.
Ma durante una sera di pioggia qualcosa di imprevisto accade, un altro elemento si aggiunge di forza alla sua sgangherata famiglia a turbarne il già traballante equilibrio: a un gigantesco cane akita, ottuso e testardo (e irrimediabilmente, profondamente frocio). E non c’è nulla da fare: Stupido, questo il suo nome, non se ne vorrà andare, innescherà anzi un'incredibile serie di meccanismi a catena fino a portare il povero Molise sull'orlo di un tragicomico disastro.
Questo l'antefatto narrativo dell'esilarante “Il mio cane Stupido”, cinico, impietoso, ironico, drammatico, grottesco autoritratto di un John Fante ormai alle soglie della piena maturità, tardo e imprevedibile capolavoro di uno dei più grandi scrittori americani del Novecento.
Mai come in questo romanzo breve la scrittura di Fante (uno che non ha certo paura delle emozioni, come diceva di lui Charles Bukowski) si è mostrata così tesa
e tagliente, mai la sua penna ha trovato un'uguale forza comica e corrosiva. Oltre a Il mio cane Stupido, A ovest di Roma comprende anche il racconto L'orgia. Qui la prospettiva si ribalta: la voce narrante appartiene a un bambino, la storia è quella di un intenso rapporto di odio e amore tra padre e figlio.
E se Il mio cane Stupido rappresenta davvero un atto di resa (una resa, appunto, comica e disperata) di fronte alla bellezza e all'insensatezza del mondo, L'orgia narra della fine brutale di un'infanzia, di un sogno infranto.

***

Il mio cane Stupido

l'inizio...

Era gennaio, faceva freddo, era buffo e pioveva, ero stanco e mi sentivo malissimo, i tergicristalli non funzionavano, avevo i postumi di una lunga serata passata a bere e a parlare con un regista milionario che voleva farmi scrivere un film sui Tate Murders tipo Bonny & Clyde, pieno di brio e stile. Nessun accenno ai soldi. «Saremo soci, al cinquanta per cento». Era la terza offerta del genere che ricevevo in sei mesi, segno molto scoraggiante dei tempi.
Procedevo a fatica sulla Coast Highway a quindici miglia l'ora, con la testa fuori dal finestrino, la faccia gocciolante, gli occhi che si sforzavano di seguire la linea bianca, il tettino di vinile della mia Porsche del 1967 (quattro rate ancora da pagare, la società finanziaria che premeva) quasi strappato via dalla pioggia sferzante, quando finalmente raggiunsi l'uscita per l'oceano.
Vivevamo su Point Drupe, una lingua di terra che si spingeva nel mare come una tetta in un film porno, era la Punta più a nord dell'insenatura che forma la baia di Santa Monica. Point Dume è una comunità senza lampioni, un caotico agglomerato suburbano così intersecato da strade piene di curve e senza sfondo che dopo averci vissuto per venti anni mi ci perdevo ancora se c’era la nebbia o se pioveva, finendo spesso a vagare per strade che poi erano solo a un paio di isolati da casa mia.
E come mi aspettavo che sarebbe accaduto in quella notte tempestosa, girai per Bonsall invece che per Fernhill e cominciai il lento, vano tentativo di cercare la mia casa, sapendo bene che, se non fossi rimasto a secco di benzina, sarei tornato un'altra volta sulla Coast Highway, alla cupa luce della cabina alla fermata dell'autobus, da dove avrei telefonato ad Harriet per chiederle di venire a mostrarmi la via di casa.
Dopo dieci minuti lei apparve sulla collina, i fari della familiare perforavano la bufera, e piantandomeli contro parcheggio accanto alla cabina. Suonò il clacson, saltò giù dalla macchina e, con addosso un impermeabile bianco, mi corse incontro. Aveva gli occhi spalancati dalla preoccupazione.
- Ti servirà -.
Tirò fuori da sotto l'impermeabile la mia calibro 22 e me la avvicinò attraverso il finestrino. - C’è qualcosa di terribile in giardino -.
- Cosa? -.
- Lo sa Dio -.
Non volevo quella dannata pistola. Non la volevo prendere. Lei batté il piede in terra.
- Prendila, Henry! Potrebbe salvarti la vita. Me la sbatté sotto il naso -.
- Ma che diavolo è? -.
- Credo che sia un orso -.
- Dove? -.
- Sul prato. Sotto la finestra di cucina -. - Forse è uno dei ragazzi -.
- Con una pelliccia? -.
- Ma di che genere? -.
- D'orso -.
- Forse è morto -.
- Respira -.
Provai a renderle la pistola. - Stammi a sentire, non ho la minima intenzione di sparare a un orso addormentato con una calibro 22! Lo sveglierei e basta. Vado a chiamare lo sceriffo -.
Aprii la portiera, ma lei la richiuse.
- No. Prima guardalo. Forse non è nulla. Forse è solo un asino -.
- Oh, merda. Ora è diventato un asino. Ha delle grandi orecchie?-.
- Non ci ho fatto caso -.
Sospirai e misi in moto. Lei corse alla familiare e la riportò sulla strada. Non c’era nessuna linea bianca, quindi rimasi vicino alle luci posteriori mentre la macchina procedeva lentamente sotto cascate di pioggia.
La nostra casa era su un acro di terra a cento metri dalla scogliera e dal fragoroso oceano sottostante. Era un rancho a forma di ipsilon circondato da un muro di cemento che racchiudeva completamente il terreno. Lungo il muro crescevano centocinquanta alti pini, era quasi come vivere in una foresta, e tutto l'insieme sembrava proprio quello che non era - la residenza di uno scrittore di successo.
Ma era stato tutto pagato, fino all'ultimo rubinetto, e io avevo un fortissimo desiderio di mollarlo e di andarmene dal paese. Sul mio cadavere, mi sfidava sempre Harriet, e mi divertivo spesso con tristi fantasticherie di lei stesa in una pozza di sangue sul pavimento di cucina mentre io scavavo una fossa nel recinto per il bestiame, poi prendevo un volo Alitalia per Roma con settantamila dollari nella tasca dei jeans per cominciare una nuova vita a piazza Navona, con una brunetta, per cambiare.
Ma era buona, la mia Harriet, aveva resistito venticinque anni accanto a me e mi aveva dato tre figli e una figlia, ognuno dei quali, o tutti e quattro, avrei senza rimpianti scambiato per una nuova Porsche, o anche per una MG GT '70.

***

frammenti...

Otto

Stupido non ci creava nessun problema. Non andava mai a zonzo nonostante i due cancelli fossero lasciati aperti, e non era difficile tenerlo fuori di casa. Preferiva stare all'aperto, gli piaceva dormire sul prato sia che piovesse o no, e solo di rado usava la cuccia che gli avevamo messo in garage.
Era un animale che amava il freddo, scoppiava di energia quando sentiva tuonare e la temperatura si abbassava. Se saliva sopra i trentacinque gradi si riparava nell'edera o lotto un albero.
Feci uno sforzo poco convinto per cercare il suo padrone, ma fu piuttosto un gesto per mettere in pace la mia coscienza la decisione di pubblicare un annuncio sul piccolo giornale locale, in cui dicevo di aver trovato un grande cane di sesso maschile e domandavo al proprietario di farsi vivo. Evitai di proposito il gigantesco - L.A.Times -, che copriva ogni città e strada del sud ovest. Dopo aver lasciato l'annuncio per una settimana lo cancellai, registrai Stupido all'anagrafe canina e lo feci vaccinare contro rabbia e cimurro.
Il funzionario che lo registrò scrisse che era un akita puro. Il veterinario Oxnard che fece le iniezioni riteneva che fosse un incrocio fra un cane da slitta e un akita, il suo assistente invece sosteneva che fosse mezzo chow e mezzo akita.
La mia idea era che si trattasse di un akita puro, perché ero andato a una mostra e ne avevo visti altri così - con gli occhi obliqui, le zampe palmate e la coda piumata proprie della razza. Stupido era esattamente come gli akita della mostra.
Era senz'altro uno straniero, con i problemi di adattamento di ogni straniero in un quartiere altolocato, guardato dall'alto in basso da tutti i cani anglosassoni e odiato dalle razze germaniche. Gli andava meglio con i bastardi, ma provava a saltare addosso a ogni maschio senza eccezione. Detestava le femmine, e se erano in calore gli dava contro senza pietà. Aveva atterrito Gracie della signora Epstein. Dopo quel primo incontro non rividi mai più Gracie, per quanto la sentissi abbaiare da dietro casa sua. Naturalmente gli Epstein smisero di parlarci, e ci evitavamo mentre spingevamo i carrelli lungo i corridoi del supermarket.
I cani scorrazzavano liberi per Point Dume, e quando un gruppo turbolento di maschi passò davanti a casa nostra inseguendo una femmina in calore, Stupido uscì a passo di carica fuori dal giardino, disperse i maschi ed ebbe la cagna per se. Lei rimase ad aspettarlo con invitante civetteria, mentre lui le correva incontro. E ricevette il colpo peggiore della sua vita perché lui l'atterrò e gliele suonò senza misericordia fino a quando lei scappò disperata.
Avevo due teorie sul disadattamento di Stupido. La prima, che quando era stato un cucciolo piagnucoloso aveva fatto parte di una grande nidiata con altri nove o dieci fratelli e sorelle, tutti più vigorosi di lui, e quindi al momento di mangiare non gli rimaneva neanche una tetta libera alla quale attaccarsi. E solo quando gli altri si erano saziati riusciva a trovare una fonte accessibile, ma a quel punto sua madre era asciutta, o stufa, e lo scansava.
Stupido risentiva ancora amaramente del trattamento ricevuto, e col passare del tempo, in particolare durante la pubertà, aveva ripensato al fatto che sua madre l'aveva respinto ed era arrivato a odiare tutte le donne.
Oppure che, avendo raggiunto la maturità senza suggerimenti da parte dei genitori, aveva combinato un disastro al primo tentativo di coito. Lei avrebbe potuto essere un alano insensibile, o qualche cagna rude che non solo lo aveva scacciato, ma lo aveva anche umiliato.
In più c’era la questione delle origini. Convinto come ero che venisse dal Giappone, avrei potuto essermi sbagliato nel giudicarlo un akita puro. C’era forse qualche possibilità che sua madre fosse un pastore tedesco. Se fosse stato così, lo scontro fra la cultura orientale e quella teutonica avrebbe potuto generare incredibili complicazioni genetiche. La belligeranza tedesca combinata alla furbizia orientale rappresentava una fusione imprevedibile, come benzina e sakè. Questi elementi avrebbero potuto restate immobili per un po' di tempo, ma prima o poi una deflagrazione era inevitabile.
La strada che conduce al cuore di un cane è la stessa che porta a quello di un uomo: in due settimane Stupido riconobbe in me la persona da cui dipendeva per il cibo, e fu mio.
Avevo bisogno di un cane. Semplificava il circolo della mia vita. Era là, nel giardino, vivo e amichevole, prendeva il posto degli altri cani che erano morti sullo stesso terreno dove lui vagabondava. Riuscivo a capirlo - i miei amici cani, vivi e morti, riuniti nella stessa terra. Aveva senso. Mio padre e mia madre giacevano in un cimitero a nord e io ero vivo a Point Dume, camminavo sulla stessa crosta terrestre della California che teneva anche loro. Capivo anche quello.
Se uscivo la notte con la mia pipa e spostavo il mio sguardo da Stupido alle stelle, vedevo una connessione. Quel cane mi piaceva. Quando ero ragazzo in Colorado mi sedevo con il mio cane e guardavo quelle stesse stelle.
Era l'infanzia che tornava, mi riportava le pagine del catechismo. Chi è Dio? Dio è il creatore del cielo e della terra e di tutte le cose. Dio è ovunque? Dio è ovunque. Dio ci vede? Dio ci vede e vigila su di noi. perché Dio ci ha fatti? Dio ci ha fatti per conoscerlo e amarlo in questo mondo e per essere felici con lui nel prossimo.
Mi sedevo con Stupido sull'erba e ci credevo, a ogni parola. Alle volte quando ero seduto lui si alzava, mi metteva le zampe sulle spalle e cercava di scoparmi. Mi amava. Come altro avrebbe potuto esprimerlo? Con una poesia, con delle rose? Lo colpivo con un gomito, e ciò bastava. Anche Rocco mi aveva amato, e l'aveva espresso mangiando le mie scarpe o facendo a pezzi qualcosa di mio, una camicia, un paio di calzini, il mio cappello, o, tristemente, le impugnature delle mie mazze da golf. Ma Rocco era un tipo disinvolto che amava le cagne, mentre Stupido aveva questo problema con le femmine, che me lo rendeva più caro.
Lui mi faceva bene. Dopo un mese dal suo arrivo iniziai un romanzo. Niente di strano. Cominciavo romanzi tutti i momenti, riempiendo il tempo fra le sceneggiature che dovevo scrivere. Ma si esaurivano per mancanza di fiducia e di disciplina, e li abbandonavo con un senso di sollievo.
Scrivere sceneggiature era più facile ed era più remunerativo, una maniera di scribacchiare unidimensionale, che richiede all'autore solo di tenere in movimento i personaggi. La formula era sempre la stessa: botte e sesso. Quando avevi finito la davi a Belle persone che la facevano a brandelli per ridurla a film.
Ma quando cominciavi un romanzo la responsabilità era spaventosa. Là non eri più solo lo scrittore, ma la star e tutti i personaggi, il regista, il produttore e il cameraman. Se la tua sceneggiatura non andava c’erano moltissime persone a cui darne la colpa, dal regista in giù. Ma se il tuo romanzo era un fiasco, soffrivi da solo.
Avevo scritto quindicimila parole del mio romanzo, non c’erano sintomi del collasso, quando mi tornò l'antica smania di abbandonare la famiglia. Le pagine volavano, e io avevo voglia di stare da solo. Pensai a Roma, naturalmente, e mi baloccai persino con l'idea di portare Harriet con me. Per andarci avremmo prima di tutto dovuto vendere la proprietà di Point Dume, impossibile finché avevamo i ragazzi sulle spalle. E quanto al cane, non credo che avrebbe amato Roma, dove tutti i cani, al guinzaglio per legge, devono anche portare la museruola. Comunque non avevo mai immaginato Stupido con me a Roma. Mi serviva solo fino a quando non avessi potato fare la mia mossa. Con i ragazzi via e la casa venduta, sarei stato ricco e libero.
Più facevo piani e sognavo, meno Harriet entrava nel mio progetto. Dopo tutto non credevo che Roma le sarebbe piaciuta. Separata dagli amici, isolata dalla barriera della lingua e culturalmente aliena, avrebbe potuto trovarla insopportabile. Inoltre non provava più alcun affetto particolare per le cose italiane. Decisi che l'unica soluzione era di affittarle un appartamento a Santa Monica, allora sarei potuto partire per piazza Navona e tuffarmi nella nuova vita.

***

la fine..

Il recinto per gli animali era sulla metà a nord del mio acro di terreno, dietro a una siepe d'edera che divideva la proprietà. Era piccolo, attaccato a un capanno dove Tina nel suo periodo equestre aveva tenuto un paio di cavalcature.
Volevo fare una sorpresa ad Harriet. Sapevo che il ritorno del cane l'avrebbe fatta felice e contenta, e quanto al maiale, bene, almeno non era un altro bull terrier. Inoltre ad Harriet i maiali piacevano. Ce n'erano stati molti nella sua infanzia, nella fattoria vicino a Sacramento dove era cresciuta. Più silenziosamente che potei, passai con la familiare attraverso l'apertura della siepe e feci retromarcia fino al cancello del recinto.
La mia idea era di presentare ad Harriet una scena rustica e idilliaca, il cane e il maiale giocosi sulla terra pulita e nuda del recinto, ma questo era ridotto male perché nessuno se ne era mai occupato, era pieno di erbacce e disseminato da buchi di tartarughe. Non essendo un patito di sterpaglie, rimandai la pulizia.
Con un. paio di tavole costruii una rampa per far scendere Maria della macchina. E lei affrontò la discesa senza timore, scivolando nel recinto sul sedere. Stupido la raggiunse in un balzo e io chiusi il cancello. Annusando e grugnendo dal piacere, il maiale fece una rapida ispezione della sua nuova casa, correva sulle erbacce con piccoli passi veloci. Poi si mise a lavorarci sopra, strappandole alla radice. Stupido fece un paio di tentativi e subito perse interesse. Misi un catino sotto la pompa e lo riempii d'acqua. Andarono a bere l'uno accanto all'altra.
Il maiale sorridente non mi levò mai gli occhi di dosso, e io sentii che saremmo andati molto d'accordo. Appollaiato sul recinto, guardavo il suo muso che scavava un solco fra i monticelli delle tartarughe e il suo dorso rotondo luccicava come una perla enorme alla luce del sole. Emanava confortanti vibrazioni borghesi di stabilità e di fede nello spirito santo. Era di nuovo mia madre. Con il grugno incrostato di terra, si allungò con indolenza sulla terra calda. Stupido si lasciò cadere accanto a lei e le lavò il muso. Non l'avevo mai visto cosìi contento. I suoi problemi erano svaniti. Ora c’era dolcezza nella sua espressione. La cupa tristezza se ne era andata.
- Henry? -.
Detti uno sguardo ad Harriet che mi stava osservando dalla siepe. Le feci cenno di avvicinarsi. Esitava. - Cos'è?-.
Le feci un altro cenno.
Sembrava a disagio mentre si avvicinava al recinto attraverso le erbacce intorno alla macchina. Il maiale e il cane erano stesi l'uno accanto all'altro, e le mammelle del maiale pendevano come palloni sgonfi. Quando Harriet li vide, qualcosa le si ruppe dentro. Sentii che stava andando in pezzi. I suoi occhi si spostarono dal recinto e si posarono su di me. Erano pieni di confusione, pietà e disperazione. Senza dire nulla, si girò e tornò verso casa.
Rimasi seduto eretto e la guardavo allontanarsi da me, sempre di più, camminava senza voltarsi, oltrepassò la siepe, il garage, entrò attraverso la porta di servizio nelle profondità della grande casa solitaria.
Guardai oltre la casa, verso l'orizzonte della baia blu. Scintillando nella luce del sole, un 747 ronzava remoto mentre faceva un ampio giro sul mare e ripiegava sulla terraferma, dirigendosi verso Chicago, New York o forse Roma. Il mio sguardo cadde sul tetto bianco della casa fatta a ipsilon, sulle tende di organza alle finestre di Tina, sui rami del grande albero che sosteneva ancora i resti di una casa di legno che Dominic aveva costruito da ragazzo, poi i miei occhi si spostarono sul parafango arrugginito della macchina di Denny che sporgeva dal garage e sulla malridotta rete da basket di Jamie.
E piansi.

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