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Quella
donnaccia
Stavamo cenando quando zio Clito emerse dalla
tempesta di neve. Si tolse le soprascarpe, si alitò nelle
mani ghiacciate, e fece il suo ingresso in sala da pranzo.
Papà gli chiese se voleva un po' di pasta e fagioli,
ma disse di no. A cavalcioni su una sedia, il mento poggiato
sullo schienale, i suoi vigili occhi scuri presero a esaminare
il tavolo. Presero nota del vino, di quanto papà ne aveva
bevuto, di quanto burro avevamo spalmato sul pane, e di tutto
il resto. Mamma si aggiustò il vestito e i capelli. Con
zio Clito bisognava stare bene attenti: era maestro nello scoprire
qualcosa fuori posto. Noi bambini, per dire, nascondemmo subito
le mani perché non potesse vederci le unghie poco curate.
Zio Clito faceva il barbiere. Era il fratello più grande
di mamma, l'unico a esser nato in Italia. Parlava un inglese
approssimativo, e la sua bottega era la migliore della Little
Italy di Denver. Era ricco, zio Clito, eppure non si era sposato,
con la scusa che non avrebbe potuto permettersi di mantenere
una moglie.
Tutti lo temevano. Poteva scoprire che qualcosa era fuori posto
anche dagli indizi più insignificanti. Quando andavamo
da lui per tagliarci i capelli, mamma ci faceva mettere il vestito
della domenica. E questo perché una volta zio Clito aveva
notato le mie scarpe rotte e ne aveva dedotto che papà
s'era rimesso a giocare. Aveva ragione.[...]
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