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Una
moglie per Dino Rossi
tre racconti tratti da Dago Red - Sellerio,
pag.107 |
- Una moglie per Dino Rossi
- Il chierichetto
- Prima comunione
John
Fante mi telefona per invitarmi a colazione. Lo scrittore lavora
alla Columbia Pictures, al numero l438 di North Grover Street,
a due passi dal mio albergo, e alle dodici in punto vado a prenderlo
nel suo studio, che si compone di due stanzette, una per lui
e l'altra per la sua segretaria. Dei vecchi stabilimenti di
Hollywood la Columbia è l'unico che non abbia cambiato
di posto. Qui è il regno di Harry Cohn, l'ultimo dei
grandi produttori di una volta che facevano il buono e il cattivo
tempo. Ha sessantacinque anni e lo chiamano l'ultimo dei Mohicani,
perché di gente come lui a Hollywood si è perduto
lo stampo. Fu lui a dar fiducia a Frank Capra, lui che da una
grassa ballerina di flamenco che si chiamava Margherita Cansinò
riuscì ad estrarre la divina Rita Hayworth e ora è
sempre lui che sta fabbricando la carriera di Kim Novak.
John Fante lavora per lui. Da quanto tempo desidero conoscere
questo scrittore! Almeno da quando lessi il suo primo racconto,
venti anni fa, che si intitolava: Bricklayer in che Snow (Muratore
nella neve), ed era la storia di suo padre, un muratore abruzzese
emigrato nel Colorado. Anche l'ultimo soggetto di John Fante
è stato ispirato da suo padre e si chiama Full of life
ed è la storia di come suo padre gli ha fabbricato la
casa di Malibù, sul mare, al numero 2898l di West Cliff
Side, dove lo scrittore abita ancora con la moglie, di origine
irlandese, e quattro bambini. Con questi pensieri entro nel
suo studio e mi trovo davanti un omino dagli occhi neri e vivaci,
il profilo piuttosto bello e una camicia di flanella rossa.
Usciamo a far colazione in un piccolo ristorante italiano che
si chiama, manco a dirlo, Naples, e non ci siamo neanche seduti
che siamo già amici. Anche mia madre è abruzzese,
come suo padre. E gli abruzzesi non sono gente che chiacchiera
molto, con tutto il rispetto per la memoria di Gabriele D'Annunzio.
Ma ci si intende con un'occhiata, un gesto, un'allusione. John
Fante non mi dice dunque niente della sua vita. Ma io gli faccio
subito capire che la conosco, perché tutto quello che
è successo a lui, a suo padre e a sua madre egli, John
Fante, l'ha scritto nei suoi libri e io li ho letti. Gli racconto
di come suo padre fece la corte a sua madre a Denver, nel Colorado,
e come si sposarono. Gli descrivo come lui, John Fante, fece
la prima comunione. Queste storie sono quelle dei suoi libri
Aspettia primavera, Bandini e Dago Red, e quanto al resto, alle
sue personali avventure, egli le ha consegnate alla carta in
Chiedi alla polvere, e via via sino a Full of life. Così
io conosco non solo la vita ma i pensieri di John Fante e lo
scrittore, che è un uomo buono, dolce e malinconico,
ma tutt'altro che ingenuo, finisce per dirmi che, per quanto
la cosa lo lusinghi e gli faccia piacere, non è del tutto
leale, perché lui non sa niente della mia vita. E subito
mi chiede che razza di scrittore sono. Vuole dire: sono anch'io
uno scrittore all'americana, come i tanti scrittori giovani
italiani che egli conosce nelle traduzioni? Il fatto di viaggiare
molto, parlare lingue straniere, cambiare spesso di paese non
mi avrà, per caso, imbastardito? Lui, in fatto di scrittori
italiani, è rimasto fedele a Verga, a Manzoni, a Nievo,
e io gli dico che è una buonissima compagnia. E del resto,
come si può imbastardire un abruzzese, dato che io sia
veramente uno scrittore? La risposta sembra tranquillizzarlo
per quanto sia io, a questo punto, a non essere affatto tranquillo.
L'osservazione di John Fante è molto semplice, ma semplicemente
egli mi ha anche messo il dito sulla piaga. Gli faccio poi osservare
che non sono qui per parlare di me, ma di lui. E’ contento
di quello che fa? E felice? Ah, questa volta sono io a toccare
una piaga segreta.
- Vedi -, mi spiega con dolcezza - io adesso guadagno qualcosa
come millecinquecento dollari alla settimana. Sono seimila dollari
al mese, di cui le tasse mi portano via una grossa fetta, d'accordo,
ma con qualche sotterfugio legittimo, come quello di mettere
in conto le spese di trasporto, segretaria, rappresentanza e
via discorrendo, mi resta pur sempre una bella sommetta. Mi
dovrebbe restare, almeno. E invece è grasso che cola
se riesco a mettere da parte cinquecento dollari al mese. Ho
venticinquemila dollari di economie, ed è tutto. Con
una somma simile -, mi chiede umilmente - quanto tempo riuscirei
a vivere in Italia, con la mia famiglia? -.
Insomma, da quando fa lo scrittore di soggetti e lo sceneggiatore,
non gli riesce più di scrivere una linea per conto suo.
Prima guadagnava molto meno, e i soldi gli bastavano lo stesso.
E lui sente che il tempo passa, e lui non fa più lo scrittore.
Come si vive in Italia? Quanto costa da noi la vita? Prima della
guerra egli fece un viaggio in Italia, e ne tornò sconfortato.
Niente somigliava al paese di cui gli avevano parlato suo padre
e sua madre. Ma egli sente che ora l'Italia è cambiata,
è un paese libero, rimasto di misura umana, dove forse
egli potrebbe trovare la pace, la tranquillità, l'ispirazione.
Quanto tempo potrebbe resistervi con venticinque, trentamila
dollari in un paese come Positano, per esempio. Due anni, due
anni e mezzo. Torniamo nel suo studio, alla Columbia, e mi consegna
l'ultimo copione che ha scritto per Harry Cohn. Si chiama Le
rose, e si svolge in Italia nel primo dopoguerra. E’ stato
proposto a Fellini, a De Laurentis per una co-produzione. Così
torniamo a parlare di lavoro. Mi metto a leggere il copione,
seduto in un divanetto, mentre lui, dalla scrivania, mi spia.
- Non va? Sento che non va -, dice, con un sospiro. Gli faccio
segno di no, che mi piace. - C'è un solo altro paese
dove vorrei vivere, se non riesco ad andare in Italia -, dice.
- il Colorado. Un paese di montagna, come l'Abruzzo. Il cielo
è sempre chiaro lassù, l'aria leggera ed esilarante
come lo champagne. In fondo, è il mio paese -.
Agosto
l957
Dalla postfazione di “Una moglie per
Dino Rossi”
di Gian Gaspare Napolitano
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