John Fante

 

Dago Red
1940 - Marcos y Marcos, pag.144


 

Dago Red, cioè il vino rosso degli immigrati d'origine italiana, perchè Dago era uno dei molti modi in cui, con un certo disprezzo, si potevano chiamare gli italiani d'America.
Dago Red è la raccolta dei primi racconti di John Fante, per cui questo splendido libro è una specie di incunabolo, il preannuncio di tutta una carriera letteraria, il primo seme di una lussureggiante fioritura romanzesca. Il padre burbero muratore spesso senza lavoro, la madre apprensiva, la sorella bigotta, i riti cattolici, le continue frizioni interrazziali, l'adorato baseball, le donne sognate, amate e perdute, e la morte: come l'esposizione al rallentatore di tutti i temi che saranno sviluppati poi nei romanzi migliori...

 

***

L’Odissea di un wop


I

Sto mettendo insieme pezzi di storie sul conto di mio nonno. E’ la nonna a parlarmene. Quand'era vivo, mi dice, era un brav'uomo, la cui bontà suscitava più pietà che ammirazione. Era noto come "il bravo piccolo Wop". Se c'era da passare una serata, gli piaceva di starsene seduto al tavolo di un saloon a sorseggiare un bicchierino di anisetta, tutto solo. Se ne stava là come una ragazzina intenta a ciucciare un cono gelato. Gli piaceva, al vecchio, quella roba verde, quell'anisetta; era la sua passione, e quando i compari lo vedevano là seduto per conto suo, la cosa li metteva di buonumore, perché lui era un bravo piccolo Wop.
Dunque una sera, dice la nonna, il nonno se ne stava al suo tavolo al saloon, lui e la sua anisetta. Si aprono i battenti della porta a vento e irrompe un camionista sbronzo che si aggrappa al bancone e bercia:
- Forza, tutti qui! Avanti, offro io! -
Mio nonno è rimasto seduto, immobile, con quella sua vecchia lingua che faceva l'amore con l'anisetta. Tutti gli altri si sono avviati al banco per brindare col camionista. Quello si guarda attorno. Vede mio nonno. Lo insulta.
- Anche te, Wop! - dice. - Vieni a bere! -
Silenzio. Si alza il nonno. Caracolla sul piancito, oltrepassa il camionista e poi che ti fa? Varca la porta a vento e se ne esce sulla strada piena di neve. Alle sue spalle scoppiano le risate. E questo gli brucia. Ma se ne va a casa, da mio padre.

- Mamma mia! - balbetta -Tummy Murray, m'ha ditto Wop. A me! -
- Sangue della Madonna! -
A capo scoperto, mio padre si precipita in strada, e poi dritto al saloon. Tommy Murray non c'era più, era andato a un altro saloon mezzo isolato più avanti, ed è lì che mio padre lo ha beccato. L'ha tirato da un lato e gliene ha dette un paio in faccia. Mazzate! In un momento, capelli strappati, sangue che schizza. Sedie rovesciate. Applausi dalla clientela. Se le sono date per un'ora intera. Rotolando sul pavimento, pigliandosi a calci, bestemmiando, morsicandosi. Due corpi avvinghiati in mezzo al pavimento: un viluppo umano. A un certo punto la testa, il petto e le braccia di mio padre seppelliscono la faccia del camionista. Quello urla. Mio padre ringhia. Aveva il collo irrigidito, e tremava. Il camionista urla di nuovo, e poi resta lì, fermo. Si alza mio padre, asciugandosi col dorso di una mano il sangue che gli era rimasto sulla bocca aperta. A terra giace il camionista, con un orecchio mezzo staccato dalla testa... Questa è la storia che mi racconta mia nonna.
Penso a quei due, mio padre e il camionista; me li figuro mentre lottano per terra. Accidenti! Mio padre che fa a botte!
Mi viene un'idea. I miei due fratelli stanno giocando nell'altra stanza. Pianto la nonna e vado da loro. Stravaccati sul tappeto, trafficano coi loro pastelli e i fogli da disegno. Alzano gli occhi e vedono la mia faccia su cui brilla quell'idea.
- Qualcosa che non va? - domanda uno.
- Vi sfido a fare una cosa -.
- Che cosa? -
Vi sfido a chiamarmi Wop! -
Il mio fratello più piccolo, che non ha neanche sei anni, salta in piedi e, ballandomi attorno, grida: - Wop! Wop! Wop! Wop! -
Lo guardo. Puah! Troppo piccolo. E’ l'altro, è il mio fratello più grande quello che voglio. Ha anche le orecchie, oh se ce l' ha!
- Scommetto che hai paura di chiamarmi Wop -. Lui però ha già sentito puzza di bruciato.
- Ma va là - dice. - Non voglio - .
-Wop! Wop! Wop! Wop! - grida il piccolo. - Chiudi quella bocca, te! -
- Non ci penso nemmeno. Sei un Wop! Wop! Wop! Woppety Wop! -
La scatola di pastelli del mio fratello più grande è lì per terra, giusto davanti al suo naso. Ci metto sopra il tacco e la stritolo. Lui urla, afferrandomi la gamba. Io mi divincolo, e lui attacca a piangere.
- Uh, me l'hai fatta sporca - dice.
- Ti sfido a chiamarmi Wop! -
- Wop! -
Vado alla carica, a caccia del suo orecchio. Ma entra la nonna, agitando la coramella del rasoio.


II

Fin dall'inizio ho sentito mia madre usare le parole "Wop" e "Dago" in un tono che denota un profondo disgusto. E’ come se le sputasse fuori. Come se le si slanciassero dalle labbra. Per lei, contengono l'essenza stessa della povertà, dello squallore, della sporcizia. Se non mi lavo i denti, se non mi scappello quando è il caso, mia madre dice: - Non fare così. Non fare il Wop -. Così, man mano che i suoi valori diventano i miei, Wop e Dago sono sempre più sinonimi del male. Ma lei, almeno, è coerente.
Mio padre no. Ha la lingua sciolta, lui. Come gli gira, così la pensa. Capisco che per lui "Wop" e "Dago" non hanno un significato preciso; tuttavia, se è un non italiano a sbatterglieli in faccia, le cose cambiano: è un insulto grave.
Cristoforo Colombo, dice mio padre, è il più grande Wop che ci sia mai stato. E così Caruso. E così questo e quello. Ma il suo carissimo amico Peter Ladonna non è soltanto un porco ubriacone, per giunta di rotolo è proprio un Wop; e naturalmente tutti i suoi cognati non sono altro che dei Wop buoni a nulla.
Fa finta di odiare gli irlandesi. Non è vero, ma gli piace pensarlo, e a noi bambini ci aizza sempre contro di loro. Il nostro droghiere si chiama O'Neil. Spesso, senza accorgersene, sbaglia i conti quando mia madre va alla sua bottega. Poi lei racconta a mio padre che le ha pesato male la carne o le ha dato un uovo marcio.
Subito mio padre si innervosisce, e il labbro inferiore gli si increspa. - Questa è l'ultima volta che quel puzzone d'un irlandese mi frega! - Poi esce, e a passi pesanti si avvia alla bottega.
Poco dopo ritorna. Sorride. In un pugno stringe una manciata di sigari. - D'ora in poi - dice - tutto a posto -.
A me non piace, il droghiere. Mia madre mi manda alla sua bottega ogni giorno, e lui subito mi spezza il respiro con quel suo saluto: - Salve, piccolo Dago! Che ti serve? - Lo detesto; non entro mai nella sua bottega se in giro c'è qualche altro cliente, perché esser chiamato Dago davanti agli altri è un'umiliazione spaventosa, quasi fisica. Lo stomaco mi si dilata e si contrae, ed è come sentirsi nudi.
Quando il droghiere mi da le spalle, rubo senza pudore. Mi fa piacere derubarlo: di caramelle, dolci, frutta. Quando deve andare nella cella frigorifera, mi sporgo sulla bilancia della carne sperando di sgraffignargli una costoletta; oppure con la punta del piede gli schiaccio un cesto di uova. Certe volte rubacchio un po' troppo. E che piacere, allora, starsene lì sul marciapiede, bello satollo, a buttar via le sue caramelle, i suoi dolci, le sue mele nell'erbaccia gialla e incolta dall'altra parte della strada!...
- Maledizione, O'Neil, non è che puoi chiamarmi Dago e passarla liscia!-
Sua figlia ha la mia età. E’ strabica. Due volte a settimana passa davanti a casa nostra per andare alla lezione di musica. Dall'alto, tra i rami di un olmo, la osservo avanzare lungo il marciapiede, dondolando la custodia del violino. E quando ce l'ho sotto di me, le canto una bella filastrocca:

Marta è strabicaaaaaa! Marta è strabicaaaaaa! Marta è strabicaaaaaa!


III

Crescendo, mi rendo conto che gli italiani usano le parole Wop e Dago assai più spesso degli americani. Mia nonna, il cui vocabolario inglese è ristretto ai sostantivi più comuni, le adopera sempre quando si trova a discutere di italiani contemporanei. Quelle parole non vengono mai fuori serenamente, discretamente. Piuttosto irrompono. C'è questa intonazione sfacciata, e poi è come se qualcuno venisse tramortito, stroncato.
Fin dal primo giorno, alla scuola parrocchiale, ho il tremendo timore di essere chiamato Wop. Non appena scopro per quale motivo la gente usa cose come i cognomi, raffronto il mio con altri tipici cognomi italiani come Blanchi, Borello, Pacelli, nomi di altri studenti. Il paragone mi dà un piacevole senso di sollievo. Dopotutto, penso, la gente dirà che sono francese. Forse che il mio nome non ha un suono francese? Certo! E da allora in poi, quando mi domandano di che nazionalità sono, gli dico che sono francese. Qualche ragazzo comincia a chiamarmi Frenchy. Mi piace. E’ bello.
Insomma prendo a detestare le mie origini. Evito i ragazzi e le ragazze italiane dai modi amichevoli. Ringrazio Dio per la mia pelle chiara e per i capelli, e i miei compagni me li scelgo in base al suono anglosassone dei loro nomi. Se un ragazzo si chiama Whitney, Brown, oppure Smythe, allora è amico mio; però sto sempre un poco in apprensione quando sono con loro; potrebbero scoprirmi. A ora di pranzo mi raggomitolo sulla mia gamella, perché mia madre non è il tipo che mi dà panini avvolti in carta incerata, li fa anzi troppo grossi, con le foglie di lattuga che vengono fuori. Per di più, e pane fatto in casa, non di panetteria, non pane "americano". Mi lamento assai perché non posso avere maionese e altre cose "americane".
Il parroco è un buon amico di mio padre. Gironzola per i campi di gioco della scuola, dà un'occhiata ai bambini che giocano. Mi da una voce, mi domanda che fa mio padre, poi mi dice che dovrei essere orgoglioso di studiare i miei grandi compatrioti. Colombo, Vespucci, Giovanni Caboto. Parla a voce alta, allegramente. Gli altri studenti fanno capannello intorno a noi, ascoltano, e io mi mordo le labbra e prego Gesù che la smetta e se ne vada.
Capita poi che senta parlare di un tizio chiamato Dante. Ma quando scopro che era italiano mi viene da odiarlo, come se fosse vivo, come se stesse passeggiando tra le aule e puntasse il dito verso di me. Un giorno trovo il suo ritratto in un dizionario. Lo guardo e mi dico che non ho mai veduto un bastardo più brutto.
Un giorno, siamo un po' di studenti alla lavagna, e al mio fianco c'è una ragazza italiana dagli occhi dolci, una che odio ma che insiste nel dire che sono il suo moroso. Mi tira per una manica, si struscia, un po' impacciata, un po' in punta di piedi, mi fa dei sorrisetti strani. Io ghigno e le volto le spalle, poi mi allontano da lei più che posso. La suora nota l'ampio spazio che ci separa e mi dice di mettermi più vicino alla ragazza. Lo faccio, e quella si scosta, avvicinandosi alto studente che sta dall'altra parte.
Allora mi guardo i piedi ed ecco, c'è una macchia umida che si allarga. Do una rapida occhiata alla ragazza, e quella, col capo ciondoloni, mi sta guardando come se volesse chiedermi di farmi carico della sua colpa. Attiriamo l'attenzione dagli altri, e presto tutta la classe comincia a ridacchiare. Arriva la suora. Penso di essere di nuovo nei guai, ma quella mi abbraccia e mormora che avrei dovuto farle segno con due dita e certamente mi avrebbe dato il permesso di uscire. Però, dice, ormai non ce n'è più bisogno; non mi resta che andare a darmi una ripulita. E’ quello che faccio, in preda a un'isteria che mi rafforza nella convinzione che solamente una ragazza Wop, solamente una venuta fuori da una famiglia di Wop, avrebbe potuto fare una cosa come questa.
Oh, Wop! Oh, Dago! Mi date fastidio pure quando dormo. Sogno di difendermi dal miei tormentatori. E’ un giorno vengo a sapere da mia madre che da giovane papà se n'era andato in Argentina e per due anni aveva vissuto a Buenos Aires. Mia madre mi racconta di quello che gli era capitato laggiù, e io per tutto il giorno non riesco a pensare ad altro, anche quando è ora di andare a letto. Quella notte mi risveglio con un sobbalzo. Nel buio, brancolo verso la camera di mia madre. Al suo fianco dorme mio padre, e io la sveglio piano, in modo che lui non si desti.
Sussurro: - Sei sicura che papà non è nato in Argentina? -
- No. Tuo padre è nato in Italia -.
Torno a letto, sconsolato, disgustato.


IV

Durante una partita di baseball sul campetto della scuola, un ragazzo della squadra avversaria si mette a prendere in giro il mio modo di giocare. Siamo al nono inning, e io mostro di ignorare le sue battute. Stiamo perdendo, però, se mi riesce di mettere a segno un solo colpo, le nostre possibilità di vittoria sono piuttosto buone. Sono deciso a farcela, e affronto il battitore con sicurezza. Il mio tormentatore vede che sono al piatto.

- Oh oh! - grida. - Guarda chi c'è! C'è il Wop. Facciamolo fuori, quel Wop! -
Questa è la prima volta che a scuola qualcuno si permette di far volare quella parolina; sono così arrabbiato che sbaglio il lancio come un fesso. Dopo la partita ci picchiamo, quel ragazzo e io, e lo costringo a rimangiarsi tutto.
Ed e così che i giorni di scuola sono diventati giorni di risse. Quasi ogni pomeriggio alle tre e un quarto si raduna una folla per vedere come faccio rimangiare tutto a qualcuno. C'è da divertirsi: eccomi qua, sto arrivando, dunque fatevi avanti, vi sfido a chiamarmi Wop! Alla fine, quando non c’è più nessun ragazzo che osa sfidarmi, gli insulti mi vengono riportati da confidenti, così mi tocca di cercare i colpevoli. Incedo nei corridoi. I ragazzi più piccoli mi ammirano. - Eccolo! - dicono, e restano lì a contemplarmi. I miei due fratelli minori frequentano la stessa scuola, e il più piccolo, una canaglietta di sette anni, mi porta i suoi amici e mi chiede di tirarmi su la manica e mostrar loro i muscoli. Bene ragazzi: guardate.
Mio fratello, a casa, fa resoconti furiosi delle mie battaglie. Mio padre ascolta avidamente, e io sto lì in piedi, pronto a correggere ogni dettaglio impreciso. Giorni tristemente felici! Mio padre mi istruisce: così devo tener la guardia, così devo proteggermi il capo. Mia madre, troppo impressionata per sentirne di più, si preme le tempie, strizza gli occhi, se ne va.
Sono nervoso quando porto a casa qualche amico: quel posto ha un'aria troppo italiana. Qua c’è appeso un ritratto di Vittorio Emanuele, e più sopra c’è una foto del Duomo di Milano, e vicino ce n'è una di San Pietro, poi sulla credenza c’è una caraffa di foggia medievale, piena sempre fino all'orlo di un vino rosso rubino. Tutte queste cose sono cimeli di famiglia di mio padre e, chiunque venga a casa nostra, a lui piace piazzarsi là sotto e vantarsi.
Così, comincio a rinfacciarglielo. Gli dico di smetterla di fare il Wop e di diventare americano una buona volta. E lui subito prende la coramella del rasoio e me le suona di santa ragione, incalzandomi di stanza in stanza fino a fuori. Mi rifugio nel ripostiglio e mi tiro giù i pantaloni e tendo il collo per controllare i lividi sul sedere. Un Wop, ecco che cos'è mio padre! Non esiste un solo padre americano che picchi suo figlio in questo modo. Bè, per questa strada non andrà molto lontano; un giorno o l'altro gliela faccio pagare.
Poi penso che mia nonna è una Wop senza speranza. E’ una piccola contadina tracagnotta che va in giro con le braccia incrociate sulla pancia, una vecchia sempliciotta appassionata di bambini. Entra in camera mia e cerca di parlare coi miei amici. Parla inglese con un pessimo accento, con questo incessante rotolio di vocali. Quando, con quel suo fare semplice, con quei vecchi occhi sorridenti, si mette davanti a uno dei miei amici e dice: - Ti piace a te di andare alla scola delle monache? - , il cuore ml si ribella. Mannaggia! Che disgrazia: ormai lo sanno tutti, che sono italiano.
Mia nonna mi ha insegnato a parlare la sua madrelingua. Verso i sette anni, la conosco abbastanza bene, e con lei la parlo sempre. Però, sui dodici-tredici anni, quando ci sono i miei amici, fingo di non capire quello che dice, e faccio dei sorrisi affettati. I miei amici non si arrischiano a pensare che possa parlare altra lingua al di fuori dell'inglese. Certe volte, questo atteggiamento la manda in bestia. Si irrigidisce, le si tende la cute della gola, e allora bestemmia, bestemmia poderosamente.

[...]

***

Rapimento in famiglia


C'era un vecchio baule nella camera da letto di mamma. Era il più vecchio baule che avessi mai visto, uno di quelli col coperchio arrotondato, come la pancia di un ciccione. Ficcata dentro questo baule, sotto la biancheria del corredo che non si usava mai appunto perché era il corredo; sotto l'argenteria che non si usava mai perché era un regalo di nozze; e sotto ogni sorta di nastri fantasia, bottoni, certificati di nascita; sotto tutto questo c'era una scatola con le foto di famiglia. Mamma non permetteva a nessuno di aprire il baule, e teneva nascosta la chiave. Ma un giorno io la trovai. La trovai nascosta sotto lo zerbino.
Quell'anno, nei pomeriggi di primavera, tornavo a casa da scuola e trovavo mamma che sfaccendava in cucina. Lavorava così tanto che aveva le braccia molli, bianche come argilla disseccata, i capelli secchi e sottili incollati alla testa e gli occhi scavati, grandi e tristi.
La foto! pensavo. Oh, quella foto nel baule!
Quando mia madre non guardava, me la svignavo in camera da letto, chiudevo a chiave e aprivo il baule. C'erano molte foto là dentro, e mi piacevano tutte, ma ce n'era una sola che le mie dita bramavano stringere e i miei occhi non vedevano l'ora di ammirare ogni volta che trovavo mamma conciata in quel modo. Quella foto le era stata scattata una settimana prima di sposare mio padre.[...]

 

 

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