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Un
anno terribile
1985 - Fazi editore, pag.121 |
Lo stordimento, la freschezza, il dolore,
la pietà, la forza, lo stupore, la follia, la comicità,
l'incanto, l'esagerazione, la tristezza, il desiderio, la vergogna,
la sfrontatezza, l'amore, la paura, l'ossessione e la devozione
della sua scrittura: ormoni , una straordinaria carica ormonale.
Ecco il segreto della sua eterna giovinezza di romanziere; della
giovinezza Fante è riuscito ad individuare il fungo magico,
metabolizzandolo nella scrittura, ha saputo pilotare gli ormaoni
nelle parole.
Ha disegnato un'America trasfigurata dalla causa della giovinezza,
non dai suoi effetti: che cosa grandiosa".
Dalla prefazione di Sandro Veronesi.
***
l'inizio...
Era duro, l'inverno del l933. Quella sera,
arrancando verso casa attraverso fiamme di gelo, con le dita
dei piedi che mi bruciavano, le orecchie che andavano a fuoco,
e la neve che mi turbinava intorno come un nugolo di suore furibonde,
mi fermai di colpo. Era giunto il momento di tirare le somme.
Con la pioggia o col sereno c'erano delle forze al mondo che
cercavano di distruggermi.
Dominic Molise, mi dissi, aspetta un attimo. Sta andando tutto
secondo i tuoi piani? Esamina attentamente la tua condizione,
considera obiettivamente il tuo stato. Che succede, Dom?
Vivevo a Roper, Colorado, e invecchiavo di momento in momento.
Avrei compiuto diciotto anni di lì a sei mesi, e avrei
preso la maturità. Ero alto un metro e sessantadue, e
negli ultimi tre anni non ero cresciuto di un solo centimetro.
Avevo le gambe arcuate, i piedi a papera, e le orecchie a sventola
come quelle di Pinocchio. I miei denti erano storti e la faccia
lentigginosa come un uovo di uccello.
Ero figlio di un muratore disoccupato da cinque mesi. Non avendo
un cappotto, mi mettevo tre golf, e mia madre aveva già
cominciato una serie di novene per il vestito di cui avrei avuto
bisogno a giugno per l'esame.
Signore, dissi, perché in quei giorni ero un credente
che parlava con franchezza con il suo Dio: Signore, che sta
succedendo? E’ questo quello che vuoi? E’ per questo
che mi hai messo sulla terra? Non ho chiesto io di nascere.
Non c'entravo per niente, salvo che ora sono qui e ti sto facendo
domande oneste, ti chiedo i motivi, per cui dimmi, mandami un
segno: è questo il premio per cercare di essere un buon
cristiano, per dodici anni di catechismo e quattro di latino?
Ho mai messo in dubbio la Transustanziazione, la Trinità,
o la Resurrezione? Quante messe ho perso la domenica e le feste
comandate? Le puoi contare sulle dita, Signore.
Stai giocando con me? Ti sono sfuggite le cose di mano? Hai
perso il controllo? Lucifero ha riguadagnato potere? Sii onesto
con me, perché sono sempre preoccupato. Dammi un segno.
Vale la pena di vivere? Le cose si aggiusteranno o no?
Vivevamo a Arapahoe Street, ai piedi della prima collina che
poi cresceva a formare il lato est delle Montagne Rocciose.
Si elevavano come grattacieli frastagliati, e fissavano la nostra
città, una foschia azzurra e verde durante l’estate,
bianca come lo zucchero in inverno, con guglie avvolte dalle
nuvole. Ogni inverno c'era qualcuno che si perdeva lassù,
rimanendo intrappolato in un burrone o seppellito da una slavina.
In primavera la neve disciolta trasformava Roper Creek in un
fiume selvaggio che portava via steccati e ponti, e che allagava
le strade, ammassando fango su Pearl Street e inondando la cantina
del tribunale. Un paese freddo, dal brutto carattere, il cui
terreno era una lastra di ghiaccio per tutto aprile, con la
neve la domenica di Pasqua, e a volte un'improvvisa tormenta
a maggio: un paese pessimo per un giocatore di baseball, specialmente
per un lanciatore che non toccava palla da ottobre.
Ma Il Braccio mi dava la forza di andare avanti, il mio dolce
braccio sinistro, quello più vicino al cuore. La neve
non poteva fargli male e il vento non poteva ferirlo perché
lo tenevo ricoperto di Balsamo Sloan, una bottiglietta che avevo
sempre in tasca. Ero intriso di quel fetore, a volte venivo
mandato fuori dalla classe per andarmi a lavar via quell'acuto
odore di pino, ma io uscivo a testa alta, senza vergogna, ben
conscio del mio destino, corazzato contro i sogghigni dei ragazzi
e i nasi tappati delle ragazze.
Avevo un'andatura grandiosa in quei giorni, il portamento di
un pistolero, la scioltezza del mancino classico, con la spalla
sinistra leggermente calata, Il Braccio mollemente dondolante,
come un serpente - il mio braccio, il mio benedetto, Santo braccio
che mi era stato dato da Dio, e se anche il Signore mi aveva
creato figlio di un povero muratore, mi aveva però fatto
un gran regalo quando aveva fissato sui cardini della clavicola
quella centrifuga.
Che nevicasse, allora! E che l'inverno fosse lungo e freddo,
e la primavera restasse un sogno, perché quella dopotutto
non era la fine di Dominic Molise, ma solo il suo inizio, e
il sole estivo l'avrebbe trovato mentre faceva un lavoro divino
con il suo sapiente braccio sinistro. Arapahoe Street spazzata
dalla neve era un posto preciso, un punto di riferimento dove
una volta aveva camminato in notti di disperazione, il suo luogo
di nascita, questo sarebbe dovuto essere iscritto nella Hall
of Fame. Una targa, se non vi dispiace, una targa di bronzo
murata su un monumento all'angolo fra la Nona e Arapahoe Street:
Quartiere d'Infanzia di Dominic Molise, il Mancino più
Grande del Mondo.
***
frammenti...
Era giorno di paga alla fabbrica di ceramica,
e l'Onyx era affollatissimo di clienti, stavano in due file
davanti al bar e in quattro o cinque a ogni tavolo. Il pavimento
era viscido e bagnato dalla neve pesticciata e dalla birra rovesciata,
la musica country del juke box era assordante e tutti urlavano
per sopraffarla. Riley, il barista, mi vide entrare e grido:
- Non c'è, Don -, che non era il mio nome.
Passai a fatica fra il bancone e i tavoli per andare alla sala
da biliardo sul retro. Ma era silenziosissima, i biliardi erano
deserti, c'era solo un gruppo di uomini ai due tavoli da poker
in fondo. Mio padre non c'era. Mi avvicinai alla rastrelliera.
Alle volte il mio vecchio andava fuori città a giocare
e si portava dietro la stecca. Invece era lì, chiusa,
con il suo nome impresso a fuoco sul manico.
Lasciai la sala e ripassai attraverso la calca al bar, quando
la mano di una donna mi arpionò la manica della giacca
da uno dei tavoli. Era una mano grassottella e annerita dalla
nicotina con due anelli d'oro alle dita. Era Rita Calabrese.
Era sola al tavolo e sorseggiava del vino dolce. Quando parlava
se ne sentiva l'odore.
- Sei il figlio di Mary Molise -.
Lei e mia madre si erano conosciute da ragazze quando erano
a Denver. Suo marito Ralph Rockne era il proprietario della
concessionaria Studebaker, e aveva un figlio che una volta aveva
lottato contro Lewis lo Strangolatore a Greeley. Mia madre diceva
che era una donna cattiva.
Le domandai se aveva visto mio padre.
- Siediti -, disse. Io adoro tua madre. E’ un angelo -.
Nel momento stesso in cui mi sedetti, Riley gridò, -
Forza, Don, fuori -, e indicò con il pollice la porta.
Io mi alzai per andarmene e Rita mi prese un'altra volta la
manica.
- Conosci Edna Pruitt? -, domandò.
- Certo. Perché? -.
- Secondo te? -.
- Mio padre sta con lei? -.
- Io non ho detto niente -, fece un sorrisetto. - Ho solo detto
che secondo me tua madre è un angelo -.
Bisognava non essere del posto per non sapere chi fosse Edna
Pruitt. Era stata condannata per aver praticato aborti, anni
prima, e c' era stato un processo, famosissimo, a seguito del
quale era stata dichiarata innocente. Ma quella sinistra reputazione
le era rimasta addosso, e ogni nuova generazione di ragazzetti
di Roper dichiarava di aver trovato embrioni morti nel bidone
della spazzatura dietro casa sua. Mi ero fermato molte volte,
furtivo e impaurito, ad alzare il coperchio del bidone per sbirciarci
dentro, disgustato, e aspettandomi di trovarci qualcosa di repellente.
Ma ero sempre rimasto deluso.
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