una
delle più gravi sventure si stava abbattendo
allora su la disgraziata isola nostra: la peste!
Malgrado ogni precauzione sanitaria, una galea
proveniente da Tunisi, riusciva a ottener libera
pratica a Trapani, non tanto per isbarcare i
molti cristiani, che aveva a bordo e che erano
stati liberati dalla cattività, quanto per far
avere al viceré Emanuele Filiberto di Savoia, un
ricchissimo tappeto turco.
Quella nave malaugurata era infetta di peste, che
difatti in Trapani stessa e, subito dopo, in
Palermo si attaccava con rapidità estrema, a
quanti ebber da fare con gli oggetti e con gli
uomini da essa sbarcati, primi fra tutti lo
stesso viceré e il suo segretario, che ne
morirono, ai quali tenner dietro una gran
quantità di altolocati e di cittadini. A tal nuova, un fremito d'orrore si
propagò da un capo all'altro dell'isola. Tutt'i
paesi, pensando a premunirsi dal paventato
contagio, s'isolarono l'un l'altro, e cessò ogni
commercio reciproco. Inoltre, quanti poterono si
rifugiarono in campagna o nei monti, preferendo a
ogni altra abitazione, qualche grotta fuori mano;
e le città e i paesi giacquero in un gran
silenzio di sventura.
Ad onta di tutto questo, il terribile flagello
non ristette, nemmeno davanti alla cura
escogitata per domarlo dal dott. Marcantonio
Alaimo da Regalbuto, che anzi inferocì
implacabile in ogni più riposta plaga isolana,
distinguendosi per una maggiore intensità a
Siracusa, a Noto e a Modica, dove il fisico
Pietro Sanmartino si vuole la curasse bene con la
teriaca.
Noi non
sappiamo né possiamo portar documenti, circa il
numero delle vittime, che quella morìa avrebbe
fatto anche in Comiso.
Sappiamo invece che, per l'abbandono completo dei
lavori campestri e per l'ostinata siccità,
essendo i seminati andati a male, il corpo dei
nostri magnifici giurati a 29 giugno (1623)
decideva d'imporre ai cittadini abbienti, un
mutuo coattivo per la compra di almeno 2000 salme
di grano, con cui provvedere provvisoriamente
alla pubblica «panizzazione» dell'università,
nonché alle sementi per il futuro raccolto. E
siccome temevasi giustamente che questo, durando
il panico della peste, rischiava di riuscire
ancor più scarso, per deliberato del 26
settembre fu eletto un «deputato del seminerio»,
con ampia facoltà di usar tutt'i mezzi affinché,
anche i più riottosi, avessero seminato per non
affamare la popolazione.
In tempi
eccezionali come quelli, eran necessari
provvedimenti più eccezionali, simili a quest'altro
del 28. Nel quale s'ordinava, provvedeva e
comandava che nessun cittadino o forestiere, si
fosse azzardato di esportare dall'università
«frumento, orgio et pane di dui [rotoli] abascio
purché non sia pane necessario per loro arbitrii
quanto alli cittadini, quanto alli forestieri che
non poczano uscire più di un pane per suo
sostentamento, et questo sotto la pena quanto
alli frumenti et orggi di unzi venticinco et
perdiri li bestii adetti [al trasporto dei]
frumenti ot orggi di aplicarsi allo fiscali di
questa cittati, et per il pani, di tarì 15 et di
perdiri lo pane, di aplicarsi cioè tarì 10 alla
fabrica [ancora incompiuta] del nostro glorioso S.
Blasio, et tarì cinco chi prendirà o mettirà
in chiaro il caso».
E poiché il forestiere in quella congiuntura,
era ritenuto come una piaga, e per il pane che
mangiava a danno dei naturali del contado e
perché si temeva fosse apportatore di peste, il
governatore Naselli con suo ordine del 26
dicembre, comandava che d'allora in poi nessun
cittadino, pena la vita, ardisse ospitar gente d'altri
paesi, non esclusi i figli o i parenti, che
fossero stati fuori da più d'un mese.
Con l'anno nuovo (1624),
incalzando sempre più da vicino il pericolo
della peste, che a Scicli e a Ragusa mieteva
vittime a migliaia, il governatore i116 marzo
ordinava a ognuno di ritirarsi a sera, non più
tardi di un'ora di notte, sotto pena di quattro
tratti di corda, e di cinquanta sferzate per i
ragazzi di 14 anni in giù.
Ma ci s'immischiò
l'ingordigia dell'ex giurato Antonino lo Iacono,
e tutti cotesti provvedimenti cadevano nel vuoto.
Questi il 21 giugno, giusto a Scicli riusciva a
impossessarsi di venti buoi erranti che, lieto
della pingue preda, segretamente trasportava
nella sua stalla. Venuta la cosa alle orecchie
dei nostri magnifici giurati, è vero che essi
affrettaronsi a mettere in lazzaretto per venti
giorni quelle bestie, che indi fecero bagnare a
mare, e a imporre allo Iacono e ai suoi complici
un bagno d'aceto; però tutto approdò a un bel
nulla, giacché l'abigeatario già moriva di
peste, che indi colpiva certi Biagio Incardona mangiatunni,
Giovanna Gentile, Croce Spataro, inteso lupo,
Giovanni Venticinque, detto l'orecchiuto,
e altri.
Fu allora davvero
un fuggi fuggi generale di quanti ancora s'indugiavano
in città, i quali tutti con il resto si
riversarono nella campagna, dove cercavano
ansiosamente un luogo solitario dove rifugiarsi e
dove, scansati da tutti e da ciascuno, eran
dannati a trascorrere i loro giorni nell'abbandono
e nell'inedia.
E siccome la fame e la sventura son tristi
consigliere, ecco il gran pullulio di furti,
stupri, grassazioni e simili lordure che
caratterizzarono quegli anni, e che accrescevano
la disperazione di quei miseri. Per addolcire la
sorte de' quali, inutilmente si adoperavano, da
parte loro, i nostri edili, virilmente reprimendo
il malandrinaggio e acquistando frumenti e altri
viveri a qualunque prezzo, ché il male era
incurabile e assai preoccupante.
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