VIAGGIO A KANDAHAR
(Safar é Ghandehar - IRAN, 2001)
| REGIA:
Mohsen Makhmalbaf. Nato a Teheran nel 1957, Makhmalbaf si è unito
giovanissimo all'organizzazione islamica che si opponeva al regime
dello Scià, finendo a soli 17 anni in prigione, dov'è stato
rinchiuso dal 1974 al 1979. A partire dal 1981 ha scritto romanzi e
racconti ed ha esordito come regista nel 1982 con Nassouh Le
Répétant. Da allora ha realizzato due episodi in film collettivi e
17 lungometraggi, tra cui L'ambulante (Dastforush, 1987), Il
ciclista (Baysikelran, 1989), I giorni dell'amore (Nobat e Asheghi,
1991), Salam Cinema (1995), Gabbeh (1996), Pane e fiore (Nun va
goldun, 1996), Il silenzio (Le silence, 1998). |
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CAST:
Nilourfar Pazira, Hassan Tantai, Sadou Teymouri, Hayatalah Hakimi. |
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SCENEGGIATURA:
Mohsen Makhmalbaf. |
| PRODUZIONE:
Makhmalbaf Film House, Bac Films, Studio Canal. |
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DISTRIBUZIONE:
BIM. |
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DURATA:
85 min. |
| STORIA:
Nafas è una giovane giornalista
afghana rifugiata in Canada ed impegnata nell'ambito sociale e nella rivendicazione dei diritti delle
donne. Fuggita dal suo paese durante la guerra civile dei Talebani,
riceve una lettera disperata dalla sua sorellina, priva di gambe e rimasta a casa in
Afghanistan, la quale ha deciso di togliersi la sua vita prima dell'eclissi di sole che sta per
verificarsi, l'ultima del secolo. Decide di tornare a Kandahar per aiutare la sorella e tenta di attraversare il confine
Iran - Afghanistan..... |
| CURIOSITA':
L'idea
di realizzare il film è venuta a Makhmalbaf
quando una donna afghana trasferitasi in Canada gli chiese di
seguirla e filmare il suo viaggio a Kandahar, dove voleva recarsi
per salvare un'amica che minacciava il suicidio a causa delle drammatiche
condizioni di vita del suo paese. Il regista non l'accompagnò, ma
in seguito entrò clandestinamente in Afghanistan per condurre
ricerche sulla condizione di vita di quella popolazione. |
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RECENSIONI:
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Da
FilmUp: "In questi giorni di tensione e ormai anche di guerra, il film di Mohsen Makhmalbaf è in grado di soffermarsi a considerare con profondità e senza nessun indugio retorico o condiscendente un paese in cui paradossalmente la civiltà sembra regredire, per tornare alle atmosfere passate e riproporre usi e costumi medioevali.
Il regista israeliano realizza il racconto di un viaggio: documento di straordinaria e sconvolgente verità. Delinea senza vaghezza le motivazioni che spingono la giovane Nafas a tornare nel suo paese d'origine, dopo esserne fuggita per diventare giornalista in Canada. Makhmalbaf annota con attenzione ciò che la donna osserva e racconta al registratore nascosta nel burga, abito oramai obbligatorio per le donne afgane. Dietro la piccola rete dell'abito, all'altezza degli occhi, Nafas guarda tutto quello che può e cerca di comprendere, nella speranza di riuscire a raggiungere in tempo la sorella decisa ad uccidersi il giorno dell'eclisse. La accompagnano in questo viaggio nei dedali di una civiltà che non è più la sua, prima un vecchio con le tre mogli e i sei figli, poi un bambino cacciato dalla scuola dei muezzin e un soldato americano di colore, le cui superficiali conoscenze mediche lo hanno trasformano nel dottore di un villaggio.
Nulla di quello che Makhmalbaf mostra negli 85 minuti di pellicola è finzione. La spedizione di Nafas in un altro mondo è tutta vera; com'è vera la discesa nell'oscurità e nell'oscurantismo di un paese al quale i Talebani hanno promesso il ritorno alla purezza, trasformando rapidamente questa promessa in proibizione. Un paese dove la donna, che negli anni '70 vestiva con la minigonna e giocava a pallavolo negli stadi e nelle palestre, è ora costretta sotto un ampio e anonimo
burga che la nasconde senza pietà togliendole ogni diritto, condannandola ad una tormentosa ignoranza e ad una crudele solitudine. Un paese dove ai bambini si insegna ad avere paura delle bambole,
perché perdute sulla sabbia potrebbero nascondere delle mine antiuomo e strappar loro gambe e braccia. Un paese che sembra essere mosso da un impulso omicida parimenti ad uno suicida.
Il film di Makhmalbaf è una supplica, un desiderio fortissimo di mostrare per far capire e per spronare la ricerca di una soluzione. Un vibrante desiderio di opporsi per evitare che in nome di Allah la memoria di questo popolo e di questo paese venga cancellata per
sempre". |
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L’altro
mondo
di Marco Lodoli
La
globalizzazione è un sistema di vasi comunicanti in cui confluiscono
anche sofferenze. Come quelle degli afghani.
(Fonte:
DIARIO, anno VI, n. 43 – 2001)
All’uscita del
Viaggio a Kandahar avrei voluto inginocchiarmi sul marciapiede e baciare
il suolo sporchetto e meraviglioso della mia città, abbracciare la
gente che passava frettolosa o imbronciata, offrire una birra a tutti, e
poi annunciare alla popolazione intera, e naturalmente a me per primo:
cari fratelli inariditi e scontenti, noi forse ci siamo dimenticati
della fortuna che abbiamo avuto, del primo premio della lotteria che
abbiamo pescato nascendo in questi luoghi tutto sommato pacifici e
liberi.
Non ringraziamo a
sufficienza la vita, la soffochiamo sotto una frana di oggetti superflui
e di ambizioni ciniche e aggressive. Così stiamo perdendo contatto con
il midollo dei giorni, con la nostra vera natura umana, il troppo ci
schianta, l’inutile ci amareggia, la stupidità ci frastorna, e invece
potremmo essere semplici e onesti, condividere un’esistenza sincera,
spontanea, affettuosa. Noi che possiamo farlo, dobbiamo almeno provarci,
mentre in certe parti del mondo, in tante parti, gli uomini e le donne
vivono isolati nel terrore, umiliati e offesi, e tutto viene loro
negato, il pane e la speranza e persino le gambe per fuggire. Andate a
vedere questo film sull’Afghanistan, non siate pigri, non fatevi
scoraggiare dall’argomento tragico e da qualche lentezza. Anche voi
dimenticherete le polemiche pacifiste o interventiste e solo vi
domanderete tante volte perché, e ogni volta sarà uno strazio: povera
gente dell’Afghanistan, perché a loro è capitato un destino così
atroce? Perché i loro bambini devono ripetere ossessivamente i versetti
del Corano, e guai se stonano, guai se si imbrogliano con le parole, un
Mangiafuoco può punirli in ogni momento, perché?
E perché le donne
non possono neppure farsi visitare da un medico quando sono malate, ma
devono rimanere dietro un telo e comunicare con il dottore tramite un
bambino che ripete le domande e le risposte? E perché tanti mutilati,
chi ha nascosto nei campi le mine crudeli che strappano gambe e braccia?
E perché la terra è così secca, perché non c’è acqua e non ci
sono alberi? I motivi forse si possono trovare, forse si possono
individuare i responsabili: qualcuno ci spiegherà che sono stati i
russi, o gli americani, o l’Islam più severo e arretrato, la natura
maligna o le guerre fratricide.
Noi, seduti nel
cinema di fronte a quelle immagini spaventose, capiamo solo che il mondo
è un sistema di vasi comunicanti, e per quanto gli occidentali e gli
islamici cerchino di proteggere le loro ampolle, di sigillare i confini
e i cuori, la pena viaggia, il dolore si sparge, e alla fine tutto
riguarda tutti, il veleno si versa in ogni vita. Quando si parla di
globalizzazione si pensa sempre a un mercato generale, a un via vai
eccitato di prodotti e denari: ci sentiamo cittadini del mondo perché
abbiamo un po’ di azioni australiane sul conto, un ristorante cinese
sotto casa e uno messicano all’angolo, un cappelletto arabo
nell’armadio e sulle spalle una maglia di cotone fatta a Taiwan. Ma se
siamo davvero globalizzati, dobbiamo cominciare a mettere in comune
anche le sofferenze, mescolare fortune e sfortune, riconoscerci tutti
abitanti dello stesso minuscolo pianeta.
Le differenze
culturali, religiose ed economiche sono impressionanti, ma le
somiglianze lo sono ancora di più. Tutti siamo nati e moriremo, abbiamo
una bocca e due occhi, gli stessi sogni di felicità e tante paure
simili, lo stesso sangue che pulsa e può seccarsi in un momento. Stiamo
tutti sotto lo stesso cielo, non è giusto che gli dèi se lo
contendano: è il nostro povero cielo. Bisogna che l’ONU svolga
finalmente un ruolo decisivo, non c’è dubbio, ma sarà necessario
anche modificare le nostre esistenze individuali. C’è un’energia
segreta che parte da ognuno di noi, e si somma a quella degli altri, e
sposta l’ordine delle cose. Da troppi anni perseguiamo obiettivi
violenti ed egoisti, arraffiamo, consumiamo a casaccio, ce ne freghiamo.
Il deserto
dell’Afghanistan comincia nella mente folle dei talebani, i
bombardieri si sollevano dalle piste dei nostri pensieri. |