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La nonviolenza come "accrescimento interiore" e "sospensione" della "leggerezza sterminatrice" e della "freddezza utilitaria". […] Violenza, è un concetto relativo all’oggetto sul quale si esercita una certa azione. Quanto meno io considero quell’oggetto in ciò che esso è per se stesso, tanto più mi avvio alla violenza contro di esso. La nonviolenza è una presa di contatto col mondo circostante nella sua varietà di cose, di esseri subumani e di esseri umani, è un destarsi per porsi un problema: “che cosa è questo singolo oggetto? qual è la sua caratteristica, la sua vita, la sua libertà, il suo formarsi dal di dentro?”. Riguardo agli esseri umani, la nonviolenza è l’appello continuo e intenso alla comprensione, alla spontaneità, alla capacità che ha l’altro essere umano di giungere ad una decisone razionale. Nel campo umano la dedizione a questo appello ha un fondamento più saldo che per ogni altro essere: basta che io pensi che colui che incontro, potrebbe essere mio figlio: nulla di eccezionale in questo sentimento di genitura, per la somiglianza umana che c’è tra noi. Del resto, io penso che sempre nei riguardi di un essere umano debbo richiamarmi a un punto interno in cui io mi senta madre di lui; che debbo abituarmi a costituire costantemente questo atteggiamento nel mio intimo; che, insomma, almeno per una volta io debbo domandarmi: “Ma mi sono anche considerato pur per un istante madre di costui? Come agire se fossi sua madre, certo una madre non stolta, ma pronta a vedere che cosa c’è a favore di lui, a sperare per lui?”. La nonviolenza è anche un potenziamento del tu, e dell’interesse a che l’altro viva, una gioia perché l’altro esiste. Come noi potremmo avvicinarci all’infinita miseria degli esseri umani, alle loro limitazioni, curare le loro infermità, sopportarli, se non portassimo un infinito compiacimento che l’altro esiste e proprio come essere umano? Lo spirito lo tocca e io posso raggiungerlo col mio atto: qui siamo nella presenza religiosa, che è più di ogni limitatezza, deformità, bruttezza. La nonviolenza mi fa risaltare l’importanza dell’atto col quale mi avvicino ad uno, atto di presenza aperta, superiore alla felicità o infelicità, a ciò che può accadermi o accadergli. E se io voglio che l’altro sia in un certo modo, il ripudio dei mezzi violenti mi induce ad una tensione interiore perché io anzitutto viva quello che voglio dall’altro fino a dare l’atto di nonviolenza al posto dell’atto di violenza. In questa nonviolenza si attua la fede nell’unità di tutti, e nell’efficacia che ciò a cui mi tendo io influisce su di un altro, quanto più di sacrificio e di purezza interiore io vi metto. Sarebbe più agevole che con un mezzo esteriore e violento io agissi sull’altro, ma quanto perderei di interiorità e di qualità! Da Aldo Capitini, "Scritti sulla nonviolenza", Protagon, Perugia, 1992. |
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