L'INSAZIABILE
BRAMA DI POSSEDERE LIBRI
MEMORIE DI UN BIBLIOFILO
di Antonio
Spallino*
"Ma perché
tu non mi creda libero ormai da tutti gli umani errori, sappi che ancora
mi possiede una insaziabile brama, che fino ad oggi non ho potuto
davvero né voluto frenare ..
Aspetti che io ti dica di che genere di malattia si tratta? Ecco: non
riesco a saziarmi
di libri."
Francesco Petrarca a
Giovanni Anchiseo
Un padre
affida al figlio, appena adolescente, la schedatura dei molti libri
raccolti con amore.
All'incontro con le lettere lo ha sospinto, con mano lieve, dopo averlo
veduto, bocconi sulla passatoia del corridoio di casa, divorare per ore
romanzi di Salgari e filoni di pane. Le mattine delle domeniche lo
invitava a ricopiare su quaderni dalla nera copertina goffrata passi dei
maggiori romanzieri contemporanei.
Il ragazzo di allora li ricorda, i volumi: per lo più della
mondadoriana collana "La Medusa", dalle verdi copertine con i
riquadri che incorniciavano nomi e titoli. Soprattutto rammenta come la
lentezza della trascrizione pareva sottilmente introdurlo nella
nervatura del periodare, simile a foglia in controluce.
Quella propensione diverrà esercizio della critica letteraria, sotto la
guida dell'amico di famiglia il più caro, Francesco Casnati. Grazie
anche a questo lume il ragazzo del Salgari, iscrittosi alla
facoltà di giurisprudenza, ama frequentare il magistero di Mario
Apollonio, accanto ad Angelo Romanò e a Luigi Santucci, piuttosto che
lezioni della disciplina scelta.
A cavaliere del 1946-47, mentre si misura sulle pedane di fioretto e di
spada, conclude il corso di laurea e inizia la professione forense,
coltiva la collaborazione con le riviste, l'amicizia con Morando
Morandini e con Francesco Somaini, dà corpo ad una piccola rivista di
lettere e d'arte. Vi collaborano - sorprendentemente, a ripensarci -
alcuni dei nomi più prestigiosi della repubblica letteraria italiana e
numerosi giovani dell'area comasca e milanese, legati fra loro dalla
fervida temperie del dopoguerra.
Il rapporto tra vita e libro era dunque stabilito: a tal punto che
i primi mobili ordinati allorché egli si sposò, lasciando la casa dei
genitori, furono le biblioteche.
Con il tempo, è venuto l'apprendimento del libro come creatura.
L'opera concepita dallo spirito dell'autore sembra librarsi quando viene
impressa su carte quasi volatili, le giapponesi o le cinesi ad esempio;
o depositarsi con un proprio corpo, su carte sode, luminose - quelle
antiche, tratte dalla concia di avanzi di tessuto ancora
capaci, dopo cinquecento anni, di "cantare" quando con il
medio accostato all'angolo superiore della pagina li sfogli adagio - o
le più recenti, ormai fabbricate da poche cartiere.
E se lo stampatore dedica caratteri, simmetrie, e misure convenienti con
la sonorità della parola o con la meditazione del pensiero, non si
avverte forse che al testo ciò spetta di diritto?
Giunti a quel punto, il passo alla bibliofilia - o forse, meglio, alle
differenti forme di bibliofilia - è breve; il percorso, vario.
Accade, ad esempio, che dalla raccolta di autori contemporanei
l'appassionato di letteratura si volga, a ritroso, alle opere di autori
via via più circoscritti, di secolo in secolo.
Ottocento, settecento, seicento, cinquecento, fino alla culla delle
edizioni a stampa, prima di fissare la piena corrispondenza tra
bibliofilo e la sua biblioteca. Battendo quei terreni da caccia
emergono i luoghi di elezione nei quali l'appassionato progressivamente
stabilisce la propria vocazione e, con essa, l'identità della sua
biblioteca. Nel gioco di specchi tra il testo e il volume, il bibliofilo
riconosce valore a pochi settori della sua biblioteca, quando non ad uno
solo. A mano a mano che la biblioteca assume carattere e coerenza con
l'identità ricercata dal collezionista, essa emargina alcuni testi per
acquisirne, ove possibile, di più pertinenti; oppure, o anche,
dispone i volumi in siti distinti diversamente secondo la
importanza data loro, custodita affettivamente o editorialmente.
Va da sé che la volontà di completare quell'unicum concepito
come soglia di perfezione, inevitabilmente si scontra, per un
verso, con l'infinitezza del desiderio e, per altro verso, con la
inespugnabilità delle singole frontiere finanziarie. Quest'ultima
circostanza, tuttavia, non impedisce la formazione del bibliofilo;
semplicemente lo induce a conformare il suo raccolto alla misura delle
sue possibilità economiche.
Questa tensione progettuale, congiunta alla capacità di cogliere nel
singolo volume la ricchezza specifica della stampa, il pregio
della rilegatura, la rarità dell'esemplare, la storia dei suoi passaggi
da questo a quell'amatore, le tracce dei glossatori, connotano il
bibliofilo.
Il "furore di possedere libri" fine a se stesso, così
come il fare incetta di volumi per il solo interesse esteriore che una
simile raccolta può presentare, sono invece tratti distintivi del
"bibliomane".
Anche quando vengono disposti ordinatamente, il fine primo, e forse
unico, è quello di esibirli a se stessi e agli altri: proprio l'esatto
contrario del bibliofilo. Questi, infatti, propende sovente per
una sorta di romitaggio, la cui porta si schiude solo ad altri
bibliofili che stima.
Sul fare incetta di libri per il solo scopo di possederli si era già
pronunziato severamente il Petrarca ("esistono persone le quali
accumulano libri non già per ornare la mente ma per ornare le
stanze"), e, ancor prima, Seneca: "giustificherei
questa mania se dipendesse da troppo amore per gli studi; ma queste
opere dei più rari ingegni ... vengono acquistate perché facciano
mostra di sé e adornino le pareti". Similmente Luciano: "Credi
di poter essere considerato anche tu uomo di cultura, perché sei sempre
pronto ad acquistare i libri più belli?". Ma "a che ti
serve comprarli se poi non potrai usarli mai? .." il tuo "criterio
di valutazione è di vederli mangiare dai tarli, che prendi quindi come
consiglieri per il tuo giudizio".
La voga di acquistare libri di ogni genere, quasi simboli di status, si
è equipaggiata persino di "strumenti di precisione". Penso al
bastone da passeggio "graduato", fatto fare appositamente dal
notaio e letterato parigino Antoine Marie Henry Boulard, a cavaliere del
Sette-Ottocento, per comperare libri a metro cubo dei bouquinistes
del Lungo Senna. Oppure, al comune metro impiegato da chi
ordina al libraio - accade anche in questi anni - di fornirgli tanti
volumi quanti occorrono per occupare le lunghezze dei palchetti delle
sue biblioteche.
Magari, rilegati in pelle, tutti o per sezioni, allo stesso modo. Torna
alla mente la mordace battuta di un personaggio di La Bruyere: "io
lo ringrazio della sua cortesia ma non più di lui desidero visitare la
sua conceria, che definisce biblioteca".
Nemici numero uno di entrambi i comportamenti sin qui accennati sono
l'odio o l'indifferenza per il libro.
Tre sono le forme classificate da un autorevole bibliofilo (Umberto Eco)
sotto la voce "biblioclastia": la fondamentalista,
quella per incuria, e quella per interesse.
Ne aggiungerei una quarta: quella per disinteresse.
Il fanatismo ha generato l'incendio della biblioteca di Alessandria e i
roghi dei nazisti, e altri, da alcuni atti della Sacra Inquisizione alle
"censure" staliniste.
Si bruciano, o si uccidono, libri ed uomini non perché si odia il libro
o l'uomo in sé, ma perché si paventa che i contenuti dell'uno, la
memoria dell'altro, possano "inquinare" l'assolutezza del
"modello" politico o religioso che si pretende di imporre con
la forza della violenza. Sono portatori di virus infetti. Ricordo
per tutti, la sintesi storiografica di Luciano Canfora su "libro e
libertà", o la storia romanzata - ma quanto attendibile! - di
"Farenhait 451".
Un proverbio africano recita: "Quando muore un anziano, muore
una biblioteca"! Ad un passo di qui, si ergono quei talebani
che hanno distrutto una delle più importanti effigi storiche del Budda,
o quei cinesi, che nel sepolcro dei loro confini hanno compiuto analoghi
genocidi. Senza andare in terre lontane, d'altronde, abbiamo forse
dimenticato lo spettro della biblioteca di Sarajevo, città della
convivenza tra persone di religioni diverse, ridotta a scheletro dai
bombardamenti dei mortai serbo-bosniaci del generale Mladic? e quel
ragazzo attonito tra i calcinacci del chiostro?
O la cieca agghiacciante violenza dei bombardamenti tedeschi che nel
1915 e, di nuovo nel 1940, hanno abbattuto l'Università di Lovanio,
fondata nel 1425. Il primo rogo arse 300.000 volumi e 1.000 manoscritti;
il secondo, 900.000 volumi; sempre a disprezzo della identità della
tradizione memoriale e documentale dei Paesi Bassi e della cultura
europea conservata nelle sue aule.
L'incuria invece, indifferente alla sorte del libro, lo lascia deperire
facendogli mancare le cure necessarie alla sua conservazione nel tempo,
o relegandolo in luoghi raramente frequentati, o escludendolo
acriticamente dal contatto con il lettore, sino alla "morte
civile".
Ciò accade in case private, quando scompare il raccoglitore o, più
semplicemente viene meno nei suoi successori l'attribuzione di valore
alla presenza del libro. Accade persino in strutture pubbliche, deputate
alla trasmissione del sapere, per mancanza di finanziamenti o per
estraneità degli interessi del loro responsabile rispetto a
questi valori.
Sorella gemella dell'incuria è la mano villana o incauta che guasta il
libro. Nel Philobiblon di Riccardo de Bury, monaco benedettino e
vescovo di Burham, coetaneo del Petrarca, vi è un impietoso
inventario dei comportamenti da evitare nel maneggiare il libro, e della
sozzura con cui taluni lo guastano, che anticipa di circa quattro
secoli le analoghe Avvertenze dell'abate Volpi.
L'interesse economico egoistico, infine, porta al vandalismo, chiunque
ne sia l'autore, massime certi pseudoantiquari. Si scerpano o si
ritagliano pagine con i capilettera miniati o con illustrazioni che
documentano la storia del mondo, o delle città, o dei costumi, e le si
rivendono una ad una, lucrando un profitto largamente superiore a quello
che sarebbe conseguito alla vendita dell'esemplare. Così si distrugge
un organismo; si cancellano le tracce della sua composizione; a volte,
quando il saccheggiatore è incolto, si estingue persino la prova
della sua stessa esistenza. Senza esserne consapevoli, si provoca anche
l'aumento del valore dei pochi esemplari rimasti completi, e quello
delle stesse altre tavole già brutalmente diverse. Vi è persino chi
tenta di ammantare di "democraticità" l'operazione,
sostenendo che in tal modo si consente a più persone, per le quali il
prezzo di acquisto del volume sarebbe inaccessibile, di possederne un
frammento.
Infine, la bibliocastia per disinteresse non è soltanto quella
che colpisce quando si entra in una dimora che, talvolta doviziosa
di mobili o di quadri, ignora il libro. E' anche, e soprattutto, quella
di testimonial di massa. Fortunatamente, altri miliardari sono
ben altrimenti attenti alla creatura-libro e alla stessa ricchezza che
essa apporta alla società. Ne fanno prova i prezzi di aggiudicazione
raggiunti dai libri alle aste, ma soprattutto il gesto di un sir
Arcibald Cobble, bibliofilo e schermitore, che, proprietario della più
grande collezione al mondo di trattati di scherma, subito dopo la fine
della seconda guerra mondiale, la dona all'Università di Lovanio,
in simbolico risarcimento della distruzione delle sue strutture
perpetrata dai "boches".
Si è detto, sin qui, dei piaceri; non delle pene del bibliofilo.
Esse vorrebbero per sé un capitolo che andrebbe ben oltre i limiti di
questa occasione. Basterà accennare alla vertiginosa voragine che si
apre dinanzi a lui quando apprende, magari per la mano di un amico che
gli reca in dono il catalogo di una altrui raccolta, di non possedere
neppure uno dei libri che trattano una disciplina - poniamo, quella
della scherma - proprio da lui interiormente vissuta e fisicamente
praticata grazie alla sola cultura orale impartitagli dal maestro
d'armi.
Ne scaturisce una immediata ansia di rintracciarli, quei volumi, di
ammirarne figure e lezioni, di dare loro uno spazio degno
dell'importanza che va loro attribuita per ragioni bibliografiche e per
ragioni di cuore. Ma dove, e come rintracciarli? Nelle aste? di New
York, di Londra o di Parigi? nei cataloghi delle librerie o negli studi
dei librai antiquari? negli stand dei librai più illustri quando
espongono i loro "pezzi" più rari in una mostra
internazionale?
Qui contano il caso, le relazioni con il mondo dei librai e la scelta di
collezionare determinati libri per tematiche o autori, o figure o
aree linguistiche.
Più la scelta è circoscritta, il che avviene soltanto grazie a un
lungo apprendistato intellettuale, maggiore è la possibilità di dare
identità e compiutezza alla raccolta. Sopra tutto, giova l'incontro con
un interlocutore che del commercio dei libri ha fatto la sua professione
senza mai scordarsi, anzi, facendolo intendere, che a quella professione
è giunto per amore del libro. Allora, il rapporto tra libraio e
bibliofilo diventa di complicità: nel senso che i due attori
condividono i medesimi valori, e il solo atto di sfogliare un libro
prezioso è motivo di reciproco compiacimento, indipendentemente dal suo
eventuale acquisto. Analogo evento si verifica quando l'appassionato
incontra nel curatore di una grande biblioteca pubblica, o di uno
speciale settore di esso, un generoso referente che gli fa da guida
nella formazione della propria raccolta.
Ciò non è sufficiente, tuttavia, per evitargli le fibrillazioni
generate dall'attesa di conoscere l'esito dell'asta, e neppure quelle
suscitate dall'arrivo di un catalogo che potrebbe contenere notizie di
un esemplare importante o addirittura essenziale per la raccolta. C'è
chi ha scritto "C'è un piacere più intenso, per chi ama i
libri di antiquariato, che acquistarli? Sì. È sfogliarne un
catalogo". "Niente eguaglia la gioia di cercare - l'occhio
concentrato e mobile del vizio - i titoli bramati, differendo spesso
l'attimo fatale, per aumentare l'ebbrezza o attenuarne la
delusione" (G. Pontiggia, Le sabbie immobili). Non
arrivo a concordare sino in fondo con questa brillante deposizione,
perché si tratta, a mio avviso, di piaceri diversi: l'uno dà
l'emozione del contatto tattile e visivo con l'oggetto desiderato:
l'altro, quella di affacciarsi sul circuito del desiderio. Tuttavia essa
coglie perfettamente lo stato d'animo del bibliofilo.
Ma una collezione privata ha un futuro certo? ed ha un futuro la
passione per la grafica del libro, possibilmente impresso con il
torchio?
La prima domanda concerne specialmente le collezioni costituite anche
per mantenere nel tempo una identità culturale di famiglia. Quando
sopraggiunge una frattura di senso tra le generazioni, può accadere che
le ultime privilegino altri valori. O anche, più semplicemente, può
accadere che il conservare e l'incrementare il patrimonio raccolto
divenga economicamente insostenibile per la generazione più giovane.
Questi interrogativi deve porseli, il bibliofilo, oppure deve fingere di
ignorarli? Paul Valery, dinanzi alla vendita all'asta della collezione
di un amico scomparso, scrisse una splendida pagina, intitolata Ultimo
sguardo ad una biblioteca: "... tutto questo insieme di
libri si disperderà. Ciascuno di essi rappresenta un momento, un
desiderio, uno slancio di luminosità, una nota pensierosa [...] Mi pesa
stranamente l'idea dell'imminente dispersione di questa armonia di
libri. Formavano, riuniti in questo modo, uno stile, la raffigurazione
significativa di uno spirito che nel lavorio intellettuale si forma
progressivamente, un po' per caso e un po' per volontà".
Si deve prevenire questo evento? e, se sì, come? donando alla
biblioteca della propria città quegli esemplari che potrebbero
arricchire, se l'ha, il suo patrimonio più prezioso in quei settori?
lasciando ad un cenacolo universitario quelli, o quegli altri, che
esigono curatori provvisti di competenze particolari e commossi da amore
per l'opera grafica che vince il tempo? e sedi accessibili di potenziali
studiosi?
La seconda domanda è conseguenza diretta del disagio che si avverte nel
trovarci sul crinale tra due forme di civiltà: quella tipografica (per
tacere della civiltà dei manoscritti) che ha connotato più di cinque
secoli del secondo millennio, e quella informatica, che da cinquant'anni
va prendendo il sopravvento.
Quei ventisei meravigliosi segni tracciati e ponderati nei
"caratteri" di stampa più diversi, segni ai quali
l'uomo va debitore di gran parte della sua storia, saranno soppiantati
da modernissimi apparecchi capaci di "immagazzinare" in un
disco cinquantamila pagine e oltre? Un disco senza traccia di passaggi
da uomo a uomo, senza glosse, senza segni del vissuto, senza rapporto
con la vastissima gamma di segni e di regole nate dalla secolare
collaborazione di umanisti, filologi e tipografi editori?
"Forse", scriveva Calvino del 1985 e lo ricordava
Gianfranco Dioguardi nel suo Il furore di esser libro, il segno
che il millennio "sta per chiudersi è la frequenza con cui ci
si interroga sulla sorte della letteratura e del libro nell'era
tecnologica cosiddetta post industriale. Non mi sento di avventurarmi in
questo tipo di previsioni. La mia fiducia nel futuro della
letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura
può dare con i suoi mezzi specifici".
Antonio Spallino*
*Avvocato, bibliofilo.
|
Fonte:
"IL FOGLIO" - Quaderno
della Biblioteca Comunale di Cucciago, Settembre 2001, n. 7
nuova serie.
Si
ringraziano vivamente per la disponibilità la redazione de
"IL FOGLIO" e la Biblioteca
Comunale di Cucciago (CO). |