Globalizzazione,
crisi del capitalismo
di Walden Bello, sociologo ed economista filippino
direttore di "Focus on the Global South" *
Genova, la città storicamente associata alla nascita del capitalismo in Europa sei secoli fa, potrebbe oggi divenire il simbolo della crisi della globalizzazione neoliberista. L'assedio che migliaia di dimostranti hanno pianificato in occasione dell'annuale incontro del G8 nella vecchia città italiana rappresenta emblematicamente la situazione globale di assedio che avvolge le principali istituzioni economiche e politiche del pianeta.
L'ultimo decennio del secolo scorso fu inaugurato dall'eclatante fallimento delle economie socialiste dell'Europa orientale, accompagnato dai toni trionfalistici che presentavano la genesi di una nuova economia globale, ispirata alle logiche del mercato, in grado di abbattere le frontiere e capace di alimentarsi dei progressi delle tecnologie informatiche. Attori chiave della nuova economia globale, le società transnazionali apparivano l'incarnazione suprema della libertà del mercato, capaci come sono di combinare territorio, lavoro, capitale e tecnologia. Ai paladini della globalizzazione, la nascita del WTO nel 1996 garantiva l'impalcatura legale e istituzionale del nuovo assetto economico. Il WTO sarebbe divenuto motore di un processo economico in grado di assicurare il massimo benessere al maggior numero di persone, la terza componente della santa trinità posta a guardia del nuovo ordine economico mondiale, accanto al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale.
In poco più di un decennio, tuttavia, il sistema del capitalismo globale è passato dal trionfo alla soglia di una profonda recessione; diamo allora uno sguardo alle molteplici crisi che lo minacciano .
La crisi del multilateralismo.
I profeti della globalizzazione parlavano della fine dello stato-nazione e della crescente irrilevanza degli interessi nazionali, ma gli Stati Uniti divenivano i maggiori beneficiari del nuovo ordine globale post-Guerra Fredda. Concepiti come strumenti di un più libero mercato, i principali accordi del WTO finivano per promuovere un regime di monopolio a favore delle multinazionali statunitensi, come nel caso dell'accordo sulla proprietà intellettuale che consolidava le innovazioni di giganti come Intel e Microsoft, o l'accordo sull'agricoltura, che istituzionalizzava un sistema di concorrenza monopolistica per i mercati dei paesi terzi tra gli interessi dell'agrobusiness degli Usa e dell'Unione Europea.
Raggiungere interessi propri sotto la copertura del multilateralismo è sempre stata la strategia di ogni amministrazione americana dopo la fine della Guerra Fredda, con le istituzioni di Bretton Woods, con le Nazioni Unite e il gruppo dei G7, tutte cornici di una "leadership egemonica" possibile: salvo poi adottare senza esitazione politiche unilaterali ogniqualvolta gli interessi americani sembrano in pericolo. L'uso strumentale delle agenzie multilaterali ha raggiunto il culmine con l'Onu. Pur ricorrendo alle Nazioni Unite per isolare l'Iraq, Washington ha più volte ripagato le politiche riottose dell'Onu rifiutandosi di versare i propri contributi, oppure semplicemente ignorandola, come è avvenuto quando si è deciso di ricorrere alla Nato per bombardare la Jugoslavia durante il conflitto del Kossovo.
Anche il G8 rischia di rimanere intrappolato in questa strategia. Con l'amministrazione di George Bush, Washington sembra essersi imbarcata in un'avventura unilateralista tale da produrre forti contrasti con gli altri membri del club, come si vede sulla questione del protocollo di Kyoto, lo scudo spaziale, la riconciliazione fra le due Coree. Le nuove e brusche scelte americane provocano una pericolosa erosione di quell'alleanza fra Usa ed Europa che è servita come base fondante dell'egemonia occidentale negli ultimi 50 anni.
La crisi di legittimità.
Se il crescente sfaldamento del multilateralismo è sicuramente alla base della crisi di legittimità che ha cominciato ad assillare l'ordine globale alla fine degli anni '90, lo è ancora di più la realizzazione che il sistema non riesce a mantenere le sue promesse, cioé che non riesce a produrre prosperità ma solo l'illusione di essa. Si è voluto neutralizzare la realtà del progressivo impoverimento e delle crescente divaricazione sociale del pianeta con gli elevati tassi di crescita di alcune enclaves dell'economia mondiale, come le tigri asiatiche degli anni '80.
Ma le crisi finanziarie del 1997, proprio in estremo oriente, hanno squarciato il velo sulle responsabilità dei flussi dei capitali speculativi e sulle ricette del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, i cui programmi draconiani di aggiustamento strutturale, in ben 94 paesi del terzo mondo, non solo non hanno assicurato lo sviluppo, ma hanno accelerato le contrazioni del mercato, mettendo in salvo le banche e gli investimenti speculativi da un lato, esacerbando disuguaglianze e povertà dall'altro. Dal 1979 al 1990, il livello di ricchezza nel 20% del mondo industrializzato è incrementato dal 69 all'83%: nel frattempo, il piano del G8 di riduzione del debito ai 41 paesi più poveri (l'iniziativa HIPC) ha prodotto una contrazione del debito pari ad un miliardo di dollari, ovvero il 3% del servizio del debito in cinque anni!
La crisi della sovrapproduzione.
Ma la crisi è prima di tutto strutturale, nel senso del sistema di produzione. Il boom dei primi anni '90 ha alimentato un'attività di investimenti tali da determinare una tremenda eccedenza di produzione in tutto il mondo. La produttività dell'industria informatica americana è cresciuta del 40% all'anno, ben oltre la domanda. L'industria automobilistica mondiale riesce a vendere il 74% delle oltre 70 milioni di vetture che produce su base annuale. Le infrastrutture delle telecomunicazioni globali hanno assorbito tanti investimenti che oggi il traffico su rete a fibre ottiche risulta essere solo il 2,5% della capacità produttiva. Il livello dei profitti è stato mantenuto grazie a una politica di fusioni per delimitare la concorrenza, e di attività speculative, ma resta lampante l'incapacità del capitalismo neoliberista di conseguire un bilanciamento, un sistema stabile di assorbimento della capacità produttiva.
L'evaporazione del trionfalismo preannunciata con la crisi del multilateralismo e con la crisi di legittimità trova un ulteriore elemento di disagio nel fatto che gli attori primari della globalizzazione sono le imprese multinazionali. Diversi fattori hanno attratto l'attenzione dell'opinione pubblica su questi attori: le pratiche predatorie della Microsoft, le sopraffazioni ambientali della Shell, l'irresponsabilità della Monsanto e della Novartis a promuovere gli OGM, il sistematico ricorso allo sfruttamento nel lavoro da parte della Nike, l'occultamento ai consumatori dei gravi difetti di produzione da parte di Mitsubishi, Ford e Firestone. Il 72% degli americani sostengono che il business esercita troppo potere sulle loro esistenze, secondo un'inchiesta del settimanale Business Week. Alcuni illuminati dell'elite globale stanno ponendosi il problema con serietà, in un mercato globale sregolato, dove sempre più difficile risulta conciliare le esigenze della responsabilità sociale e quelle del profitto.
Si tratta dell'alleanza fra il potere dell'impresa e quello militare. Non si può ridurre l'amministrazione americana a schiava del capitale statunitense. Anche il Pentagono ha le sue dinamiche, ed è impossibile capire il ruolo degli Stati Uniti nei Balcani, o il nuovo atteggiamento verso la Cina, solo come risposte agli interessi delle aziende americane. Come scrive Thomas Friedman sulle colonne del New York Times "la mano nascosta del mercato non può funzionare senza un pugno nascosto. McDonald's non può fare affari senza McDonnel Douglas, quello degli F-15 dell'aeronautica militare statunitense. E il pugno segreto che mantiene la sicurezza del mondo per le tecnologie della Silicon Valley si chiama US Army, Air Force, Navy e Marine
Corps".
La crisi della democrazia.
È la democrazia liberale del mondo industrializzato a fare le spese della globalizzazione neoliberista, l'esercizio della democrazia formale degenerato sempre di più nella trappola della plutocrazia, come hanno dimostrato le vicende degli scandali in Italia o in Germania, per non parlare dell'ultima tornata elettorale in America, dove il candidato favorito dal Big Business si è ritrovato presidente degli Stati Uniti malgrado che avesse perso il consenso popolare e, secondo alcuni studi, anche quello elettorale.
L'effetto combinato di queste crisi crea il panico dell'establishment, che reagisce asserragliandosi alle sollecitazioni del movimento internazionale. La zona rossa di Genova ne è la migliore rappresentazione. La crisi generale di legittimità, come diceva Gramsci, è infatti anche crisi di egemonia.
*L'articolo è stato raccolto, tradotto dall'inglese e curato da Nicoletta Dentico.
Si ringrazia per
la disponibilità la redazione di MOSAICO DI PACE, Rivista mensile
promossa da PAX CHRISTI.