RAGAZZI TRA VIOLENZA E VUOTO EDUCATIVO
IVREA - Avviare (o riavviare)
un discorso educativo a tutto campo è una domanda diffusa. Interessa
istituzioni e ambiti educativi diversi. Il Centro Missionario Diocesano
(con la collaborazione di altri uffici Pastorali: catechiscico, Caritas,
giovani e famiglia...) ha scelto di osservare quel “mondo”, a partire da
alcune situazioni estreme: gli adolescenti in carcere, nella tossicodipendenza,
i bambini vittime di violenze in varie parti del mondo. Le situazioni “estreme”
non sono mai esattamente circoscrivibili, non le si può delimitare
con un alto steccato. Al contrario, sono punti da cui osservare fenomeni
e problematiche molto più estese e complesse.
Così il primo atto
del convegno posto sotto il titolo “Ragazzi, fra violenza e vuoto educativo”,
svoltosi lo scorso sabato 21 ottobre, presso l’Istituto “Card. Cagliero”,
di Ivrea, ha preso in esame alcune situazioni di sofferenza, enucleate
da “storie”, alcune estreme, altri comuni. Oltre ad alcuni filmati, forniti
da Rai Tre e in grado di evocare efficacemente la geografia del disagio
e della sofferenza minorile, nel mondo, si è scelto di osservare
quelle realtà con il metodo della testimonianza di alcuni che hanno
scelto di vivere a contatto con esse, anzi “dentro”. Una forma di osservazione
caratteristica, che corre sul filo della testimonianza, del coinvolgimento
personale, di una dedizione appassionata.
Don Domenico (“Mecu”) Ricca
è da circa trent’anni il cappellano del “Ferrante Aporti”, il carcere
minorile di Torino. Quella del carcere - inteso non solo come luogo di
pena ma di rieducazione - è una terribile scommessa. Ma è
anche un luogo da cui osservare l’intero mondo giovanile, poiché
“quelli che sono dentro non sono poi molto diversi da quelli che sono fuori”.
Vi si ripetono le stesse dinamiche della violenza in piazza, nella banda,
violenza subita e attuata, talora sfruttando la voglia di protagonismo
e di uscire dall’anonimato.
Gli ospiti del “Ferrante
Aporti” sono in larga parte degli immigrati. E l’immigrazione è
il problema cruciale, soprattutto quella che proviene dall’Europa Orientale.
Ci si trova a fronteggiarne la prima grande “ondata”.
I pochi italiani - ma con
reati più gravi - testimoniano un “malessere da benessere”, un’abitudine
“culturale” a risolvere i problemi con qualcosa “che viene dal di fuori”,
si tratti di farmaci, droga o emozioni forti, tali da vincere la noia e
l’apatia.
Nel mondo dell’immigrazione,
il percorso da compiere contempla diversi obiettivi, quali l’educazione
alla multiculturalità, il passaggio dalla prima accoglienza all’integrazione,
segnando piccoli passi, la valorizzazione delle somiglianze (si tende a
mettere l’accento sulle differenze!), la messa in atto di un “codice” che
coniughi legalità e solidarietà, ed eviti loro la violenza
che viene dalle stesse istituzioni.
P. Giordano Grosso dirige
da anni il centro per recupero di tossicodipendenti della “Rotonda” di
Agliè. Egli scova le radici della violenza in una diffusa cultura
che esalta il successo individuale (a cominciare dalla stessa educazione
familiare), che tende a risolvere i problemi personali mediante i farmaci
(la cultura degli anestetici, come è stata chiamata), e porta ineluttabilmente
alla deresponsabilizzazione (si pensi alla funzione delle cosiddette “famiglie
lunghe”, in cui si rimane parcheggiati fin e oltre i trent’anni).
Si assiste all’emergere
di una nuova generazione di tossicodipendenti, che non si sentono tali
(o comunque non si sentono assimilati alla tossicodipendenza “storica”):
si tratta piuttosto di “farmacodipendenti”, delle pastiglie dei “fai da
te”, per colmare certi vuoti o risollervarsi dalle frustrazioni. La violenza
- subita, attuata su altri - ha radici nella stessa educazione, familiare
e non, spesso oscillante fra l’autoritarismo e il lassismo. Per tentare
qualche recupero, è necessario aiutare i soggetti a “riprendere
la vita” ripartendo dall’ultimo anello buono, intatto. Ma in realtà,
constata amaramente P. Grosso, non si fa prevenzione, si arriva sempre
dopo, in ritardo.
La testimonianza di P.
Vittorio Farronato, Missionario Comboniano, spazia sul vastissimo campo
dell’infanzia “negata” o violata, nei territori cosiddetti “di missione”.
Impossibile rendere in poche righe la forza e la freschezza della sua testimonianza.
Colpisce però la valutazione “globale”, che punta il dito sulla
deriva a cui è sottoposta l’umanità del Sud del mondo, con
l’amara osservazione di H. Camara: “Una volta questi popoli servivano per
essere sfruttati, ora si sentono semplicemente inutili!”.
In Africa, come altrove,
la guerra - nelle sue varie forme - è un’immensa tragedia, una tragedia
figlia dell’economia mondiale. E’ segno di disperazione. Anche quando è
diretta “contro” la Chiesa, non esprime odio verso il Cristianesimo, ma
risentimento verso l’Occidente.
“Come restituire la vita,
purificando la sorgente?”, si domanda P. Farronato. Il quale testimonia,
però, la presenza in quel mondo di una grande “forza”, che nasce
dalla consapevolezza di appartenere a qualcuno che non ti sfrutta, ma ti
ama.
Sabato 28 riprende il cammino
del convegno alle ore 14,30. Con l’aiuto di Padre Michael Paul Gallagher,
gesuita, docente all’Università Gregoriana, si cercherà di
“scavare” nel terreno della cultura contemporanea, per rintracciarvi le
radici della violenza, ma anche qualche via per porvi rimedio.
d.p.a.
|
Notizie Flash | Nota
politica | Art 3 | Art
4 | Art 5 | Art 6 | Art
7 |