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SPETTACOLI E CULTURA |
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Letteratura sommersa di Marcello Tucci
Ott. 2002 |
S’intenda per
letteratura ‘sommersa’ quella produzione letteraria semi sconosciuta
al lettore medio abituale, che per svariati motivi poco conosce il
panorama internazionale del settore. Una delle cause può essere
attribuita ad una particolare politica editoriale di gruppi di grosso
dominio e concentrazione. Un’altra ancora può essere ricercata per
l’estrazione etnica degli autori, che faticano non poco ad incontrare
il grosso pubblico troppo concentrato sui nomi di punta della
narrativa mondiale. Se ancora dovessimo entrare nel campo puramente
statistico, magari con l’ausilio delle cifre suffragate dagli indici
di vendita, ci accorgeremo che lo spazio occupato da autori, di
diversa provenienza, che non sia quella americana o inglese, per dirne
un paio, è praticamente irrisorio. Con ciò non voglio entrare in una
spinosa polemica, che non ci porterebbe da nessuna parte, oppure sul
fatto che autori di grossa diffusione e spiccatamente commerciali non
producano opere letterarie d’ottima fattura. Abbiamo validi esempi che
ci inducono a riflettere che autori come Le Carre’, King, Easton Ellis,
per citarne alcuni, catturando molta attenzione intorno a sé al tempo
stesso sono latori di romanzi e raccolte di grande livello sia
espressivo che di contenuti. Al tempo stesso dobbiamo altresì notare
molti scrittori, che puntualmente sfornando titoli a cadenza annuale,
spiccano negli indici di vendita con mediocri risultati dal punto di
vista di un apprezzabile valore letterario. Nonostante ciò questi
autori sono sorretti da una forte eco pubblicitaria a danno di libri
ed autori, diciamo, meno fortunati. Questo è un fenomeno diffuso in
ogni attività artistica ed espressiva, come ad esempio per l’industria
cinematografica dominata in larga misura dalla produzione statunitense
supportata dalla grande capacità economica di imporsi sul mercato
internazionale della distribuzione. Qualche cosa però da alcuni anni a
questa parte sta cambiando; ciò si deve a coraggiosi editori che hanno
preferito avventurarsi verso diverse voci narrative, cercando di
proporsi con prodotti ugualmente validi e non di nicchia. Grazie a
questi operatori culturali abbiamo assistito ad una rivoluzione in tal
senso ed abbiamo potuto conoscere molti scrittori, narratori, poeti
latino americani come Marquez, Borges, Puig, Scorza, Amado che hanno
aperto la strada a culture fino allora sconosciute e che ancora porta
nelle nostre librerie gente come Sepulveda, Skarmeta, Chavarria e via
dicendo. Questi scrittori hanno per molti significato qualcosa e ci
hanno fatto conoscere non solo le loro storie narrate, ma anche la
storia specifica dei paesi di provenienza. Nonostante il grande sforzo
di questi editori ancora si fatica non poco a porre una giusta
attenzione sui molti provenienti da mondi a noi lontani come l’Asia,
L’Africa o su altri addirittura europei che non siano originari di
Paesi come Francia, Inghilterra, Italia o Germania. Quali sono dunque
le cause per questi artisti che impediscono di raggiungere agevolmente
i banchi delle nostre librerie? Si sa che l’industria culturale oggi
più che mai, con uno sguardo alle cifre di vendite, preferisce
investire nei successi consolidati evitando cosi ardite avventure.
Concentrando il loro sforzo su autori commerciali, che avendo in
comune una miscela stilistica collaudata, riescono ad imporsi sul
mercato costringendo editori con una politica diversa ad una
produzione limitata e quasi ‘clandestina’. Forse in questi tristi
risvolti o pratici calcoli commerciali possiamo trovare risposte ai
nostri perché sull’esclusione dai cataloghi d’autori di diversa
estrazione e forse non di sicuro successo e vendita. Vorrei però
evitare facili polemiche o atteggiamenti accademici ed entrare magari
nello specifico dell’argomento. Lo vorrei fare saltando qua e là da un
autore e l’altro e da un continente all’altro per dare un panorama
generale di queste letterature vissute, per troppi anni, all’ombra
delle specifiche esigenze commerciali. |
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Il costo della cultura
di Marcello Tucci Nov. 2002 |
Sul perché in Italia
il consumo culturale non è alla portata di tutti, ed i suoi costi sono
alti, se non proibitivi. Tutto ciò tenendo conto che i maggiori
fruitori di consumo culturale sono i giovani, insomma la fascia più a
rischio e più disagiata economicamente. A questa domanda chiediamo una
risposta concreta e non più vaghe promesse d’impegni formali, ma
sostanziali interventi atti ad invertire drasticamente la condotta fin
qui, irresponsabilmente, avuta. Innanzi tutto vorrei specificare cosa
s’intende per consumo culturale, senza farci impressionare da questa
parola. Mentre leggiamo un libro per svago, per studio, così come
ascoltiamo musica o vediamo opere artistiche, film, lavori teatrali ed
altre cose simili stiamo appunto facendo consumo culturale, forse
senza neanche rendercene conto e senza nessuna pretesa erudita.
Dunque, dopo esserci così spogliati da un sospetto di civetteria
accademica, possiamo finalmente cercare di capire perché tutto ciò sia
oneroso e non supportato da politiche culturali atti a contenerne le
spese, miranti ad un largo consumo di massa. Quante volte abbiamo
sentito la nenia fastidiosa sul perché nel nostro paese sia così basso
il numero dei lettori in confronto ad altri paesi europei? Quante
volte la stessa nenia sulla bassa affluenza nei cinema, nei teatri,
nelle mostre d’arte e via dicendo? Oppure la stessa lamentela la
sentiamo per l’acquisto di musica, di giornali, riviste e via
discorrendo? Pensate che ciò sia da imputare solo alla mancanza di
stimoli che dovrebbe giungerci dalla scuola o dai mezzi
d’informazione, oppure da un disinteresse generalizzato per questi
beni che sembrano non riguardarci. Queste lamentele che ho sopra
citato ci vengono dai discografici, dalle case editrici, dalle catene
di distribuzione cinematografica che passano il loro tempo a stilare
esasperanti statistiche miranti a colpevolizzare chi non vuole
avvalersi di questi consumi. Ma mai e poi mai sentiamo da questi
addetti ai lavori un esame di coscienza sui costi cui vogliono
costringerci che, ripeto, sempre meno sono alla portata di tutti. Per
fare un esempio prendiamo il costo medio di un cd musicale che si
aggira oltre le 35.000 lire, ben oltre il costo medio dei paesi
europei. Dobbiamo riconoscere che se non fosse stato per la cosiddetta
pirateria musicale ancor meno sarebbe stato il numero di giovani che
poteva godersi l’ascolto di cantanti o gruppi preferiti. Certamente è
più o meno discutibile l’uso della pirateria che viola i diritti
d’autore, ma di certo il più delle volte è stata per chi ne ha fatto
uso di una vera e propria legittima difesa.Dunque a chiara voce
dobbiamo pretendere l’abbattimento dei costi, che ricadono sui
consumatori indifesi. Per questo motivo appelliamoci ai nostri
cantanti e gruppi preferiti di far pesare la propria opinione in tal
caso, esigendo un prezzo popolare che tuteli il produttore, l’artista
e non ultimo l’ascoltatore. Alcuni gruppi riescono ad imporre un
prezzo ragionevole, parlo dei 99 Posse ed altri simili, seguendo
l’esempio che in Inghilterra avviene da tempo. Non dobbiamo stancarci
di far sentire la nostra voce, come in questo caso, aumentando così il
tam tam che da un po’ di tempo si sta levando in questa direzione. Non
parlo solo per la musica, ma anche per i libri, il cinema e quant’altro.
La battaglia è all’inizio e non si presenta facile, tuttavia gli
strumenti non ci mancano: riviste come Oblò, internet ed altri mezzi
d’informazione possono esserci d’aiuto. Tutto può contribuire ad
aumentare il nostro peso ‘contrattuale’ verso chi è addetto alle
politiche culturali che una volta per tutte si decida a lavorare in
questo senso, non con scelte risibili ed inefficaci come un
autofinanziamento derivante dal gioco del lotto. Trasformiamo questi
luoghi d’incontri in piazze virtuali dove confrontarci e scambiarci
consigli per appropriarci di questi ‘beni’ che ci appartengono,
appartengono a tutti! |
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Carmelo Bene. Io non
lo conoscevo bene
dell'Avv. Fausto Cerulli |
Ago. 2002 |
Carmelo Bene, io non
l’ho conosciuto bene. Ho visto molti dei suoi spettacoli, mi sono
lasciato provocare quel tanto che lasciava contenti provocatore e
provocato; ed io che in genere a spettacolo finito sono di quelli che
vanno a fare i complimenti al mattatore, con lui non ho avuto né tempo
né occasione; perché Carmelo Bene, prima dello spettacolo e subito
dopo, continuava ad esser solo con se stesso e non è che non volesse
veder gente in camerino: era proprio che non vedeva. Parlo di adesso,
ovviamente; di quando era diventata una star, e ci giocava sopra, a
far la star dello star male. In altri tempi fu diverso; parlo degli
anni ’60, quando il teatro o era Pirandello del Quirino o era
l’avventura degli scantinati di Roma. Lo chimavano far laboratorio:
quasi che fossero chimici attenti agli alambicchi, ed erano studenti
innamorati del teatro, e che per gelosia lo maltrattavano: almeno così
sembrava, ed erano le avancès di un innamorato timido. Una di quelle
storie si svolgeva in una traversa di Via del Gambero, a quattro passi
dal Caffè dove andava Malagodi con la corte, e qualche volta Lelio
Basso, senza corte. Caffè Ciampini, adesso mi ricordo. A cinquanta
metri svoltavi in una piazza sempre buia, angusta come si addiceva
all’avanguardia. Un portone che apriva alle otto in punto, e una
freccia di legno che indicava il sottoscala. Fu lì che vidi le prime
teatrazioni fuori norma: e fu lì che conobbi anche Carmelo Bene. A
quel tempo giocava con Camus, ma guai se gli dicevi che giocava: aveva
già allora i bulbi oculari sporgenti, come chi soffre di tiroide; ma
gli occhi erano pericolosi, gli occhi di un serpente che si guarda
dentro. A quel tempo si usava che a spettacolo finito ( e dovevi
capirlo a volo, che finiva: e applausi niente, malvezzo di borghesi)
si andava a mangiare un piatto di spaghetti dalle parti di via delle
Coppelle, zona Pantheon; che si mangiava bene, a poco prezzo, e
nessuno storceva il naso alle bestemmie. Intese come bestemmie
religiose o come bestemmie di cultura. Carmelo non bevevo, lo ricordo
perché bevevamo tutti quel cattivo vino di Roma che ai Castelli c’era
stato nel sogno del trattore. Carmelo parlava poco: lo ricordo perché
non facevamo che parlare, parlarci addosso, parlare addosso al mondo.
Carmelo mangiava poco: ma voleva formaggio pizzicoso e peperoncino.
Ora Che ci ripenso aveva l’aria di prenderci in giro, e di soffrirne.
Io non facevo parte del gruppo, mi ero solo aggruppato: per questo mi
guardavo il mio Carmelo, scorrendo nella mente le leggende
metropolitane che si cuciva addosso: che amava il teatro per quanto
odiava il pubblico, che non ammetteva commenti quando era in servizio
di scena, che se non la pagavi ti mandava “affanculo”, poi ti
chiedeva scusa e se la prendeva con la Siae: come se la Siae
c’entrasse qualche cosa, in quegli spettacoli improvvisati, rubati e
maltrattati. Per tre o quattro sere frequentai il locale; credo che mi
abbia notato perché ero più spaesato di lui, che era spaesato come un
pugliese in esilio. E forse fu per questo che una sera, prima dello
spettacolo, mi chiamò insieme a Tre o quattro altri studenti; ci portò
in un angolo e ci disse:” Ma quando la finite Di venire a farvi
prendere per il culo?” Proprio e solo così. Carmelo Bene. Io non lo
conoscevo bene. |
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L’orrore del silenzio, il genocidio del
popolo armeno di Tommaso Dumi
Lug. 2002 |
La storia ci ha
insegnato che il ventesimo secolo è stato teatro di terribili
massacri, deportazioni di massa, conflitti atroci. L’orrore delle due
guerre mondiali è ancora vivo nella memoria di chi ha vissuto quei
momenti, spettri di un passato troppo difficile da poter dimenticare
del tutto. Molto si è discusso e scritto riguardo l’olocausto di cui
sono stati vittime gli ebrei. Farlo era quantomeno un dovere morale,
l’approfondimento e la divulgazione di quanto è accaduto è stato
svolto sempre con una grande voglia di capire, mai orfana di un forte
senso di autocritica. Questo tentativo di non dimenticare mai ,
attraverso il dialogo, è rivolto anche alle generazioni future e ai
giovani d’oggi, che non avendo vissuto in prima persona le tristi
esperienze dei loro nonni o dei loro parenti, rischiano di perderne il
ricordo. Ma se è legittimo nonché fondamentale parlare dell’olocausto
del popolo ebraico è altresì giusto illustrare, spiegare e dar
rilievo, per quanto possibile, ad un’altra delle pagine più tristi
della storia del genere umano e ci riferiamo al genocidio del popolo
armeno, definito dalla sottocommissione dei diritti umani dell'Onu,
come il "Il Primo genocidio del XX secolo".
Le informazioni
sulle persecuzioni subite dagli Armeni sono da sempre state fornite
in modo per lo meno superficiale e sporadicamente, per motivi di varia
natura. Finanche le immagini dello sterminio di queste genti da parte
del governo turco, di quella che, per usare una espressione oggi
tristemente nota e soventemente adottata, potrebbe essere indicata
come una “epurazione etnica”, sono state raramente mostrate, anche in
ambito televisivo.
La redazione di
AnnoZero vuole pertanto trattare questo tema con l’attenzione e la
delicatezza che merita, invitando i lettori a inviarci anche semplici
riflessioni. Su gentile concessione della Comunità Armena di Roma,
iniziamo ad introdurre l’argomento, mostrandovi un estratto dal
resoconto stenografico dell’Assemblea Seduta n. 707 del 3/4/2000 con
l'intervento dell’Onorevole Giancarlo Pagliarini in occasione del
dibattito sul riconoscimento del genocidio armeno da parte del
parlamento Italiano, riconoscimento avvenuto con una risoluzione
votata a maggioranza il 17 novembre del 2000.
“ - GIANCARLO
PAGLIARINI: Signor Presidente, signori deputati, pochi giorni fa
il consiglio comunale di Roma ha approvato, all’unanimità, un ordine
del giorno con il quale si riconosce la necessità che l’opinione
pubblica mondiale intervenga a favore del popolo armeno, come è stato
fatto nei confronti dell’Olocausto ebraico. Inoltre, i membri del
consiglio comunale di Roma hanno chiesto che il Governo italiano
riconosca il genocidio degli armeni.
…Il Parlamento
italiano non ha ancora avuto la sensibilità ed il coraggio di
riconoscere questa drammatica verità storica. La caratteristica di
questo genocidio è stata, finora, il silenzio: al silenzio degli
assassini si è aggiunto quello degli Stati, delle vittime, della
diplomazia e della coscienza degli uomini. I pochi armeni che sono
riusciti a fuggire al massacro si sono rifugiati in tutti i paesi del
mondo e si sono messi subito a lavorare.
Hanno rispettato le
leggi dei paesi che li hanno ospitati e hanno costruito famiglie, non
hanno parlato delle loro terre, che hanno dovuto abbandonare per
sopravvivere, né dei loro morti.
All’inizio hanno
scelto il silenzio per ricominciare a vivere; è come se avessero
cercato di dimenticare per trovare la pace in una nuova vita, ma il
ricordo delle case abbandonate di corsa e per sempre, dei genitori,
dei fratelli e dei parenti massacrati non si può spegnere; questo peso
si può sopportare in silenzio, ma il ricordo si trasmette dai padri ai
figli e, con il tempo, il silenzio diventa sempre più insopportabile.
Noi e i nostri colleghi, membri dei Parlamenti degli altri quattordici
paesi che fanno parte dell’Unione europea, abbiamo il dovere di
interrompere questo silenzio delle coscienze e di dare il nostro
contributo affinché tutti i paesi membri dell’Unione europea
proclamino con forza e ricordino questa verità storica.
Riconoscendo il
genocidio del popolo armeno, l’Italia e gli Stati europei che hanno
accolto i pochi sopravvissuti riconoscerebbero la loro identità e
darebbero finalmente un’ultima sepoltura morale alle vittime del
genocidio.
Oggi, il mio compito
è cercare di riassumervi in estrema sintesi i fatti. Onorevoli
colleghi, i punti che dovete considerare sono i seguenti: armeni e
turchi hanno vissuto fianco a fianco per più di otto secoli in una
situazione di delicato equilibrio e di tolleranza reciproca. L’impero
ottomano aveva concesso alle minoranze cristiane libertà di culto e di
lingua, ma nell’impero ottomano gli infedeli, ovvero i cristiani e
tutti coloro che non erano mussulmani, erano considerati cittadini di
secondo ordine, non potevano possedere armi, avevano minori diritti e
avevano l’obbligo di pagare alcune imposte speciali.
Nel 1914 l’impero
ottomano è entrato in guerra a fianco dell’Austria e della Germania.
Gli armeni, che vivevano sia nelle regioni del Caucaso sia in quelle
dell’impero ottomano, si sono trovati a combattere su due fronti.
Nell’inverno del 1914 e del 1915, l’esercito turco, che era avanzato
nel Caucaso, subì una durissima sconfitta a Sarkamis e la colpa fu
attribuita agli armeni che furono accusati di tradimento e di
complotto. Il 25 febbraio del 1915, lo stato maggiore ottomano ordinò
di disarmare tutti i soldati armeni e in molte città si verificarono
episodi di violenza. Nella notte di sabato 24 aprile 1915 fu dato
l’ordine di arrestare gli armeni che abitavano a Costantinopoli; il
massacro era cominciato e gli Stati dell’Occidente ne erano a
conoscenza. Il 27 maggio 1915 fu approvata una legge che autorizzava
la deportazione delle persone sospette. Quella legge autorizzava i
comandanti militari a deportare i cittadini che essi ritenevano
colpevoli di tradimento e di spionaggio. In effetti, quella legge ha
consentito di deportare e di uccidere in massa ed in modo premeditato
ed intenzionale un intero popolo. Le numerose testimonianze confermano
che si è trattato di un processo di distruzione sistematico e
organizzato. Quando non venivano massacrati sul posto, gli armeni
erano messi in colonie di deportati che dovevano camminare verso il
deserto di Deir er Zor, in Siria; li facevano camminare finché non
erano tutti morti. Questa, purtroppo, è la storia. Ecco alcuni numeri
di quel recente passato che deve essere conosciuto: all’inizio del
secolo, in Turchia, vivevano circa 1 milione e 800 mila armeni; circa
700 mila sono stati massacrati nelle loro città e circa 600 mila sono
morti durante le deportazioni; altri 200 mila sono scappati verso il
Caucaso; 150 mila verso l’Europa, mentre in Turchia sono sopravvissuti
meno di 150 mila armeni. Più del 70 per cento della popolazione armena
che viveva da 3000 anni in Anatolia fu annientata. Questi sono numeri
che rappresentano il bilancio del genocidio degli armeni. È successo
pochi anni fa, all’inizio del secolo. I nazisti non erano al potere e
tanti ebrei vivevano ancora tranquilli in Germania e in Italia. Hitler,
il 22 agosto 1939, prima dell’invasione della Polonia, durante una
riunione all’Obersalzberg, aveva dichiarato: «Chi, dopotutto, parla
oggi dell’annientamento degli armeni?». Le testimonianze su questa
pagina nera della storia dell’umanità sono tantissime. Oltre alle
drammatiche fotografie del tedesco Armin Wegner, vi sono numerosi
documenti, di cui ne cito solo tre. «Il modo in cui viene effettuata
la deportazione dimostra che il Governo persegue realmente lo scopo di
sterminare la razza armena nell’impero ottomano»: questa è una
testimonianza di Hans von Wangenheim, ambasciatore della Germania in
Turchia in una lettera del 7 luglio 1915. «Non è un segreto che il
piano previsto consisteva nel distruggere la razza armena in quanto
razza»: questa è una testimonianza di Lessile Davis, console degli
Stati Uniti in Anatolia, datata 24 luglio 1915. «Ci hanno rimproverato
di non aver fatto distinzione, in mezzo agli armeni, tra gli innocenti
ed i colpevoli: è assolutamente impossibile, perché gli innocenti di
oggi saranno forse i colpevoli di domani»: così il ministro
dell’interno Tal’at Pascià in un ordine del 1915.
Mi risulta che alla
fine della prima guerra mondiale, quando cadde il regime dei «Giovani
turchi», il nuovo Governo istituì una corte marziale che nel 1919
condannò a morte in contumacia i tre principali responsabili. L’accusa
nel processo del 1919 era di massacro, non di genocidio di un popolo.
Successivamente lo Stato turco ha sempre negato di aver compiuto un
genocidio. La verità ufficiale è che le deportazioni erano state
ordinate per sedare una rivolta, ma è impossibile accettare questa
tesi, anche in considerazione del fatto che la destinazione finale
delle deportazioni era il deserto di Deir er Zor, in Siria, dove sono
arrivati in pochi e dove non è ragionevole ritenere che degli esseri
umani avrebbero potuto sopravvivere, trattandosi di una zona arida,
senz’acqua, senza alberi e senza cibo.
Il Parlamento
europeo ha constatato che il Governo turco, con il suo rifiuto di
riconoscere il genocidio del 1915, ha privato fino ad oggi - e
continua a privare - il popolo armeno del diritto ad una sua propria
storia.
Debbo fornirvi anche
un’altra informazione, colleghi deputati. Il 29 maggio 1998 i nostri
colleghi deputati dell’Assemblea nazionale francese avevano approvato
all’unanimità una legge che riconosceva pubblicamente il genocidio del
popolo armeno. Si è trattato di uno straordinario atto di umanità e di
coraggio civile del Parlamento francese. Il Governo di Ankara ha
reagito con molta durezza, minacciando sanzioni commerciali contro
Parigi...
Ecco, per la
cronaca, alcune agenzie di stampa di quei giorni del 1998. Ventinove
maggio, il ministro degli esteri turco Ismail Cem: «Condanno
l’adozione di questa risoluzione che avrà effetti assolutamente
nefasti sulle relazioni tra la Turchia e la Francia». Trenta maggio:
«La Turchia sta riesaminando le sue relazioni con la Francia e si sta
preparando a sanzioni contro Parigi (...), minacciando il ricorso a
ritorsioni quale l’inclusione della Francia in una "lista rossa"di
paesi che prevede la sua esclusione da tutte le commesse militari
turche». Due giugno: «Il Parlamento turco ha condannato oggi quello
francese». Cinque giugno: «Il riconoscimento ufficiale da parte
dell’Assemblea nazionale francese del genocidio degli armeni ha
provocato il rinvio della firma di un contratto per 2,7 miliardi di
franchi tra la francese Aerospaziale e l’industria turca per la
fabbricazione del missile Eryx».
I motivi di questa
reazione possono essere tanti. Uno, non secondario, è che l’opinione
pubblica internazionale avrebbe potuto cominciare a percorrere una
strada che, partendo dal genocidio degli armeni, sarebbe arrivata ai
giorni d’oggi ed alla necessità di un processo di pace nel Kurdistan.
Penso sia mio dovere
citare questi documenti, per trasferirvi, colleghi, tutti gli elementi
di cui io sono a conoscenza, in modo che possiate votare in piena
consapevolezza. Tra i comuni che hanno riconosciuto il genocidio del
popolo armeno c’è anche Imola; ho con me una nota di agenzia di stampa
del 18 maggio 1998 dove c’è scritto che «la Turchia non si limita a
protestare e chiede quella che a Imola considerano una “schedatura” di
tutti i membri del consiglio, a cominciare dal suo presidente: quanti
sono, qual è la loro appartenenza politica, e così via».
Posso citare
numerosi casi simili, fino ad arrivare all’articolo pubblicato lo
scorso martedì 28 marzo dal quotidiano La Stampa, nel quale si può
leggere che «alcune settimane fa il consiglio comunale di Roma aveva
votato a favore del ricordo del genocidio degli armeni da parte dei
turchi nel 1915. I promotori non avevano poi fatto mistero
dell’intenzione di ripetere l’iniziativa alla Camera dei deputati. La
sola ipotesi di un voto a favore di quest’ultima è stata all’origine
di un energico intervento diplomatico di Ankara presso la Farnesina,
per fare presente a quali gravi conseguenze porterebbe una tale
decisione».
La settimana scorsa
ho telefonato alla Farnesina e mi hanno detto che «il momento non è
favorevole». Dunque, colleghi, il Governo e la diplomazia sono
consapevoli del fatto che dobbiamo aspettarci qualche reazione; tutti
dobbiamo essere consapevoli di ciò. Su tale argomento, vi chiedo di
considerare, anzitutto, che nel giugno 1997 i colleghi Leoni, Cento e
Taradash hanno presentato un’interrogazione con la quale chiedevano se
il Governo intendesse riconoscere il genocidio del popolo armeno, come
richiesto da una risoluzione del Parlamento europeo del 1987. La
risposta del Governo, per bocca dell’allora sottosegretario Patrizia
Toia, è stata la seguente: «L’esistenza di perduranti tensioni
nell’area sconsiglia, comunque nel momento attuale, una presa di
posizione ufficiale a livello di Governo su episodi quali il massacro
dell’aprile 1915. Infatti, senza che la tragedia dello sterminio degli
armeni possa essere messa in discussione sul piano storico, un atto
politico di riconoscimento da parte del Governo potrebbe suonare, al
di là delle intenzioni, come un appoggio indiretto all’Armenia nella
sua attuale controversia con l’Azerbaigian, ciò che contraddirebbe la
condotta di neutralità ed equilibrio da noi perseguita in armonia con
le indicazioni della comunità internazionale».
Questa risposta è
stata commentata come segue dallo storico
Marcello Flores:
«Subordinare il
riconoscimento di una verità storica a criteri di opportunità
diplomatica non è solo segno di scarsa sensibilità tanto per la storia
che per la verità; è l’espressione di un’abiezione morale che ha
contribuito non poco, in passato, a giustificare comportamenti
indifendibili in nome di risultati auspicabili».
Sono considerazioni
che sposo totalmente e che sottopongo alla vostra valutazione. A me
sembrano incredibili questi tentativi di non far riconoscere una
verità storica di oltre ottanta anni fa, ai tempi dell’impero
ottomano. Sono in molti in Europa a pensare che l’assunzione di una
responsabilità piena e totale da parte della Turchia debba
rappresentare la prima ed irrinunciabile condizione per procedere
all’esame della richiesta di adesione all’Unione europea avanzata da
tempo dal Governo turco. Tale principio è chiaramente espresso nella
risoluzione del Parlamento europeo del 18 giugno 1987, nella quale si
può leggere che il rifiuto dell’attuale Governo turco di riconoscere
il genocidio commesso in passato ai danni del popolo armeno dal
Governo dei «Giovani turchi» costituisce un ostacolo insormontabile
all’esame di un’eventuale adesione della Turchia all’Unione europea;
penso si tratti di un principio sicuramente condivisibile, che è stato
ripreso da molti....Tale questione non può essere considerata in modo
diverso da destra o da sinistra; non si tratta di ideologie o di
interessi economici, ma della libertà e della dignità dell’uomo, ed è
senz’altro opportuno che su tali argomenti l’Unione europea sia unita
e parli con una sola voce. Con il nostro riconoscimento, inoltre,
aiuteremmo anche i moderati turchi, perché a quel punto Ankara non
potrebbe fare altro che prendere atto della volontà dell’Unione
europea; per la cronaca, sono stato informato che si è formato in
Germania un comitato che ha raccolto 17 mila firme di turchi che
chiedono al loro Governo di riconoscere il genocidio del popolo
armeno.
La storia e la
verità si possono solo accantonare o cercare di nascondere per periodi
più o meno lunghi, ma non si possono cancellare.
Vi chiedo di rompere
questo silenzio e di sensibilizzare con tutti i mezzi che riterrete
opportuni i nostri colleghi nei Parlamenti degli altri Stati membri
dell’Unione europea perché questa sia anche una occasione per
dimostrare a noi stessi che sopra all’Europa di Maastricht ci potrà
essere un’Europa politica.
A mio giudizio,
seguendo l’esempio della Grecia (il cui Parlamento ha riconosciuto
formalmente il genocidio il 25 aprile 1996 proprio il giorno
dell’ottantunesimo anniversario di quella tragedia), del Belgio (il
cui Senato lo ha riconosciuto il 22 marzo 1998), della Francia (che
l’ha riconosciuto con una legge approvata all’Assemblea nazionale il
29 maggio 1998 e non ancora passata per il Senato), della Svezia (che,
come ho detto all’inizio, l’ha riconosciuto pochi giorni fa, il 29
marzo), e mi auguro, seguendo anche l’esempio dell’Italia che spero lo
vorrà riconoscere approvando una mozione che abbiamo cominciato a
discutere oggi, il nostro Governo dovrebbe proporre che prima della
fine dell’anno 2000 in tutti i Parlamenti dei paesi membri dell’Unione
europea venga riconosciuto ufficialmente il genocidio del popolo
armeno e sia espressa solidarietà a questo sfortunato popolo e alla
sua lotta per la verità storica e per la difesa dei diritti umani.
Sarebbe un segnale che l’Europa c’è e che è un’Europa di popoli civili
diversi da quegli Stati che fino ad oggi, in nome della diplomazia e
di altri interessi, hanno preferito dimenticare quello che è successo
in Armenia e incidentalmente hanno preferito non pensare molto a
quello che sta succedendo al popolo curdo. Ecco perché la mozione che
stiamo discutendo, che è stata firmata da 145 colleghi di tutti i
partiti rappresentati in quest’aula, che mi auguro sia approvata
all’unanimità, ha l’obiettivo di impegnare il nostro Governo a
riconoscere pubblicamente il genocidio del popolo armeno. Questo è il
nostro dovere di uomini; è un dovere verso l’umanità, verso i
sopravvissuti e i loro discendenti molti dei quali sono nostri
concittadini italiani ed europei perché, colleghi, come ho letto nel
resoconto stenografico del dibattito, veramente di alto livello, che
si è svolto all’Assemblea nazionale francese il 29 maggio 1998, «non
riconoscere l’esistenza del genocidio di un popolo non tocca
direttamente i sopravvissuti, ma insulta la memoria delle vittime e in
questo modo le assassina una seconda volta».
- PRESIDENTE :
La ringrazio, onorevole Pagliarini, anche per il senso dell’umanità
che ha permeato il suo importantissimo intervento. “
Un ringraziamento
alla Comunità Armena di Roma per la cortese collaborazione, in
particolare a Cesare Piersigilli.
Per ulteriori
informazioni contattare il sito:
www.comunitaarmena.it |
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Conosciamo meglio la
cultura armena di
Cesare Piersigilli Lug.2002 |
Quest'anno si
celebra il centenario della nascita del grande poeta armeno Yegisché
Ciarenz (1897-1937). Non intendo soffermarmi sul poeta e sulla sua
opera, mi limiterò a proporre una sua poesia che è conosciuta e
cantata in tutta la diaspora. Non si tratta di una semplice ode
patriottica, non riecheggia il "Dulce et decorum est pro patria mori"
ma è una vera e propria elegia d'amore, è il "Cynthia prima suis me
miserum coepit ocellis". In tutta la poesia l'Armenia sembra essere
personificata ed il poeta le rivolge dolci parole, rimanda infatti al
tono elegiaco dei famosi versi di Byron: "She walks in beauty, like
the night / of cloudless climess and starry skies / and all that's
best of dark and bright / meets in her aspect and her eyes". Quest'ode
rappresenta per l'armeno un inno di speranza per il futuro. Il poeta
scrive infatti questi versi a sei anni dal genocidio (Metz Yeghern =
Grande Male) che aveva devastato la patria e regalato l'esilio ai
superstiti e quando quel poco che si era salvato dell'Armenia era
caduto nelle mani sovietiche. Il poeta morirà in un gulag siberiano,
ma il suo canto d'amore risuona ancora nel cuore di ogni armeno. Sento
il dovere di ringraziare il Prof. Mario Verdone che ha fatto conoscere
al pubblico italiano Ciarenz.
Yés im anush Hayasdani (Io della mia dolce Armenia)
Della mia dolce
Armenia
Amo la lingua sapore
di sole,
La tragica voce e i
lamenti dei bardi,
Amo i fiori color
sangue
E l'intenso profumo
delle rose
E le danze gentili
delle figlie dei Nairì.
Amo il cielo blu
profondo,
Le acque chiare, il
lago di luce,
Il gran sole, i
venti d'inverno
Che soffiano con
voce di drago,
I muri tristi e neri
delle capanne sperdute nel buio
E le pietre
millenarie delle antiche città.
Ovunque sia ho
presenti
Il singhiozzo grave
delle canzoni,
E i libri di
pergamena pieni di preghiere e di pianti.
Malgrado le piaghe
Che feriscono il
cuore addolorato
La mia Armenia
diletta,
Insanguinata, io
canto.
Per il mio cuore
ebbro d'amore
Non c'è leggenda più
fulgida,
Non vi sono fronti
più pure
Di quelle dei nostri
antichi cantori.
Va per il mondo: non
c'è vetta bianca
Come quella
dell'Ararat.
Come strada di
gloria
Irraggiungibile, io
l'amo.
(Traduzione del
Prof. Verdone tratta da: "Odi armene a coloro che verranno", 1968 -
Edizioni Ceschina). |
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Le pagine della nostra storia di Tommaso
Dumi Giu. 2002 |
Sarà forse capitato
ad alcuni di noi di ritrovare in soffitta, in qualche vecchia
cassapanca, delle lettere impolverate dei nostri nonni, foto rose dal
tempo, memorie e diari di qualche nostro antenato e forse ci siamo
anche commossi nel leggere le loro storie di emigrazione,di miseria e
separazione, di guerra. Qualcun altro avrà invece timidamente
conservato i propri diari giovanili o la propria corrispondenza
amorosa. Sicuramente chiunque scrive lo fa nella speranza che un
giorno qualcuno, leggendo, possa condividere almeno in parte le
proprie sensazioni. Queste testimonianze scritte, semplici e
spontanee, queste storie di gente comune dove esperienze personali ed
episodi storici si intrecciano romanzescamente sono indubbiamente
documenti della memoria storica di un popolo. La storia non è solo
quella riportata dai libri ma comprende anche i piccoli avvenimenti
delle realtà provinciali, spesso ignorate, le verità nascoste, le
privazioni ed ai sacrifici di tante famiglie. Poco importano gli
errori di ortografia o di sintassi. Grazie ad una iniziativa dell’
Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, in provincia di
Arezzo, è possibile inviare il proprio materiale per metterlo a
disposizione di tutti. L’Archivio in questione, finanziato anche dalla
Regione Toscana, dal Ministero per i beni e le attività culturali,
dall'Ufficio centrale beni librari e archivistici e dalla Camera di
Commercio di Arezzo, conserva dal 1984 i diari, le memorie
autobiografiche e gli scambi epistolari degli italiani e ha raccolto
fino ad oggi oltre 4000 storie di vita. Gli stessi
organizzatori dell'Archivio partecipano alla redazione della rubrica "Primapersona" con
ovvi riferimenti alle pagine dei diari. Naturalmente i documenti
devono essere autentici, non rielaborati né corretti da altri. Gli
scritti inediti che pervengono entro il 10 gennaio di ogni anno
possono anche partecipare in modo del tutto gratuito al concorso
annuale "Premio Pieve - Banca Toscana" che mette in palio 1000 euro e
la pubblicazione per il vincitore. Chiunque voglia ottenere maggiori
informazioni al riguardo, affidare a questa "banca della memoria
popolare” il proprio materiale (anche con disegni e foto) può visitare
il sito www.archiviodiari.it molto
ricco e disponibile in quattro lingue, dove è inoltre possibile
scrivere i propri commenti, consultare l'elenco dei brani pubblicati,
leggere il regolamento del concorso
archiviodiari.it/regolamento.htm o il modulo di partecipazione
www.archiviodiari.it/modulo/modulo.htm.
In alternativa, il
recapito della fondazione è:
Fondazione Archivio
Diaristico Nazionale – onlus
Piazza Plinio Pellegrini 1 - 52036 Pieve Santo Stefano (AR)
tel. 0575 797730 0575 797731 fax 0575 799810
Lo scorso mese è
andata in onda su Rai Tre una trasmissione intitolata "I Diari della
Sacher" che presentava ricostruzioni di vita vissuta tratte proprio
dalle storie di alcuni diari consegnati all'archivio. Concludendo, non
solo sarebbe necessario preservare questo nostro comune patrimonio
storico, ma è straordinario constatare come sentimenti, emozioni,
angosce e grandi passioni vissute da altre persone così tanto tempo fa
possano ancora oggi colpire e rimanere impresse nella mente di chi le
legge. |
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Il crollo del mito di
Babele
di Tommaso Dumi Giu. 2002 |
Il problema
dell’estinzione delle lingue, in particolare di quelle delle minoranze
etniche, è da tempo al vaglio di numerosi studiosi. Secondo recenti
statistiche il numero delle lingue prossime alla scomparsa aumenta
quotidianamente in modo allarmante. David
Crystal, autore del saggio "Language Death", edito dalla Cambridge
University Press, sottolinea che nel mondo muore una lingua ogni
quindici giorni . Il dato più preoccupante è che se questo processo
non verrà in qualche modo arrestato, di tutti gli idiomi che
compongono lo straordinario mosaico culturale mondiale (oggi sono
circa 6000), nel ventiduesimo secolo ne sopravvivranno solo 4 o 5 (è
facile intuire quali) e ciò comporterebbe un notevole appiattimento
linguistico. Anche dal punto di vista dei linguisti e degli
scienziati, l’ estinzione di una lingua è una perdita , perché essa
non solo rappresenta la capacità creativa dell'uomo, il mezzo
attraverso il quale egli classifica, organizza e identifica il mondo,
ma anche un’identità, un patrimonio culturale, dato che essa
conserva inconsciamente nella propria struttura e nelle espressioni
la memoria storica di un popolo. Se in passato sono stati i genocidi e
le epurazioni etniche a mettere in serio pericolo gli idiomi delle
minoranze (o presunte tali, dagli indiani d'America agli Armeni), oggi
tra le cause che provocano la scomparsa delle lingue, vi sono la
sempre maggiore tendenza a diffondere una "uniformità culturale",
l’emigrazione, l’urbanizzazione sregolata con conseguente
affollamento delle città e spopolamento dei piccoli centri e delle
comunità rurali. Queste masse migranti portano spesso con sé i propri
idiomi, ma se alcuni gruppi, pur adeguandosi alla nuova
realtà sociale, li conservano gelosamente come “lingua dell’intimità
familiare”, altri (in particolare le nuove generazioni) li abbandonano
a favore della lingua d’adozione, considerando erroneamente la propria
lingua madre come segno distintivo negativo, che causa emarginazione o
minaccia una completa integrazione . Alcuni studiosi consigliano una
maggiore attenzione verso l’educazione linguistica di queste comunità
in movimento, che permetta loro di scorgere nella loro diversità (che
in quanto tale è ricchezza) un motivo di orgoglio e non un marchio di
inferiorità. D’altro canto il presupposto fondamentale alla
sopravvivenza delle lingue è sicuramente la possibilità di parlare,
scrivere, comunicare nel proprio idioma. La tutela delle usanze, dei
riti, della produzione letteraria ha in qualche modo consentito ai
dialetti di sottrarsi dalla sicura scomparsa, il che risulta ancora
più importante se ci si riferisce alle "lingue storiche" e ad un paese
come il nostro che da questo punto di vista presenta una grande
varietà etnica e culturale (basti pensare che solo in Puglia sono
ancora vive forme arcaiche e di immenso valore del greco, presso le
comunità della “Grecìa” Salentina, dell’ albanese presso le comunità
“arbëreshë “ della capitanata, del franco-provenzale nel paesino di
Celle San Vito). Recentemente anche il parlamento europeo si è
favorevolmente espresso in merito alla difesa del pluralismo
linguistico ed alla tutela delle diversità culturali . Il problema
dell’estinzione delle lingue ha inoltre suscitato l’interesse dell’Unesco,
che ha in questi ultimi anni pubblicato “L’Atlante Mondiale delle
Lingue a Rischio d’Estinzione” (tra cui figurano anche lo Yiddish, il
Bretone, il Ladino, il Gaelico irlandese e scozzese e molte altre) ed
ha organizzato la celebrazione dell’ “INTERNATIONAL MOTHER LANGUAGE
DAY”. Nell’edizione dello scorso anno, la Direttrice Generale
dell’Unesco Koïchiro Matsuura , proponendo al riguardo un
maggiore dialogo interculturale, ha definito la lingua d’origine di
ognuno di noi come “la dimora dei nostri pensieri più intimi” che
“rappresenta un universo concettuale, un travolgente e complesso
insieme di suoni ed emozioni, associazioni e simboli il testo
completo è disponibile in inglese all’indirizzo internet:
www.unesco.org/bpi/eng/unescopress/2001/21-02-01.shtml
Molti linguisti hanno avanzato proposte ed iniziative tese a salvare
queste lingue morenti, ed il solo studio di esse contribuisce non poco
a preservarle da una fine certa. Alla luce di tutto questo è doveroso
rimarcare che tutte le lingue, così come le tradizioni popolari, la
musica, le danze, in quanto simbolo di ricchezza e eterogeneità
culturale, rappresentano sicuramente le testimonianze di una civiltà e
un patrimonio inestimabile per l’umanità intera da salvaguardare e
proteggere come se si trattasse di un monumento, un quadro o di
qualsiasi altra opera d’arte. |
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Il popolo della rete ed
i libri
di Tommaso Dumi Giu. 2002 |
La strada che porta
alla pubblicazione di un libro è spesso lunga e tortuosa, in
particolar modo per i giovani scrittori, ai quali viene sempre più
frequentemente richiesto anche un contributo finanziario da parte
delle case editrici per dare alle stampe i testi . Ma se il mondo
editoriale si presenta pieno di incognite e di difficoltà, quello
digitale si rivela sicuramente più accessibile ed economico, anche
alle nuove leve . Sono ormai da tempo in rete, siti che permettono di
promuovere i propri lavori sotto forma di e-book, testi che possono
contenere anche immagini e foto come un libro vero, e che sono
fruibili se in possesso di programmi di lettura, come Microsoft Reader,
scaricabile peraltro gratuitamente all’indirizzo:
www.microsoft.com/reader/it/download.asp
All'estero molti
scrittori hanno già scelto l’e-book per diffondere le proprie opere,
tra cui Stephen King e Frederick Forsyth ed ora anche in Italia si sta
scoprendo con interesse questa alternativa alla produzione cartacea.
Il sito www.romanzieri.com, mette a
disposizione presso la biblioteca telematica interna, e-book di
scrittori classici, moderni e contemporanei, da Omero al Manzoni, da
Dickens a Salgari passando per Hawthorne; permette di scaricare sempre
in modo del tutto gratuito alcuni grandi capolavori della letteratura
straniera in lingua originale
www.romanzieri.com/00cs.htm, inoltre consente la pubblicazione
sul sito degli scritti (monografie,studi, saggi ed elaborati) inviati
al loro indirizzo. Gli stessi creatori di questo spazio web, offrono
l’opportunità di far conoscere giovani autori nella rubrica
“Superlibri Talent Scout” del sito
www.superlibri.com, e nel ricco e curato
www.danteide.com presentano numerose opere di Dante (dalla
Divina Commedia alla De Vulgari Eloquentia) e saggi letterari dedicati
allo studio dello scrittore fiorentino. Queste lodevoli iniziative
sono certamente nate sulla scia del successo di siti che per amore
della letteratura si propongono di incentivare la lettura, come
l’italiano
www.liberliber.it (ideato dai
fondatori del progetto Manuzio, che promuove la crescita di una
biblioteca telematica ad accesso gratuito e senza fini di lucro) e di
http://promo.net
che grazie al Project Gutemberg, rende di pubblico dominio testi
anche in formato .zip e .txt (in inglese) e pertanto consente il
download gratuito da una vasta banca dati di opere letterarie
provenienti da tutto il mondo. Chiunque volesse contribuire alla
realizzazione di questi progetti (assolutamente no-profit) può
contattare direttamente i coordinatori tramite gli indirizzi presenti
nei siti. La piacevole sensazione che si prova sfogliando un libro
vero, in una edizione elegante, non è certamente riproducibile sullo
schermo di un computer ed anche volendo stampare ciò che si legge non
avrebbe lo stesso effetto, ma l'opportunità di reperire in rete opere
senza tempo dei grandi maestri della letteratura mondiale, così
come scritti inediti di autori sconosciuti, probabilmente destinati
ad un cassetto impolverato, è una opportunità da sfruttare al meglio. |
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