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ATTUALITA'

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E' Natale di Vincenzo Andraous Dic. 2002

Sono i giorni dei deliri economici, dei sorrisi ricostruiti, dei gesti gratuiti per ricorrenza. Sono giorni che trascorrono veloci ed è gia ieri nelle dimenticanze immediate che non conoscono sensi di colpa. Giorni che non sono uguali, che non possono esserlo, perchè non segnano tempo a perdere, nonostante i nostri sforzi per rimanere intruppati in bell’ordine nelle abitudini consolidate, che ci giustificano e assolvono. In questo Natale potremmo provare a sentirci Musulmani, Ebrei, Cristiani, nel senso di scambiarci reciprocamente i solchi che ci dividono e allontanano, fino a renderci nemici. Scambiarci pene e gioie, amori e paure, fino a sentire al fondo della carne e al centro del cuore, il bisogno di conoscere per intero il peso della storia, nella necessità di non chiudere il proprio uscio. Scambiarci le nostre storie personali, le nostre interiorità, che non sanno solo di amaro e non stanno disegnate in piramidali fatti a misura da utopisti e manipolatori di coscienze. In questo Natale perché non provare a stare per un solo giorno dietro le sbarre di un carcere, ma non per un accidente, per nemesi indotta, neppure per volontariato personalistico. Un giorno in cella per una precisa scelta di conoscere e capire un mondo che non è separato, che non è distante.  Non è fuori dal vivere collettivo, bensì è dramma da interpretare nel male ricevuto, nel dolore recato, nelle privazioni doppie e triple ben oltre la stessa condanna. Un giorno da ricordare, dove incontrare pezzi di noi stessi sparsi all’intorno, e sanguinare per le tante vittime del reato, per le tante vite dimezzate, denudate della propria dignità.  Un giorno in carcere per toccare con mano ferma e non caritatevole l’urgenza di un ripensamento culturale, che induca non solo a richiedere il castigo per chi infrange la legge, ma riconosca il valore della riconciliazione, della ricomposizione, attraverso  un’attenzione sensibile, che non è accudente, ma accompagna nelle proprie responsabilità e nei propri intendimenti di ritornare ad essere uomini nuovi. Un giorno dietro le sbarre per comprendere l’esigenza di giustizia di chi ha subito come di chi subisce affinché una Giustizia equa favorisca davvero la nascita di uomini equi. In questo Natale proviamo veramente a pregare per un Bimbo che nasce e che vorremmo incontrare all’angolo di ogni strada buia. Un Bimbo che non ha cittadinanze imposte, ma si espande dal principio alla fine per essere “insieme” in un NOI che non volge le spalle alla preghiera che ascolta, ma scopre nuove energie a cui fare ricorso per non ingannarci tra relativismo etico e fede vinta ai tavoli da gioco. Il Bimbo nasce e noi siamo in corsa, con il respiro pesante per le tante cose da fare, siamo preda della pazienza della disperazione. E’ Natale, e allora, e forse, essere più buoni, sta a significare che non sono sufficienti i diplomi, le lauree né i corsi brevi per raggiungere quella dimensione che questa festa ci dona. Questo Avvento sia finalmente gioia che non smette mai, lo sia fino in fondo, affinché questa vita che non arretra, consenta a tutti una laurea assai più ambita, quella della pazienza della speranza.

 
La storia di Natale di Arianna Di Fronzo Dic. 2002

Cari lettori,

ve ne sarete certo accorti....è arrivato Natale!

Che felicità c'è nell'aria, che sensazione di amore, di pace, di gioia... NIENTE AFFATTO!!!

 

Tutta ipocrisia!!!

 

Aprite gli occhi amici, perchè è proprio in questo periodo dell'anno che  luci e addobbi sembrano ovattarci la vista.

 

Direte: da cosa?

 

Dalla realtà, la realtà di tutti i giorni. Quella tanto insofferente realtà che vorremmo dimenticare ma che sempre più insistente ci opprime e, in alcuni casi, ci fa vergognare di appartenere alla categoria degli uomini. Quella realtà alle volte troppo scomoda da accettare e alle volte troppo cruda, tanto da farci chiudere gli occhi per la paura di guardare. E allora: soffermiamoci un'attimo. Se ci guardassimo intorno certo non vedremmo niente di nuovo, ma forse riusciremmo a cogliere la vera natura di queste feste. Momenti di unione familiare, dicono, ma solo per chi la famiglia ce l'ha; momenti di grandi abbuffate, come se non mangiassimo abbastanza durante l'anno: ma per chi! Forse per molti ma non per tutti.  Ma vogliamo ricordare anche... potrei elencare tante altre cose, ma non lo farò. Sicuramente spento il vostro computer basterà che vi affacciate alla finestra di casa vostra, o che scendiate giù in strada perchè io magari domani possa avere il piacere di leggere su questo sito o altrove un nuovo capitolo di questa storia: LA STORIA DI NATALE.

 

Sepolcri imbiancati di Vincenzo Andraous Dic. 2002

Ci risiamo, un altro detenuto si è tolto la vita, un altro numero da immettere nel pallottoliere, un altro rompiscatole in meno. Per la cadenza impressionante che assumono questi accadimenti, verrebbe da dire che il problema del sovraffollamento sta per essere risolto per vie del tutto naturali, per auto esclusione. Ciò che però rende dura la digestione anche ai più disinteressati, sta nel fatto che l’ennesimo scomparso non era un delinquente incallito, neppure un uomo abituato alla gabbia, né era una persona che si sentiva illusoriamente eroe vincente in una prigione, bensì era un poveraccio extracomunitario con pochi giorni da scontare. E allora? Dirà qualcuno. Be’, si potrebbe obiettare, che non occorrono navi in mare né uomini in divisa alle frontiere, si potrebbero risparmiare dei bei denari, conducendo il bagaglio umano in galera, una volta ripescato sulle strade, tanto non è gran spesa un po’ di corda e di sapone. Sarcasmo, cinismo? O ricorso spregiudicato all’estremismo reale? Non so più quale delle due opzioni mi appartenga, ma forse sarebbe bene che qualcuno si chiedesse come rendere le parole meno vuote e i fatti più consistenti. Certo è che del carcere tutti sappiamo tutto, ma a pochi importa qualcosa davvero. Questo vale anche per chi in carcere muore, per chi in galera sopravvive e per chi ci lavora, perché ognuno parla, agisce, dimentica, per ideologia, per appartenenza, di conseguenza ognuno mira al proprio interesse personale, al rafforzamento della propria casta, al male minore da scegliere. E così i morituri non fanno notizia né suscitano pietà: quella è finita da un pezzo nelle carceri italiane.  Esaurita la pietà, come la sensibilità, perché la prigione così deve essere: un luogo di morte, in cui ipocritamente è richiesta speranza e riabilitazione. Il carcere e la pena, il carcere e la persona umana, il carcere e gli operatori mai sufficienti, il carcere e la sicurezza, il carcere... e l’uscita con i piedi in avanti. Un tempo (fortunatamente superato) si “evadeva” in questo modo tra rivolte e omicidi, oggi per somma di sofferenza e di abbandono, e seppure la differenza sia abnorme, non saprei quale delle due eredità sia un fardello accettabile. In questa inumanità che allontana e divide, appare pressante una domanda. Si tratta di stabilire una certezza, non solo quella della pena, troppo spesso usata come nascondimento di ben altre assenze politiche, occorre piuttosto delineare un’altra certezza, quella della vita, della dignità, della speranza. E lo si può fare partendo da un interrogativo, che può apparire anacronistico: a chi il compito di educare? Educare perché e a che cosa e quando?  Queste domande, che possono riguardare ambiti diversi e ruoli distanti tra loro, sono interrogativi esistenziali, e dalla risposta che daremo, responsabile o disimpegnata, dipende in generale la qualità della vita sociale, nello specifico invece il sentire e l’agire di chi il carcere lo gestisce e ancor di più lo vive, subendolo passivamente. Quando una persona muore tragicamente e, peggio, in solitudine, non ci sono soluzioni esaustive o convincenti per far sì che quanto accaduto non si ripeta, ma almeno si può tentare di chiamare con il suo nome quella assenza che ha causato il danno: in questo caso l’attenzione. Si parla spesso di rieducazione, di trattamento, di pena che recupera, di mezzi e strumenti che mancano, forse occorre fare un passo indietro, e pensare, dentro e fuori, nella posizione che ognuno occupa, che siamo educatori e educandi, sempre e comunque, e  educare alla vita può diventare un imperativo anche in galera: se sapremo riconoscere il valore della dignità umana. Educare a rieducare non è uno slogan, né una critica, bensì è intendimento e capacità operativa, affinché il costruire e ricostruire insieme non rimangano forme dialettiche rinsecchite, che servono solo a giustificare il proprio compito, ma ritrovino un sistema di valori, di diritti e doveri condivisi, come processo veritativo per una conquista di coscienza. Il carcere c’è in tutto il suo fisico-psicologico e non se ne può fare a meno: ma di morti ammazzati per sofferenza, solitudine e abbandono, credo proprio di sì. Forse il metodo da adottare e portare avanti per riuscire ad accettare le prove della vita, anche le più dure, sta nel tentare di delineare progetti futuri, che vedano il detenuto impegnato in prima persona. Infatti è al detenuto (giustamente) che si chiede di fare autocritica, di accettare l’accompagnamento in un tragitto di vita privo di libertà, a causa delle proprie azioni sbagliate. Di fronte all’impiccato di turno, potrebbe essere salutare ribadire l’importanza dell’autorità in quanto autorevole, perché chiamata a svolgere una funzione delicata, non limitata al contenere, una funzione ineliminabile nelle tante storie anonime e lacerate, quella di educare alla vita, senza falsi moralismi, ma attraverso una relazione, un rapporto con la società, perché è solo nell’incontro con l’altro che esiste possibilità di uscire dal proprio sé. L’altro siamo noi, nessuno escluso.

 

Clemenza per il popolo degli sconfitti di Vincenzo Andraous Dic. 2002

Mi è stato chiesto cosa penso dell’intervento del Santo Padre svolto alle Camere riunite a Monte Citorio. Confesso che mi sento imbarazzato quando debbo parlare del Pontefice, perché non c’è niente che possa essere messo in discussione del suo pensiero, persino le ideologie perdono (giustamente) l’urto, così è anche per il pensiero aperto del razionalismo che non può opporre armi di offesa. Sarebbe sufficiente quel Suo sguardo stanco e martoriato, per piegare il busto e ogni dura cervice, al suono di quella voce che non è mai superata da quanto non è più, ma irrompe ogni volta dall’alto per donare non parole, ma segni di speranza che non hanno necessità di convincere, di accodare, di illudere, bensì di coinvolgere le coscienze nel valore del bene. Ho seguito il Suo discorso e ascoltato l’applauso fragoroso che i Parlamentari gli hanno tributato. Inizio questo contributo da quel discorso e da quell’applauso, perché  meritano davvero una riflessione profonda. Infatti ascoltare sottende capacità di ascolto, è udire intenzionalmente, immergendo il senso primario dell’udito, quale volontà di udire. Il messaggio svolto dal Papa è stato un abbraccio  che ha avvolto l’intero sistema Italia, e, più in là, il mondo che ci circonda, che noi spesso tentiamo di ingabbiare per renderlo supino ai nostri interessi. Guerre tutte ingiuste, povertà ingiustificabili, poteri impropri non accompagnati da servizio, pari opportunità e pari dignità per tutti, questo ho inteso nel Suo verbo. Poi ho sentito la Sua preghiera nell’auspicio di un atto di clemenza verso il popolo detenuto, ho ascoltato in silenzio quelle parole, un silenzio che mi ha attraversato in una emozione nuova, forte e intima. Una emozione non certamente riconducibile al calcolo derivante dall’incasso di una eventuale riduzione di pena, personalmente non ho mai beneficiato di indulti né di amnistie a causa dei reati commessi (ciò la dice lunga sulla gran cassa mediatica che indica  l’esercito di malfattori  che ne godrebbero gli effetti ). No, l’emozione che mi ha assalito deriva dall’attenzione che il Pontefice ha circoscritto e sottolineato, una attenzione che pare essere sfuggita ai molti. Purtroppo. Papa buonista e iper garantista? Dai facili sentimenti solidaristici, tutti improntati alle comode scorciatoie, ai perdonismi che consentono USCITE di emergenza ai soliti furbi o ignoti fin troppo conosciuti? Quell’applauso scoccato all’unisono da destra e da sinistra, dal mezzo, dal sopra e dal sotto di ogni pensiero differente, pareva indicare una comprensione frontale, diretta, non derogabile nel tempo, eppure in pochi istanti si è ridotto l’Uomo nella  sola espressione di  fede  e di buona Novella. Ho ascoltato il Santo Padre, e quella richiesta per un atto di clemenza per i detenuti,  e mi ero convinto fosse stata percepita l’essenza del ragionamento. Invece, nel momento stesso in cui Egli faceva ritorno in Vaticano, le gabbie di partenza  sono state immediatamente ricomposte, anzi fornite di nuove serrature. Le dialettiche stantie, sepolcrali, hanno ricoperto l’uditorio, e gli slogans si sono sprecati in nome di una Giustizia divenuta una coperta stretta, stiracchiata a tal punto da non soddisfare alcuno. Eppure in quella preghiera del Santo Padre non c’è polemica per un carcere ormai ridotto a un mero contenitore di…numeri, per una pena che imprigiona e abbruttisce, e abbandona a se stessa la persona, costringendola ad arrangiarsi,  perché di rieducazione c’è solamente una discrezione in qualche operatore…anch’esso avvilito e in sottonumero. Non c’è neanche disattenzione per le vittime del reato, perché in quell’attenzione per la istanza di clemenza vi è il senso e la spinta di una attesa in cui collocarsi, ora, adesso, in una seppur minima prospettiva futura, come ha ben detto S. Agostino: "ciò che mi interessa in questo momento, nasce prima di esso; e si estende oltre di esso, come tempo squisitamente umano",  che appartiene anche alla coscienza del recluso. Infatti se io faccio attenzione a te, se imparo a rispettarti, vuol dire che ti attendo, tendo verso di te e mi prendo cura anche di te, e nel contempo ti sto aspettando ( perché la pena ha un suo termine e poi ricomincia il viaggio). Ciò è rieducazione, è forma pratica e costruttiva di recupero, ciò è soprattutto, una pena che, sì, toglie la libertà, ma promuove la persona, la quale entra in possesso di capacità e strumenti per non tornare a delinquere. Sì, sono imbarazzato a parlare del Papa, perché ognuno ha le proprie ragioni, le proprie verità, spesso coniate come somme di scambio. Quell’applauso così sentito, così parente prossimo di una empatia ontologica, forse non ha colto l’importanza di tanto amore e di tanta vista prospettica, in un atto di clemenza che non ha vincolo alcuno con la bonarietà di un incontro Istituzionale, bensì possiede intrinseco l’invito, non a concedere metri al delitto, ma a recuperare chilometri di  dignità  per chi l’offesa l’ha recata, attraverso una clemenza che vuole, deve, sarà un punto di partenza per tentare una riconciliazione con se stessi e con gli altri, una ricomposizione di tante fratture, non ultima quella di un art. 27 della nostra Costituzione che rimane solo un segno incerto, che però scopre il  fallimento di una rieducazione, che le leggi indicano inequivocabilmente, ma mancando gli strumenti appropriati e idonei per poter essere correttamente applicate. C’è tanto e di più da dire, ma forse è più opportuno limitarsi ad affermare che il Pontefice ha tracciato per tutti la condotta morale per trasformare la speranza in pazienza del possibile, e ai presenti in Monte Citorio, ha consegnato le chiavi di accesso per formulare un patto sociale di responsabilità operativa delle coscienze.

 

Formiche o cicale? di Mario Emari Nov. 2002

Tempo di castagne e di risparmio. E per le castagne ci stiamo organizzando, ma considerato il costo della benzina e dell'eventuale ristorante fuori porta, sarebbe meglio acquistarle al mercato. Il risparmio è depresso, quasi quanto il cittadino a fine mese, basta seguire l'andamento della borsa valori. Tempo fa si discuteva pacatamente con amici della differenza tra i "nostri tempi" (si parla di circa 30 anni fa) ed i giorni di oggi. Il 31 Ottobre era considerato come "la giornata del risparmio" e  noi formichine avvedute e prudenti mettevamo qualcosa da parte. In realtà il perché non riusciamo neanche ad arrivare al 27, non è va ricercato nel fatto che siamo diventati improvvisamente tutti cicale sventate e spendaccione, ma soprattutto negli aumenti vari e nelle addizionali spietate. Senza ombra di dubbio oggi tutto è più complesso, finanche trovare lavoro, uno dei tasselli più importanti della vita di un individuo. Quante priorità ha nel cassetto delle promesse il nostro Governo, ma a quanto pare dare lavoro e formazione ai nostri giovani e agli "under 40/50" (magari sfruttando i fondi appositamente riservati dalla Comunità Europea per questi scopi) sembra non sembra essere una priorità assoluta. Ad amor del vero, qualcosa si muove, bisogna darne atto al governo, con un timido fiorire di corsi di specializzazione e formazione professionale (l'effettiva utilità pratica e gli sbocchi lavorativi che essi garantiscono sono poi tutti da verificare) ma è ancora troppo poco per soddisfare le esigenze lavorative dei tantissimi disoccupati che sprecano i migliori anni della propria vita a braccia conserte attendendo una telefonata o una lettera che forse non arriverà mai, anche dopo anni di sacrifici e di studi. Il mercato del lavoro non va affatto trascurato, anzi dovrebbe essere considerato come una delle priorità assolute e i nostri politici e  tutti gli esperti in finanza lo sanno molto bene. Forse però, i miracoli non si possono fare o c’è poca volontà di cambiare, in particolare nel sud, ancora insabbiato in una mentalità spesso retrograda da parte degli imprenditori di piccole e medie aziende. Il lavoro è una cinghia di trasmissione per far riprendere la corsa alle opportunità e ai consumi, alla produttività, al commercio,  ed è fondamentale per l’incremento dei matrimoni e delle nascite. Ma il lavoro, non bisogna dimenticarlo, significa per molti di noi  soprattutto speranza, sicurezza, fiducia nel futuro…una fiducia che oggi manca e questo toglie il sorriso a molti dei nostri ragazzi, sempre più depressi , scoraggiati, pessimisti . Non ultime arrivano le notizie sulla nefasta situazione finanziaria della FIAT, sui licenziamenti di massa di molti dipendenti (a Termini Imerese e non solo), tra i quali i più fortunati saranno destinati alla cassa integrazione. I lavoratori stessi sono sempre più compressi e a volte schiacciati tra sindacati e datori di lavoro, tra diritti e doveri,  reggendo il peso di una situazione ormai insostenibile.  Allora, in un paese come il nostro già penalizzato da un così elevato tasso di disoccupazione, la questione del caro prezzi  assume sempre più l'aspetto della pioggia che cade sul bagnato. Ci auspichiamo che,  se non altro, chi sia preposto alla risoluzione di questi problemi (che a mio parere sono al di sopra di ogni differenza di opinione politica), si faccia avanti con proposte interessanti e risolutive, lasciando in secondo piano i progetti di ristrutturazione della costituzione e del sistema legislativo.

 

Cani senza collare di Vincenzo Andraous Nov. 2002

Zoe è una femmina di Pastore Bergamasco, io e la mia compagna l’abbiamo adottata,  prelevandola in un canile del pavese. L’abbiamo scelta tra tanti altri “dispersi”, ululanti, preda di lamenti, di movimenti isterici, di occhioni svuotati di se stessi. Zoe se ne stava in mezzo alla sua gabbia, ferma come l’acqua del lago, inchiodata alla sua misera esistenza. Ce la siamo portata a casa senza pensarci su due volte. Zoe senza voce, senza sguardo in alto, senza nome né storia, cancellate dalla strada in cui è stata abbandonata perché displasica, terrorizzata dai bastoni e dagli schiamazzi. Troppi calci e mai una carezza. Zoe senza giochi né scoperte da incontrare, era scomparso l’uscio dove infilarsi per conoscere il mondo di affetti a pochi passi dal suo bel nasone. Zoe disperata nei silenzi che assordano… Sono trascorsi i giorni, i mesi e un paio di anni, sei lontana dagli spazi angusti del canile, ora proteggi i metri della tua casa, con le tue nuove passioni, sei padrona della tua scelta d’amare e di essere amata senza forzature e con reciprocità. Non c’è più niente in questa casa che non contempli anche te, e mentre sfioro il viso della mia compagna,  perfino il nostro amore è più bello, in forza del tuo  più smisurato bisogno. La osservo girovagare per le stanze, adagiarsi sul divano, addormentarsi, così mi coglie un parallelismo di non poco conto. Zoe e la sua storia di recente trovata, somiglia per intero a tante altre storie anonime, di giovanissimi dimenticati dal disinteresse più colpevole dei propri cari, abbandonati a se stessi, per rincorrere un benessere che disconosce i più deboli oppure i già vinti in partenza. Rammento Zoe in quei giorni lontani,  e rivedo i troppi ragazzi in questa comunità, non c’è poi tanta differenza nella loro diversità, quattro zampe o due gambe non accorciano i metri di sofferenza imposta e mai cercata. Giovani con il cuore lacerato, le membra tumefatte, con gli occhi umidi e le guance contratte. Zoe piagata e piegata, sola, senza più desiderio di giocare. Giovani minuti e paffuti, annaspano per non annegare nelle solitudini più sconosciute. Zoe e padroni latitanti, ragazzi e amori distanti, tutti a camminare in ginocchio, nonostante i pugni chiusi, il digrignar di denti. Sto scrivendo di lei e Zoe mi osserva, il suo nasone si muove, si protende verso di me, come a voler annusare il frastuono dei miei pensieri. E più mi avvicino al  suo bel muso con la dolcezza che mi ha insegnato, più mi rendo conto che davvero non esistono cani cattivi, né ragazzi da scartare, più banalmente ci sono invece padroni e genitori idioti, e peggio amori mai nati, per la loro incapacità di farsi carico dei "viaggiatori di passi perduti ".

 

Volti nuovi e abiti vecchi di Vincenzo Andraous Nov. 2002

Nell'incontrare tanti giovanissimi e tanti adulti in una comunità, viene da pensare ai volti nuovi, alle carni zigrinate dagli inciampi, dalle droghe, dagli abbandoni seguiti a catena. Viene da pensare agli abiti vecchi e al tempo che ogni cosa riporterà al suo posto, ma io che di tempo ne ho avuto tanto, a ben pensare non so ancora bene cos’è, figuriamoci se posso spiegarlo ad un giovanissimo che del tempo a venire non sa che farsene. Metodo educativo e atteggiamento educativo sono indirizzi precisi, affinché chi affaticato cade, possa, attraverso un percorso di risalita, riacquistare autostima e conoscenza di sé, per poi costruire e mantenere rapporti e relazioni significative, con la capacità di custodire parte del futuro in esse contenuto. Occorre educare bene, educare con amore e fiducia: queste sono parole grandi, affermate da chi grande è stato nel campo della pedagogia del servire. Sono passati anni, ma ancora mi stupisco di fronte all’incedere del disagio che aggredisce giovani e adulti, rimango perplesso, disarmato, senza frecce nella faretra, solo interrogativi. Ascoltando (i ragazzi) e le più autorevoli figure di riferimento nel campo della pedagogia e del metodo educativo, mi rendo conto che nel tentativo di "tirare fuori", di costruire e crescere insieme, non può resistere all’usura del tempo chi parte per “ questa avventura “ con un bagaglio di certezze inossidabili, di regole intransigenti, di binari singoli. Infatti questo è l’ atteggiamento più idoneo per arenarsi negli errori ripetuti. Forse è il caso di armarci di qualche incertezza, dismettendo i cingoli per evitare l’ urto, accettando il dubbio che assale, e che potrebbe divenire una certezza sul modo per giungere insieme al traguardo . E' difficile sapere, conoscere e agire, quando un giovane se ne sta impettito, a muso duro, felice di avere scelto il vicolo cieco , è davvero difficile spiegargli quanto è doloroso, POI, il resto che se ne ricava. Educare non sempre ha medagliamenti o riconoscimenti, spesso è un'avventura senza cielo per compagno, ove non sfugge certo l’utilità dell’opera, ma in cui a volte si producono incomprensioni, quando sguardi diversi interpretano in modi differenti la pur identica finalità dell’accompagnare l’altro. Ecco che allora una comunità è tale,  perché alla priorità del rispetto della persona, affianca l’aggiornamento del conduttore, di colui che a sua volta deve usare il linguaggio in un labirinto di sensazioni e intendimenti, consapevole che non sempre si arriva alla meta per sentieri conosciuti, ma anche per nuove strade che possono coglierci impreparati. C’è il lavoro, lo studio, i momenti di aggregazione, ci sono le situazioni di confronto, quelle spontanee e quelle stimolate, c’è soprattutto la persona da accogliere, da ascoltare, e ciò rende secondario il primato delle competenze, le stesse provenienze esperienziali, che sembrano apparentemente differenti se non distanti. E' complicato "operare" con il disagio, forse è ancora più complesso venirne a capo, perché questo abusare delle cose, delle persone, dei sentimenti, è tessuto insieme attraverso il deteriorarsi dei valori e dei principi, che rimangono tali didatticamente e assai meno nel vivere quotidiano. Prevenire con progetti condivisi e realizzabili rimane solo una intuizione che soccombe alle pressioni economiche-politiche: reprimere costa meno che prevenire, ma il risultato è l’accettazione dell’esclusione, del "sei fuori dal gioco e ci rimani". Messa in prova, misure alternative, meno carcere per il minore, più tutela per chi arranca, ebbene, stanno per diventare strategie pedagogiche obsolete.  Mi chiedo quale può essere il metro di misura da usare con chi è lacerato dentro, se poi questa vista prospettica richiesta al conduttore, è annebbiata da queste norme a venire. L’impressione che si ricava nel camminare insieme alle tante lentezze e devastazioni interiori, è che non solo è difficile ben operare dalle ridotte specole di osservazione a causa della marea di disagio dilagante, ma lo è anche soprattutto per l’avanzare di nuove forme di malessere, che non hanno più l'etichetta protestataria di un tempo. E’ un inverso ipnoticamente diritto che assale generazioni diverse, che si insinua più facilmente in chi non ha strutture mentali formate, in chi nell’evoluzione intellettuale ha ceduto sotto il peso di una libertà inconsciamente percepita come una condanna, per l’incapacità ad onorare reciprocamente le proprie responsabilità. E' un disagio che avanza, che intacca aree di vita in maniera sempre  più esponenziale,  allora,  e forse, per chi conduce attraverso eredità pedagogiche più che mai attuali, perché mai minimamente superate, è necessario accrescere la consapevolezza che l’unica ricompensa per essere riusciti a ben educare, è averlo fatto.

 

Violenza negli stadi di Gennaro Scotti Nov. 2002

Sono un appassionato di calcio: mi piace il gioco, mi piacciono le coreografie e, perchè no, mi fanno sorridere anche gli sfottò tra le tifoserie quando non sono offensivi. Ma quello che è successo domenica allo stadio di Cagliari sfugge ad ogni logica. Per chi non lo sapesse il portiere della squadra ospite, il Messina, è stato aggredito con un pugno alle spalle da un tifoso che aveva scavalcato la recinzione e che poi si è dileguato lasciando lo sfortunato calciatore a terra privo di sensi. Ora, quasi per uno scherzo del destino, si viene a sapere che in Inghilterra un tifoso, reo di aver commesso (in una gara di due mesi fa) "gesti osceni di scherno" nei confronti del portiere dell'Aston Villa, è stato condannato a 4 mesi di carcere, a 6 anni di interdizione da tutti gli stadi inglesi e alla squalifica a vita da quello del Birmingham dove si è svolto il fatto. Inoltre in Gran Bretagna la richiesta di libertà condizionata, per effetto delle leggi Blair del 2000, può avvenire solo dopo aver scontato metà della pena in carcere; quindi il tifoso inglese comunque vada si farà due mesi di galera. Per quel che riguarda l' aggressore di Cagliari per il momento gli è stato vietato l'ingresso negli stadi per 3 anni mentre per quel che riguarda il procedimento penale, non essendo il tifoso stato preso in flagranza di reato, è stato denunciato a piede libero e sarà giudicato con i tempi della giustizia italiana e quindi chissà quando. La differenza tra i due provvedimenti e tra le modalità di applicazione degli stessi è troppo netta. Il vero problema del dilagare della violenza negli stadi italiani (solo nell' ultima domenica si sono verificati incidenti e disordini a Como, Torino, Napoli e Brindisi) sta nel cattivo funzionamento della giustizia applicata al mondo dello sport. Vorrei ricordare che in Inghilterra non ci sono recinzioni, gabbie, reti e tutte quelle diavolerie che vanamente sono impiegate qui in Italia. L' unico vero modo per contrastare e isolare i violenti è inasprire le pene e renderle effettive subito ridando così un pò di sicurezza allo sport sicuramente più amato dagli italiani.

 

Parole soltanto parole di Mario Emari Ott. 2002

Dopo il diluvio di acqua ed aumenti, di arrotondamenti selvaggi, tocca ora alle tariffe energetiche ed all’addizionale degli Enti Locali, che sempre tasse sono! La Comunità Europea ci ha ricordato che le tariffe di società una volta pubbliche, non possono essere bloccate. Essendo le società del gas, luce e telefono quotate in borsa e ormai totalmente o parzialmente private, c’è da chiedersi come possa il governo bloccare le tariffe. Potrebbe però intervenire sul dettaglio delle voci che compongono la bolletta, compresa l’Iva. Un riferimento concreto? Su una ipotetica bolletta telefonica di 58 Euro, il traffico telefonico avvenuto risulta di 23 Euro. La differenza di 35 Euro, superiore al costo delle telefonate fatte, è costituita da balzelli e sopratasse varie! Oltre ai rincari già segnalati, va ricordato che la Regione Puglia e il Comune di Bari (come per tante altre regioni e comuni italiani) hanno aumentato la percentuale delle addizionali, sia sulle tariffe, sia sull’IRPEF. Il governo, nonostante le promesse, non ha ancora ridotto questa tassa di notevole importanza, mentre gli enti locali hanno già aumentato le loro entrate in questi ultimi due anni. Ragionandoci un po' su ( e neanche per tanto tempo ), si arriva alla conclusione che noi cittadini siamo stati gabbati due volte. Senza parlare dei pensionati, in particolare quelli che godono della pensione minima, che prima hanno avuto quel piccolo, illusorio, enfatizzato regalo dallo Stato e  che poi hanno dovuto e dovranno dilapidare quella somma in più che hanno ricevuto non solo per l’aumento dei prezzi dei prodotti di varia natura, ma anche per i ticket sulle ricette ed i farmaci. Ne risulta una vignetta facile da immaginare: un omino sorridente che con una mano elargisce 100 bigliettoni immaginari all’italiano in bolletta e con l’altra ne sfila 200 sempre dalla tasca del malcapitato romantico sognatore in questione. Ai cittadini onesti sottoposti al martirio delle imposte spietate, tocca ancora una volta stringere la cinghia, anche se i fori sembrano essere arrivati ormai alla fine. Si risparmierà sulle telefonate, sul gas, sulla luce, ma non si può risparmiare sulla salute che resta un bene primario che andrebbe tutelato ad ogni costo e non solo dai cittadini ma anche dai signori in giacca e cravatta del parlamento. “Parole parole parole, parole soltanto parole” recitava una celebre canzone di alcuni anni fa…e la gente stufa non ci sta. Così nelle piazze tra un  girotondo e una partita a carte,  sale dal paese la protesta di molti, che hanno compreso i tranelli delle promesse facili di uomini sorridenti, sempre presenti in tv, ma che per ora non si sono mostrate coerenti con gli impegni presi con tutti noi italiani.

 

Dove muore la civiltà di Vincenzo Andraous Ott. 2002

Tante, troppe volte ho scritto, abbiamo scritto del e sul carcere, infinite volte ai silenzi assordanti sono seguiti sofismi e editti che sono rimasti lettera morta. Grosse fette della Società, delle Istituzioni, dei Governi trapassati/attuali, hanno speso parole e intenzioni, ma opere ben poche, se non quelle del redigere rapporti di morti sopravvenute e di utopie tutte a venire: nonostante le dimensioni di una disumanità ormai divenuta regola, di un moltiplicarsi tragico di suicidi, di autolesionismi, di miserie umane così profondamente deliranti, che l’orda barbarica, storicamente così definita dal carcere per i suoi abitanti, s’è tramutata in una colonna sgangherata di esseri perduti, senza più inizio né fine, senza più una professione di fede, neppure quella della strada. Il popolo della galera non ha più generazioni  da consegnare alla storia, quelle che in essa si sono imbattute, sono ormai annientate e hanno portato con sé la rabbia, il furore, la follia. Oggi rimangono in quelle celle fila male intruppate di uomini privi di lingua, di simboli, di segni, soprattutto di memoria da tradurre e rielaborare. Del carcere si parla per scatti, per ripicche, per reazione, per un’Erika, per un Piatti, per un nero o per un giallo, per un ladro e per un assassino, se ne parla per non parlarne più, per distanziare un fastidio pressante, non per rendere giustizia a chi è stato offeso né a chi l’offesa l’ha recata. Se ne parla  per rendere nebulosa e poco chiara ogni analisi, se ne parla per nascondere l’ingiustizia di una giustizia che tocca tutti, ma in cui il messaggio trasmesso, potente e annichilente, impedisce di intervenire. Il detenuto non è un numero, né un oggetto ingombrante…..lo dice il messaggio cristiano, dapprima, e quello di umanità ritrovata poi,  e invece la realtà che deborda da una prigione è riconducibile all’umiliazione che produce il delitto, ogni delitto nella sua inaccettabilità. E’ proprio questa irrazionalità che ingenera pericolose disattenzioni, a tal punto da ritenere il recluso qualcosa di lontano, estraneo, pericoloso, qualcosa di non ben definito. Dimenticando che stiamo parlando di persone, di pezzi di noi stessi scivolati all’indietro. Carcere duro, carcere hotel, sottonumero di organici, corpi speciali e corpi adagiati stancamente su piedistalli di carta. Lamenti e grida, sostituiscono le devastazioni, i massacri e il delirio di onnipotenza di ieri, fino a formare l’ossatura del carcere odierno, composto per lo più da una grammatura incontabile di commiserazione, che neppure intende sottrarsi alla sepoltura di ogni dignità calpestata. Eppure, nonostante le fratture, le lacerazioni, le assenze eterne siano le fondamenta su cui poggiano le ultime speranze, è palese il tentativo di una involuzione pilotata al passato, che incoraggia al presente ideologie senza alcun Dio, se non quello della forza. Nei decenni trascorsi tra sbarre e filo spinato, ho avuto netta l’impressione che incapacitare fosse l’unica risposta da parte di una Società e quindi uno Stato di porsi a mezzo al dilagare della violenza. Sebbene tremendo nel suo effetto il contenuto, non sorprende in quegli anni di rivolte e di ribellioni, l’intendimento di spersonalizzare e annullare l’identità del detenuto. Ma oggi che il carcere non rappresenta più uno zoo umano, ma un contenitore di numeri e di miserie, a che prò riproporre le armi della sola repressione.  A che prò rifiutare una realtà infarcita di membra piegate e piagate.  A che prò, proprio ora, che il lamento non è più un grido di guerra. Forse siamo preda di una visione che ci obbliga a rifiutare la realtà che c’è. O forse siamo addirittura dei bugiardi incalliti, e ciò ci obbliga a raccontare una realtà che non c’è. E’ vero,  il detenuto non è la vittima, infatti le vittime sono senz’altro altri, feriti, offesi, scomparsi, ma il detenuto è persona che sconta la propria pena, che vorrebbe riparare, se posto nella condizione di poterlo fare. Rieducare, risocializzare, reinserire, non sono solamente termini e concetti trattamentali da seguire e svolgere, essi purtroppo stanno a sottolineare l’inadeguatezza al dettato Costituzionale, tanto che nell’impossibilità di rendere fattivo l’intervento rieducativo, è assai più facile trincerarsi dietro i soliti scontati “motivi di sicurezza”. Ma non usare gli strumenti trattamentali e di contro incancrenendo la convivenza, ciò equivale a dichiarare fallito l’ideale più nobile, quello della promozione umana. Allora, sorprendersi se la funzione della pena è latitante, se la recidiva è galoppante, se le menzogne superano di gran lunga la trama di un film, è pura disonestà intellettuale. A chi parla di privilegi, di lussi impropri, basterebbe davvero osservare volti e mani di detenuti in qualche carcere, per rendersi conto del livello di abbruttimento  raggiunto, di quanto questa situazione di indifferenza e solitudine imposte, di mancata applicazione di quella famosa parola a nome rieducazione, risulti deleteria per la persona ristretta. Non so di quale carcere si parli, ma so di un carcere che non ha più al suo interno spinta a rinnovarsi, so di un carcere popolato di uomini vestiti non tanto e solo di rabbia o odio, ma di paura e stanchezza. Uomini che se non aiutati a migliorare, rimangono al palo, con la sola aspettativa di scontare in fretta la propria condanna, e ciò senza alcuna consapevolezza del presente, senza vista prospettica, senza figura del futuro, in una sola parola senza speranza. Chi conosce poco del carcere, di questa condizione inumana, dove è vietato persino sentirsi utili, responsabili, con delle prospettive, ebbene a costui sfugge il senso di questo arbitrio. Forse qualcuno pensa che inchiodare il detenuto in uno stato di inazione e alienazione, comporti la fatica minore, perché così facendo egli sconta la propria condanna senza rompere le scatole a nessuno. Ma questo agire è nuovamente un inganno, perché quel detenuto non è in una situazione di attesa, dove il tempo serve a ricostruire e rigenerare, è l’esatto contrario: quel detenuto non attende domani, egli è fermo a ieri, a un  passato riprodotto e mascherato, a tal punto, che tutto rincula a ieri, come se fosse possibile bloccare il tempo, come se delirare fosse identico a sperare. Rieducare ha costi elevati, comporta cadute e inciampi, ma per evitare il proliferare della criminalità, è la sola strada maestra da seguire, il resto è per davvero illusione.  Inoltre, a ben pensarci, se io riconosco il diritto alle regole da rispettare, quel diritto a sua volta disciplina i rapporti con l’altro, e implica il riconoscimento di tutte le persone, fin anche del detenuto…Ma forse è proprio questo che si vuole cancellare. Un carcere ridondante di criminali irrecuperabili? Ho l’impressione che il carcere italiano possa essere definito un involucro chiuso agli uomini, alle idee, ai cambiamenti, così premeditatamente chiuso e imbullonato al pregiudizio, che persino la pietà è divenuta un sentimento buonista. Tutto è buonista nei riguardi del carcere, a tal punto che l’inumanità oramai è un effetto meccanico di un contesto standardizzato, e allora perché scandalizzarsi, rischiando anche di essere annoverati nel movimento dei caritatevoli, o peggio dei sostenitori del male. Guardare da un’altra parte, quando in carcere ci sono tasselli di vita mancanti alla nostra? L’esperienza mi insegna che coloro che hanno fatto del male, hanno soltanto una via da percorrere per ritornare a essere uomini nuovi, una via che non è soltanto quella dei venti o trent’anni di carcere da scontare, ma quella della ricerca di azioni nuove per tentare di rimediare e quindi accorciare le distanze. Ma perché ciò possa diventare terreno fertile per costruire insieme un carcere a misura di uomo, occorre parlare dei problemi veri, affinché una Società e una Giustizia equa, possano davvero sperimentare ciò che è lecito da ciò che non lo è.

 

La nuova stagione della guerra agli uccelli di Marcello Tucci Sett. 2002

"…dimmi se posso continuare a mettere briciole sui balconi…"

 

Cantava cosi il buon Concato, in una delle sue più belle canzoni.

 

Certo caro Fabio che puoi continuare a mettere briciole sui davanzali o fuori dalle finestre, ma hai voglia di aspettare che pettirossi o pespole o altri piccoli uccelli vengano a becchettare il pane messo lì per loro. A parte il mio facile sarcasmo fra breve inizia la nuova stagione venatoria: un esercito di 800.000 cacciatori, per un primo momento cui se ne aggiungeranno molti altri, sta già imbracciando il fucile per iniziare una guerra mai dichiarata ad ogni sorta di volatile e quanto altro ancora. Per quest’anno le cose tragiche da notare sono almeno due. Prima di tutto la caccia si apre con largo anticipo rispetto agli anni precedenti. In questo modo si mette così a serio repentaglio le innumerevoli specie che si preparano per le migrazioni, con al loro seguito la relativa prole che non ha avuto tempo per imparare ad orientarsi con gli adulti. In questo modo si otterrà la ‘simpatia’ ed il ‘favore’ della più truce delle lobby, appunto quella dei cacciatori e del suo relativo indotto. In cambio le regioni interessate riceveranno finanziamenti a pioggia per tacitarne le coscienze. Quello della caccia è un annoso problema che nonostante le innumerevoli richieste di una sua abolizione o almeno un’adeguata sospensiva per un periodo di tempo non trova nelle aule del parlamento un momento di serio e pacifico confronto. Si noti inoltre che la stragrande maggioranza d’italiani (87%) è nettamente contraria a questo ‘sedicente’ sport, scippata anche dalle innumerevoli richieste referendarie; nonostante ciò si persegue ostinatamente ad invogliare questa pratica omicida che tanti danni e squilibri ambientali sta portando.  Come se non bastasse la seconda e tragica notizia e che l’attuale governo per decreto ha stabilito che quest’anno si può sparare anche alle specie più piccole che nel resto dell’Europa (cui ci vantiamo di farne parte) sono largamente protette ed inoltre si può cacciare anche all’interno dei Parchi ed Oasi naturali. Insomma vedremo cadere vittime delle doppiette uccelli prima protetti come tortore e pettirossi, cince e cinciallegre ed altri ancora. Tutto ciò succede nel nostro paese ad opera di questo governo che può contare su una maggioranza trasversale, mentre in più parti si discute di sviluppo sostenibile ed ambiente. Per onore del vero e per correttezza non ho la pretesa di puntare il dito su questo governo di centro destra, che dell’ambiente ha una strana concezione, anzi nei precedenti governi dell’Ulivo niente si è fatto per debellare questa piaga. Molti ricorderanno la famosa consultazione referendaria sulla caccia, collegata anche all’abolizione dell’uso dei pesticidi, svoltasi una decina d’anni fa. In quella occasione, con la colpevole complicità dei partiti della sinistra storica, il referendum fallì per non avere raggiunto il quorum necessario poiché gli italiani furono invitati a disertare le urne. Dunque questa è un’ulteriore riflessione per ripensare una società diversa, che mai più può prescindere dall’ambiente e della sua tutela, che sempre più si pone come problema dominante per i giorni che stiamo vivendo e per il prossimo futuro, presago di cattivi segnali sempre più visibili agli occhi di tutti.

 

Rincari sotto il sole  di Mario Emari Sett. 2002

Con Ferragosto ormai alle spalle l’italiano medio comincia legittimamente a chiedersi cosa resti di questa estate 2002? Tra banalità, chiacchiericci sotto l’ombrellone, tradimenti e pettegolezzi d’ogni genere , minuziose classifiche dei ristoranti, delle discoteche o delle  mete turistiche preferite di vip e politici nostrani, emerge solo un dato degno d’interesse: l’effetto euro sull’aumento dei prezzi dei prodotti di ampio consumo, soprattutto nel campo ortofrutticolo, nonostante le smentite delle indagini ISTAT.  A quanto pare, sin dai primi giorni dell’imminente autunno subiremo inoltre aumenti in vari settori energetici, malgrado i vari interventi ministeriali avessero promesso riduzioni nelle tariffe di gas, luce e telefono. Mai credere alle promesse facili, lo sanno anche i bambini. E il popolo bue (gens italica) si è lasciato adescare da ciarle e turlupinamenti diffusi per mezzo del nostro mezzo mediatico preferito: la televisione. Fortunatamente c’è ancora qualcuno a cui piace ragionare e scrivere con la propria testa, finché sarà possibile, finché non arriverà la censura totale, già in fase embrionale in alcuni settori informativi…o semplicemente finché questa testa continuerà a funzionare quantomeno discretamente. Chi scrive è un Milanese che vive da alcuni anni a Bari, un consumatore come tanti altri, che spesso fa la spesa in un mercato del capoluogo pugliese (per i curiosi precisamente in quello di via Montegrappa) e si considera testimone oculare dei cosiddetti rincari. Attento come voi tutti al prezzo al minuto e al dettaglio (purtroppo quello all’ingrosso non lo possiamo né valutare, né tantomeno modificare), altrettanto attento a non farmi gabbare dallo “specchietto per le allodole”, ovvero quel cartello che espone il prezzo in euro. Facciamo un esempio banale ma utile: i nostri profumatissimi percochi. Prendiamone un chilo, di quelli di prima scelta, lo paghiamo un Euro, vale a dire 1.936 delle nostre vecchie Lire. Lo scorso anno, un chilo dello stesso prodotto lo avremmo pagato 1200/1300 Lire, con un aumento di circa  42 centesimi di Euro. Occhio al prezzo… ma anche al peso. Non conviene mai farsi fare peso e prezzo dal venditore, perché la truffa diventa strisciante. Esigete sempre la pesatura richiesta e tonda… uno due o tre chili (1, 2 o 3 euro). Il sopraccitato specchio potrebbe rompersi e lasciare le innocenti allodole librarsi leggere in cielo, via da questa giungla di speculatori e opportunisti (naturalmente non mi riferisco ai poveri commercianti da bancone... responsabili in minima parte se non per nulla). Attendiamo ora i nuovi rialzi per le vecchie tariffe energetiche, tasse, balzelli e gabelle varie che versiamo e verseremo agli enti locali. Con impazienza attendiamo anche i famosi aumenti per quei pensionati ridotti sotto la soglia della povertà... il problema maggiore è… ahimè… questa soglia… chi la stabilisce? Con questo dilemma vi saluto.

 

E-commerce: boom o floop? di Gennaro Scotti Sett. 2002

Con lo sviluppo e il diffondersi della tecnologia si sono aperte nuove strade per quel che riguarda il commercio. Ai tradizionali metodi di acquisto si sono affiancati nuovi modelli che sfruttano le enormi potenzialità della Rete e in special modo la sua caratteristica di raggiungere un bacino d'utenza vastissimo. Già da tempo si sente parlare di commercio elettronico:esso consiste nell'acquistare prodotti senza muoversi dalla propria abitazione semplicemente scegliendoli con un clic all'interno di negozi virtuali. Questi negozi, nella maggior parte dei casi, non sono altro che le proiezioni on-line di negozi reali. Questi ultimi, cogliendo le opportunità che la Rete mette a loro disposizione, aggiungono alla loro struttura di cemento un'altra costituita da carrelli della spesa virtuali e dai bit di Internet. Detto ciò possiamo affermare che in generale la vendita di prodotti su Internet non ha avuto quel boom che ci si aspettava, tanto è vero che le librerie, le edicole e in negozi in generale continuano ad essere frequentati; nella Rete si trova un ottimo strumento per comunicare (attraverso e-mail, chat, ecc), per informarsi ma non, o almeno non come ci si aspettava, direttamente per fare acquisti. Le motivazioni di questa tendenza sono da ricercare nella perplessità sulle modalità e sui tempi di ricezione della merce, nella poca volontà dei consumatori di pagare con carte di credito e nella difficoltà a muoversi all'interno di alcuni siti. Ma lo scoglio più grande da superare è la volontà da parte dell'acquirente di toccare con mano il prodotto che si accinge a comprare. Chiaramente per attrarre un maggior numero di utenti, questi siti devono essere organizzati in modo efficiente. Per prima cosa deve essere facilmente individuabile la sede del negozio; per un cliente è una sorta di "garanzia" sapere che uno strumento in vendita on-line è esposto in un ben preciso negozio. Può essere utile anche dotare il sito di foto del negozio. Inoltre è indispensabile avere una buona base tecnologica che consenta di aggiornare frequentemente le offerte e tutte le news riguardanti il negozio. E' chiaro che ciò comporta investimenti abbastanza considerevoli che non hanno un riscontro facilmente visibile: la funzionalità di un sito non si può evincere dal numero di acquisti conclusi, ma bisognerebbe sapere anche il numero di informazioni utili fornite ai visitatori. Ciò considerato quindi notiamo che si procede con una politica dei piccoli passi, ovvero si attuano investimenti in modo dilazionato per non incidere pesantemente sui bilanci da un lato, ma da consentire dall'altro di attuare quelle iniziative volte a suscitare la curiosità dei visitatori come la creazione di newsletters, la possibilità di avere molti links, la presenza di un mercatino degli utenti, ecc. Per finire è fondamentale la chiarezza dei costi; il negoziante deve essere il più chiaro possibile su questo aspetto specificando esattamente le spese di trasporto e di spedizione. Del resto per il cliente è abbastanza sgradevole pagare una somma superiore a quanto pattuito e per il negoziante è un pessimo ritorno d'immagine.

 

Il lavoro? Un privilegio per pochi di Mario Emari Sett. 2002

Dallo studio di recenti statistiche si evince che quasi una intera generazione di ragazzi rischia di accedere ad un posto di lavoro solo in età avanzata, nelle migliori delle ipotesi. La situazione, in particolare nel sud, è gravissima e non basta denunciare e fare proposte. Per dare lavoro non servono solo leggi e decreti ma soprattutto forza di volontà, a partire dal mondo imprenditoriale: aziende grandi medie e piccole. Ma l’accusa va inoltre allargata anche a chi gestisce in modo spesso discutibile gli ospedali, i tribunali, le preture, le cooperative agricole, le regioni ,le province e via discorrendo. Questo è un problema che riguarda tutti indistintamente. Quello che rattrista maggiormente è lo sguardo di questi giovani (quelli che non godono di privilegi e benefici di natura “ultraterrena” , concedetemi il tono ironico) che vivono nella speranza, bussando a tutte le porte (anche di quelli che gliela sbatteranno in faccia) alla ricerca di occupazione, disillusi, delusi, a volte privi di ambizioni (e non solo come i più credono solo per debolezza caratteriale ma soprattutto per  le condizioni avvilenti in cui si trovano a muovere i primi passi). Questa schiera di giovani alla ricerca disperata di un impiego (spesso il primo!) è giunta al limite della sopportazione in questa giungla di favoritismi, raccomandazioni ,omissioni, abusi e discriminazioni fatte in nome delle sacre leggi del mercato da industriali che invece di intensificare la produzione con conseguente aumento del personale, preferiscono far lavorare il doppio i  lavoratori già assunti, o che invece di reinvestire gli utili in altre iniziative imprenditoriali che producano altro lavoro, li depositano attraverso espedienti e grovigli bancari, nei paesi del paradiso fiscale . Dov’è finita l’intraprendenza e la volontà di crescere, utilizzando i mezzi , le braccia ed i cervelli a disposizione nel territorio? Vorrei poter toccare il tasto dei salari non garantiti, del lavoro in nero, ma questi argomenti meriterebbero uno spazio maggiore ed una analisi più accurata. Quale è dunque la risposta che spetta a questi giovani e a chi vuole semplicemente vivere onestamente, lavorando? Quanto devono aspettare ancora i nostri figli o i nostri nipoti? Quanto tempo deve passare prima che si possa rimuovere quella patina di superficialità ed egoismo che avvolge questa società che alle volte sembra inumana, questo intollerabile velo  che copre il nostro viso ma che non può coprire le coscienze di noi tutti.

Le nuove frontiere dei virus di Fabio Gargano Lug. 2002

Un nuovo virus informatico minaccia una delle attività più effuse su Internet, la condivisione di fotografie. Si chiama "Perrun" ed è il primo ad essere in grado di colpire file che contengono immagini. Inoltre riesce a infettare non solo i programmi, ma anche i file collegati all'applicazione, finora considerati al riparo da questo tipo di minaccia. Il virus arriva per mezzo di posta elettronica o di un disco flessibile come un file eseguibile. Gli esperti di sicurezza mettono sempre in guardia  gli utenti dall'apertura di programmi inviati come accessori di posta elettronica. Una volta scaricato, il file installa un programma sul disco rigido del computer della vittima e colpisce le immagini. Quando l'utente clicca su una foto con l'estensione jpg, il file di immagine più comune sul web, quest'ultima viene "infettata" dal virus. Finora i virus hanno infettato file di programma; i file di dati, film, musica, testo e immagini erano sicuri da infezione. Mentre i virus precedenti hanno cancellato o hanno modificato file di dati, Perrun è il primo a infettarli. Questo nuovo virus è noto come proof of concept (prova di concetto) e non causa danno. Gli esperti temono che gli scrittori di virus possano impiegare Perrun come una sagoma per creare una versione più distruttiva.

Info virus

Variante: W32.Perrun.dr

Lunghezza di infezione: 11,780 bytes

Sistemi interessati: Windows 3.x, Windows 95, Windows 98, Windows NT, Windows 2000, Windows XP, Windows Me

Sistemi non interessati: Macintosh, Unix, Linux

 

Siti internet da consultare

http://www.mcafee.com

http://www.symantec.com

http://www.sophos.com

 

Igiene al Politecnico di Bari di Salvatore Schembri Volpe Lug. 2002

Che la vita dello studente universitario non fosse semplice, lo si sapeva già, e ogni studente che si rispetti, in cuor suo, sa certamente quali sono i suoi doveri e le sue responsabilità - salvo certamente il fatto di rispettarle! Ciò che però non si sa altrettanto bene è che le responsabilità degli organismi competenti spesso sono lasciate in uno stato di "oblio vizioso" da parte degli stessi, cui spetta di dovere garantire agli studenti quel minimo di confort nel loro ambiente di studio lavoro - quelle che uno studente di matematica o di ingegneria come me definirebbe "Condizioni al Contorno" - per consentire di svolgere le proprie attività in maniera quanto meno sicura. Quello che vedo ogni mattina quando vado a lezione al Politecnico certamente non mi lascia tranquillo né soddisfatto del luogo in cui mediamente trascorro dalle 6 alle 10 ore giornaliere (figuratevi poi i fuorisede). Mi riferisco, e non senza un fastidioso senso di insoddisfazione, alle condizioni igieniche della facoltà di Ingegneria del Politecnico di Bari dove oltre ai numerosi studenti, circolano quotidianamente altrettanti colombi. Non credo che la mia penna possa essere tanto onesta nei confronti del lettore nel descrivere adeguatamente come una buona parte dei corridoi esterni (dove necessariamente gli studenti devono passare per raggiungere le aule) sia letteralmente tappezzata da uno strato di guano (cacca, per i profani) di colombo, mista, forse per garantirne le proprietà isolanti, ad una buona quantità di piume. La cosa, oltre ad essere rivoltante, è per giunta pericolosa dal momento che è risaputo - e chi non lo sapesse può informarsi su una qualsiasi Enciclopedia Medica o rivista specializzata- che i colombi e, in particolare i loro escrementi, sono felicissimo veicolo per infezioni e malattie. Dal canto suo, il Politecnico ha cercato di risolvere il problema alla radice: evitare la presenza stessa dei colombi. Come? Mettendo delle grate di ferro a protezione di tutta l'intelaiatura della struttura al fine di evitare che i colombi vi si posino. Risultato? Dei poveri uccellini se ne vedono un pò di meno, tuttavia a qualche malcapitato è accaduto di rimanere bloccato dentro la grata (o di esservi entrato - visto che i buchi ci sono - e di essersi dimenticato da dove si esce) ecco perché ancora oggi in bella mostra c'è un piccione bello e putrefatto che da almeno due mesi riposa in pace sulle teste degli studenti che ogni giorno passano e spassano per l'università! Personalmente, la cosa mi ha fatto schifo e ho avvisato il responsabile della pulizia, il quale, con faccia alquanto inebetita e serena, mi ha detto: "Ma è un problema toglierlo di lì, ci vuole una scala...", chissà, forse aspetteremo che si decomponga totalmente. Come ciliegina sulla torta aggiungo tutte le solite porcherie che si vedono nelle toilettes (o almeno in quelle degli uomini dove mi è permesso andare) e quindi: orinali intasati colmi fino all'orlo di vari tipi di orina (evidentemente chi ce l'ha proprio in punta, per evitare una spiacevole perdita incontrollata, non si preoccupa tanto di controllare se l'orinale prescelto sia agibile, buffo sarebbe se lo sventurato non contribuisca proprio alla goccia che fa traboccare il vaso...); WC pieni di carta igienica (sporca naturalmente) e di residui fecali con annesso soave profumo; porte letteralmente divelte e sgangherate (compresa qualcuna delle aule grandi - per gli interessati aule C e B). In conclusione, mi scuso con l'eventuale lettore per il linguaggio crudo e credo anche nauseante in certi termini che ho adottato, ahimè, è l'unico modo che ho per descrivere ciò che vedo!

 

Inefficienza del sistema bibliotecario di Angelo Damiani Giu. 2002

Essendomi confrontato con la compilazione della tesi di laurea, negli ultimi mesi, ho avuto modo di osservare la carenza del servizio bibliotecario barese.  Per la verità, l’inefficienza delle nostre biblioteche è un problema  antico, che esaspera  gli sfortunati avventori  che si apprestano a difficili e spesso infruttuose ricerche bibliografiche. Tempo fa, ebbi la possibilità di leggere un articolo sulla “Repubblica” di Bari in cui veniva descritta l’odissea dell’avventore tipo della Biblioteca Nazionale Sagarriga Visconti, ubicata al piano terra del palazzo dell’Ateneo Barese. Leggendo quelle righe mi sembrò quasi  di rivivere le innumerevoli volte che, recandomi in quella struttura, subii l’inefficienza di  un servizio che con gli anni sembra solo peggiorare. Da studente di Lettere so quanto le biblioteche del nostro territorio siano tutto il contrario di ciò che dovrebbero essere. Mancano i mezzi informatici, manca la buona volontà, manca spesso anche il rispetto per un luogo che ha il dovere di custodire la nostra memoria storica e manca probabilmente anche l’interesse delle istituzioni che non fanno niente per modernizzare cataloghi cartacei che, nell’anno 2002, sono ormai improponibili. Anche il sistema bibliotecario dell’Università degli studi di Bari o meglio dovrei dire quello della facoltà di Lettere e Filosofia non è esente da critiche. Nell’Università ogni dipartimento è indipendente e ciò significa che ogni dipartimento gestisce il proprio patrimonio librario come meglio crede. I dipartimenti decidono se consentire il prestito dei libri agli studenti, e in quali casi e a quali studenti concedere questo diritto. Ci sono istituti, come quello di “Tradizioni culturali europee”, diretto dal Prof. Amoruso, che hanno stabilito di non prestare i propri libri poiché “in passato molti testi sono stati rubati”. Questo è un caso limite ma, nella maggior parte dei casi, ogni studente può avere in prestito, solo nel periodo della compilazione della tesi e previa autorizzazione del proprio relatore,  esclusivamente i testi del dipartimento presso il quale ha deciso di laurearsi e della biblioteca A. Corsano.  Paghiamo le tasse alla Facoltà di Lettere e Filosofia ma possiamo prendere in prestito i libri di un solo dipartimento proprio in quella facoltà in cui ci insegnano che la cultura è un bene di tutti e che tutti dovrebbero avere libero accesso ai libri, i custodi della nostra memoria storica.  È accettabile poi che il sistema OPAC (online public access catalogue), esistente da circa due anni, sia ancora incompleto e inefficiente perché molti dipartimenti non si affrettano a rendere disponibile on-line il loro patrimonio bibliografico? Lascio aperti questi interrogativi perché spero che gli utenti di AnnoZero  vogliano esprimere il loro pensiero su questi piccoli problemi.

 

La morte semestrale dell'hardware pc di Enzo Lasorella Giu. 2002

Ecco; siamo arrivati in un periodo tecnologico e commerciale dove qualsiasi prodotto hardware destinato all'utenza professionale e privata, subisce purtroppo da parte del grande mercato una morte prematura, con la conseguenza dello sfruttamento dello stesso con meno del 40% delle sue prestazioni. In maggiore risalto vi sono le schede grafiche; Ormai adoperate in più campi lavorativi o di intrattenimento , che vengono prodotte con chip innovativi di ultima generazione e prevedono prestazioni molto interessanti che risulterebbero in quel momento il top della gamma. Ma molta gente non sa che un modello così innovativo, sarà in una data più o meno vicina a 6 mesi , messo fuori produzione dalle aziende, oppure verranno detratti i costi di sviluppo precedenti, abbassandone notevolmente il prezzo di lancio per far posto a un nuovo modello. Questo e' secondo molti di noi un aspetto negativo per l'utenza finale e le motivazioni per una seria protesta nei confronti di questo monopolio sono in netta evidenza.

Possiamo quindi elencare dei punti che raggruppano vari aspetti negativi:

1) prezzo elevato su schede grafiche, ridotto del 40% dopo 6 mesi
2) a volte la qualità non è così elevata e ci sono molti problemi di driver
3) Il produttore impone dei ricarichi minimi per il rivenditore finale
4) La merce spesso e volentieri subisce richieste di rma (garanzia)
5) Il reperimento del software è molto disorganizzato
6) La traduzione di manuali tecnici nella nostra lingua è quasi impossibile da reperire
7) Il prodotto subisce ritardi nelle consegne e il valore dello stesso perde moltissimo in valore economico

Ci potrebbero essere anche tantissimi altri punti che voi stessi potreste pensare, ma a questo si aggiunge un alto numero di utenti insoddisfatti e delusi da questo comportamento che in campo informatico si subisce. La critica come sappiamo è costruttiva, anche se in questo caso può essere solo guardata come informazione diretta, senza purtroppo dei fatti concreti.

   
 

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