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ATTUALITA' |
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E' Natale
di
Vincenzo
Andraous
Dic. 2002 |
Sono i giorni dei deliri economici, dei sorrisi
ricostruiti, dei gesti gratuiti per ricorrenza. Sono giorni che
trascorrono veloci ed è gia ieri nelle dimenticanze immediate che non
conoscono sensi di colpa. Giorni che non sono uguali, che non possono
esserlo, perchè non segnano tempo a perdere, nonostante i nostri
sforzi per rimanere intruppati in bell’ordine nelle abitudini
consolidate, che ci giustificano e assolvono. In questo Natale
potremmo provare a sentirci Musulmani, Ebrei, Cristiani, nel senso di
scambiarci reciprocamente i solchi che ci dividono e allontanano, fino
a renderci nemici. Scambiarci pene e gioie, amori e paure, fino a
sentire al fondo della carne e al centro del cuore, il bisogno di
conoscere per intero il peso della storia, nella necessità di non
chiudere il proprio uscio. Scambiarci le nostre storie personali, le
nostre interiorità, che non sanno solo di amaro e non stanno disegnate
in piramidali fatti a misura da utopisti e manipolatori di coscienze.
In questo Natale perché non provare a stare per un solo giorno dietro
le sbarre di un carcere, ma non per un accidente, per nemesi indotta,
neppure per volontariato personalistico. Un giorno in cella per una
precisa scelta di conoscere e capire un mondo che non è separato, che
non è distante. Non è fuori dal vivere collettivo, bensì è dramma da
interpretare nel male ricevuto, nel dolore recato, nelle privazioni
doppie e triple ben oltre la stessa condanna. Un giorno da ricordare,
dove incontrare pezzi di noi stessi sparsi all’intorno, e sanguinare
per le tante vittime del reato, per le tante vite dimezzate, denudate
della propria dignità. Un giorno in carcere per toccare con mano
ferma e non caritatevole l’urgenza di un ripensamento culturale, che
induca non solo a richiedere il castigo per chi infrange la legge, ma
riconosca il valore della riconciliazione, della ricomposizione,
attraverso un’attenzione sensibile, che non è accudente, ma
accompagna nelle proprie responsabilità e nei propri intendimenti di
ritornare ad essere uomini nuovi. Un giorno dietro le sbarre per
comprendere l’esigenza di giustizia di chi ha subito come di chi
subisce affinché una Giustizia equa favorisca davvero la nascita di
uomini equi. In questo Natale proviamo veramente a pregare per un
Bimbo che nasce e che vorremmo incontrare all’angolo di ogni strada
buia. Un Bimbo che non ha cittadinanze imposte, ma si espande dal
principio alla fine per essere “insieme” in un NOI che non volge le
spalle alla preghiera che ascolta, ma scopre nuove energie a cui fare
ricorso per non ingannarci tra relativismo etico e fede vinta ai
tavoli da gioco. Il Bimbo nasce e noi siamo in corsa, con il respiro
pesante per le tante cose da fare, siamo preda della pazienza della
disperazione. E’ Natale, e allora, e forse, essere più buoni, sta a
significare che non sono sufficienti i diplomi, le lauree né i corsi
brevi per raggiungere quella dimensione che questa festa ci dona.
Questo Avvento sia finalmente gioia che non smette mai, lo sia fino in
fondo, affinché questa vita che non arretra, consenta a tutti una
laurea assai più ambita, quella della pazienza della speranza.
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La storia di Natale
di Arianna Di Fronzo Dic.
2002 |
Cari lettori,
ve ne sarete certo
accorti....è arrivato Natale!
Che felicità c'è
nell'aria, che sensazione di amore, di pace, di gioia...
NIENTE AFFATTO!!!
Tutta ipocrisia!!!
Aprite gli occhi
amici, perchè è proprio in questo periodo dell'anno che luci e
addobbi sembrano ovattarci la vista.
Direte: da cosa?
Dalla realtà, la
realtà di tutti i giorni. Quella tanto insofferente realtà che
vorremmo dimenticare ma che sempre più insistente ci opprime e, in
alcuni casi, ci fa vergognare di appartenere alla categoria degli
uomini. Quella realtà alle volte troppo scomoda da accettare e alle
volte troppo cruda, tanto da farci chiudere gli occhi per la paura di
guardare. E allora: soffermiamoci un'attimo. Se ci guardassimo intorno
certo non vedremmo niente di nuovo, ma forse riusciremmo a cogliere la
vera natura di queste feste. Momenti di unione familiare, dicono, ma
solo per chi la famiglia ce l'ha; momenti di grandi abbuffate, come se
non mangiassimo abbastanza durante l'anno: ma per chi! Forse per molti
ma non per tutti. Ma
vogliamo ricordare anche... potrei elencare tante altre cose, ma non
lo farò. Sicuramente spento il vostro computer basterà che vi
affacciate alla finestra di casa vostra, o che scendiate giù in strada
perchè io magari domani possa avere il piacere di leggere su questo
sito o altrove un nuovo capitolo di questa storia:
LA STORIA DI NATALE. |
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Sepolcri imbiancati
di
Vincenzo
Andraous
Dic. 2002 |
Ci risiamo, un altro detenuto si è tolto
la vita, un altro numero da immettere nel pallottoliere, un altro
rompiscatole in meno. Per la cadenza impressionante che assumono
questi accadimenti, verrebbe da dire che il problema del
sovraffollamento sta per essere risolto per vie del tutto naturali,
per auto esclusione. Ciò che però rende dura la digestione anche ai
più disinteressati, sta nel fatto che l’ennesimo scomparso non era un
delinquente incallito, neppure un uomo abituato alla gabbia, né era
una persona che si sentiva illusoriamente eroe vincente in una
prigione, bensì era un poveraccio extracomunitario con pochi giorni da
scontare. E allora? Dirà qualcuno. Be’, si potrebbe obiettare, che non
occorrono navi in mare né uomini in divisa alle frontiere, si
potrebbero risparmiare dei bei denari, conducendo il bagaglio umano in
galera, una volta ripescato sulle strade, tanto non è gran spesa un
po’ di corda e di sapone. Sarcasmo, cinismo? O ricorso spregiudicato
all’estremismo reale? Non so più quale delle due opzioni mi
appartenga, ma forse sarebbe bene che qualcuno si chiedesse come
rendere le parole meno vuote e i fatti più consistenti. Certo è che
del carcere tutti sappiamo tutto, ma a pochi importa qualcosa davvero.
Questo vale anche per chi in carcere muore, per chi in galera
sopravvive e per chi ci lavora, perché ognuno parla, agisce,
dimentica, per ideologia, per appartenenza, di conseguenza ognuno mira
al proprio interesse personale, al rafforzamento della propria casta,
al male minore da scegliere. E così i morituri non fanno notizia né
suscitano pietà: quella è finita da un pezzo nelle carceri italiane.
Esaurita la pietà, come la sensibilità, perché la prigione così deve
essere: un luogo di morte, in cui ipocritamente è richiesta speranza e
riabilitazione. Il carcere e la pena, il carcere e la persona umana,
il carcere e gli operatori mai sufficienti, il carcere e la sicurezza,
il carcere... e l’uscita con i piedi in avanti. Un tempo
(fortunatamente superato) si “evadeva” in questo modo tra rivolte e
omicidi, oggi per somma di sofferenza e di abbandono, e seppure la
differenza sia abnorme, non saprei quale delle due eredità sia un
fardello accettabile. In questa inumanità che allontana e divide,
appare pressante una domanda. Si tratta di stabilire una certezza, non
solo quella della pena, troppo spesso usata come nascondimento di ben
altre assenze politiche, occorre piuttosto delineare un’altra
certezza, quella della vita, della dignità, della speranza. E lo si
può fare partendo da un interrogativo, che può apparire anacronistico:
a chi il compito di educare? Educare perché e a che cosa e quando?
Queste domande, che possono riguardare ambiti diversi e ruoli distanti
tra loro, sono interrogativi esistenziali, e dalla risposta che
daremo, responsabile o disimpegnata, dipende in generale la qualità
della vita sociale, nello specifico invece il sentire e l’agire di chi
il carcere lo gestisce e ancor di più lo vive, subendolo passivamente.
Quando una persona muore tragicamente e, peggio, in solitudine, non ci
sono soluzioni esaustive o convincenti per far sì che quanto accaduto
non si ripeta, ma almeno si può tentare di chiamare con il suo nome
quella assenza che ha causato il danno: in questo caso l’attenzione.
Si parla spesso di rieducazione, di trattamento, di pena che recupera,
di mezzi e strumenti che mancano, forse occorre fare un passo
indietro, e pensare, dentro e fuori, nella posizione che ognuno
occupa, che siamo educatori e educandi, sempre e comunque, e educare
alla vita può diventare un imperativo anche in galera: se sapremo
riconoscere il valore della dignità umana. Educare a rieducare non è
uno slogan, né una critica, bensì è intendimento e capacità operativa,
affinché il costruire e ricostruire insieme non rimangano forme
dialettiche rinsecchite, che servono solo a giustificare il proprio
compito, ma ritrovino un sistema di valori, di diritti e doveri
condivisi, come processo veritativo per una conquista di coscienza. Il
carcere c’è in tutto il suo fisico-psicologico e non se ne può fare a
meno: ma di morti ammazzati per sofferenza, solitudine e abbandono,
credo proprio di sì. Forse il metodo da adottare e portare avanti per
riuscire ad accettare le prove della vita, anche le più dure, sta nel
tentare di delineare progetti futuri, che vedano il detenuto impegnato
in prima persona. Infatti è al detenuto (giustamente) che si chiede di
fare autocritica, di accettare l’accompagnamento in un tragitto di
vita privo di libertà, a causa delle proprie azioni sbagliate. Di
fronte all’impiccato di turno, potrebbe essere salutare ribadire
l’importanza dell’autorità in quanto autorevole, perché chiamata a
svolgere una funzione delicata, non limitata al contenere, una
funzione ineliminabile nelle tante storie anonime e lacerate, quella
di educare alla vita, senza falsi moralismi, ma attraverso una
relazione, un rapporto con la società, perché è solo nell’incontro con
l’altro che esiste possibilità di uscire dal proprio sé. L’altro siamo
noi, nessuno escluso. |
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Clemenza per il popolo
degli sconfitti
di
Vincenzo Andraous
Dic. 2002 |
Mi è stato chiesto
cosa penso dell’intervento del Santo Padre svolto alle Camere riunite
a Monte Citorio. Confesso che mi sento imbarazzato quando debbo
parlare del Pontefice, perché non c’è niente che possa essere messo in
discussione del suo pensiero, persino le ideologie perdono
(giustamente) l’urto, così è anche per il pensiero aperto del
razionalismo che non può opporre armi di offesa. Sarebbe sufficiente
quel Suo sguardo stanco e martoriato, per piegare il busto e ogni dura
cervice, al suono di quella voce che non è mai superata da quanto non
è più, ma irrompe ogni volta dall’alto per donare non parole, ma segni
di speranza che non hanno necessità di convincere, di accodare, di
illudere, bensì di coinvolgere le coscienze nel valore del bene. Ho
seguito il Suo discorso e ascoltato l’applauso fragoroso che i
Parlamentari gli hanno tributato. Inizio questo contributo da quel
discorso e da quell’applauso, perché meritano davvero una riflessione
profonda. Infatti ascoltare sottende capacità di ascolto, è udire
intenzionalmente, immergendo il senso primario dell’udito, quale
volontà di udire. Il messaggio svolto dal Papa è stato un abbraccio
che ha avvolto l’intero sistema Italia, e, più in là, il mondo che ci
circonda, che noi spesso tentiamo di ingabbiare per renderlo supino ai
nostri interessi. Guerre tutte ingiuste, povertà ingiustificabili,
poteri impropri non accompagnati da servizio, pari opportunità e pari
dignità per tutti, questo ho inteso nel Suo verbo. Poi ho sentito la
Sua preghiera nell’auspicio di un atto di clemenza verso il popolo
detenuto, ho ascoltato in silenzio quelle parole, un silenzio che mi
ha attraversato in una emozione nuova, forte e intima. Una emozione
non certamente riconducibile al calcolo derivante dall’incasso di una
eventuale riduzione di pena, personalmente non ho mai beneficiato di
indulti né di amnistie a causa dei reati commessi (ciò la dice lunga
sulla gran cassa mediatica che indica l’esercito di malfattori che
ne godrebbero gli effetti ). No, l’emozione che mi ha assalito deriva
dall’attenzione che il Pontefice ha circoscritto e sottolineato, una
attenzione che pare essere sfuggita ai molti. Purtroppo. Papa buonista
e iper garantista? Dai facili sentimenti solidaristici, tutti
improntati alle comode scorciatoie, ai perdonismi che consentono
USCITE di emergenza ai soliti furbi o ignoti fin troppo conosciuti?
Quell’applauso scoccato all’unisono da destra e da sinistra, dal
mezzo, dal sopra e dal sotto di ogni pensiero differente, pareva
indicare una comprensione frontale, diretta, non derogabile nel tempo,
eppure in pochi istanti si è ridotto l’Uomo nella sola espressione
di fede e di buona Novella. Ho ascoltato il Santo Padre, e quella
richiesta per un atto di clemenza per i detenuti, e mi ero convinto
fosse stata percepita l’essenza del ragionamento. Invece, nel momento
stesso in cui Egli faceva ritorno in Vaticano, le gabbie di partenza
sono state immediatamente ricomposte, anzi fornite di nuove serrature.
Le dialettiche stantie, sepolcrali, hanno ricoperto l’uditorio, e gli
slogans si sono sprecati in nome di una Giustizia divenuta una coperta
stretta, stiracchiata a tal punto da non soddisfare alcuno. Eppure in
quella preghiera del Santo Padre non c’è polemica per un carcere ormai
ridotto a un mero contenitore di…numeri, per una pena che imprigiona e
abbruttisce, e abbandona a se stessa la persona, costringendola ad
arrangiarsi, perché di rieducazione c’è solamente una discrezione in
qualche operatore…anch’esso avvilito e in sottonumero. Non c’è neanche
disattenzione per le vittime del reato, perché in quell’attenzione per
la istanza di clemenza vi è il senso e la spinta di una attesa in cui
collocarsi, ora, adesso, in una seppur minima prospettiva futura, come
ha ben detto S. Agostino: "ciò che mi interessa in questo momento,
nasce prima di esso; e si estende oltre di esso, come tempo
squisitamente umano", che appartiene anche alla coscienza del
recluso. Infatti se io faccio attenzione a te, se imparo a
rispettarti, vuol dire che ti attendo, tendo verso di te e mi prendo
cura anche di te, e nel contempo ti sto aspettando ( perché la pena ha
un suo termine e poi ricomincia il viaggio). Ciò è rieducazione, è
forma pratica e costruttiva di recupero, ciò è soprattutto, una pena
che, sì, toglie la libertà, ma promuove la persona, la quale entra in
possesso di capacità e strumenti per non tornare a delinquere. Sì,
sono imbarazzato a parlare del Papa, perché ognuno ha le proprie
ragioni, le proprie verità, spesso coniate come somme di scambio.
Quell’applauso così sentito, così parente prossimo di una empatia
ontologica, forse non ha colto l’importanza di tanto amore e di tanta
vista prospettica, in un atto di clemenza che non ha vincolo alcuno
con la bonarietà di un incontro Istituzionale, bensì possiede
intrinseco l’invito, non a concedere metri al delitto, ma a recuperare
chilometri di dignità per chi l’offesa l’ha recata, attraverso una
clemenza che vuole, deve, sarà un punto di partenza per tentare una
riconciliazione con se stessi e con gli altri, una ricomposizione di
tante fratture, non ultima quella di un art. 27 della nostra
Costituzione che rimane solo un segno incerto, che però scopre il
fallimento di una rieducazione, che le leggi indicano
inequivocabilmente, ma mancando gli strumenti appropriati e idonei per
poter essere correttamente applicate. C’è tanto e di più da dire, ma
forse è più opportuno limitarsi ad affermare che il Pontefice ha
tracciato per tutti la condotta morale per trasformare la speranza in
pazienza del possibile, e ai presenti in Monte Citorio, ha consegnato
le chiavi di accesso per formulare un patto sociale di responsabilità
operativa delle coscienze. |
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Formiche o cicale?
di
Mario Emari
Nov.
2002 |
Tempo di castagne e di risparmio. E per le castagne ci
stiamo organizzando, ma considerato il costo della benzina e
dell'eventuale ristorante fuori porta, sarebbe meglio acquistarle al
mercato. Il risparmio è depresso, quasi quanto il cittadino a fine
mese, basta seguire l'andamento della borsa valori. Tempo fa si
discuteva pacatamente con amici della differenza tra i "nostri tempi"
(si parla di circa 30 anni fa) ed i giorni di oggi. Il 31 Ottobre era
considerato come "la giornata del risparmio" e noi formichine
avvedute e prudenti mettevamo qualcosa da parte. In realtà il perché
non riusciamo neanche ad arrivare al 27, non è va ricercato nel fatto
che siamo diventati improvvisamente tutti cicale sventate e
spendaccione, ma soprattutto negli aumenti vari e nelle addizionali
spietate. Senza ombra di dubbio oggi tutto è più complesso, finanche
trovare lavoro, uno dei tasselli più importanti della vita di un
individuo. Quante priorità ha nel cassetto delle promesse il nostro
Governo, ma a quanto pare dare lavoro e formazione ai nostri giovani e
agli "under 40/50" (magari sfruttando i fondi appositamente riservati
dalla Comunità Europea per questi scopi) sembra non sembra essere una
priorità assoluta. Ad amor del vero, qualcosa si muove, bisogna darne
atto al governo, con un timido fiorire di corsi di specializzazione e
formazione professionale (l'effettiva utilità pratica e gli sbocchi
lavorativi che essi garantiscono sono poi tutti da verificare) ma è
ancora troppo poco per soddisfare le esigenze lavorative dei
tantissimi disoccupati che sprecano i migliori anni della propria vita
a braccia conserte attendendo una telefonata o una lettera che forse
non arriverà mai, anche dopo anni di sacrifici e di studi. Il mercato
del lavoro non va affatto trascurato, anzi dovrebbe essere considerato
come una delle priorità assolute e i nostri politici e tutti gli
esperti in finanza lo sanno molto bene. Forse però, i miracoli non si
possono fare o c’è poca volontà di cambiare, in particolare nel sud,
ancora insabbiato in una mentalità spesso retrograda da parte degli
imprenditori di piccole e medie aziende. Il lavoro è una cinghia di
trasmissione per far riprendere la corsa alle opportunità e ai
consumi, alla produttività, al commercio, ed è fondamentale per
l’incremento dei matrimoni e delle nascite. Ma il lavoro, non bisogna
dimenticarlo, significa per molti di noi soprattutto speranza,
sicurezza, fiducia nel futuro…una fiducia che oggi manca e questo
toglie il sorriso a molti dei nostri ragazzi, sempre più depressi ,
scoraggiati, pessimisti . Non ultime arrivano le notizie sulla nefasta
situazione finanziaria della FIAT, sui licenziamenti di massa di molti
dipendenti (a Termini Imerese e non solo), tra i quali i più fortunati
saranno destinati alla cassa integrazione. I lavoratori stessi sono
sempre più compressi e a volte schiacciati tra sindacati e datori di
lavoro, tra diritti e doveri, reggendo il peso di una situazione
ormai insostenibile. Allora, in un paese come il nostro già
penalizzato da un così elevato tasso di disoccupazione, la questione
del caro prezzi assume sempre più l'aspetto della pioggia che cade
sul bagnato. Ci auspichiamo che, se non altro, chi sia preposto alla
risoluzione di questi problemi (che a mio parere sono al di sopra di
ogni differenza di opinione politica), si faccia avanti con proposte
interessanti e risolutive, lasciando in secondo piano i progetti di
ristrutturazione della costituzione e del sistema legislativo. |
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Cani senza collare
di
Vincenzo
Andraous
Nov.
2002 |
Zoe è una femmina di
Pastore Bergamasco, io e la mia compagna l’abbiamo adottata,
prelevandola in un canile del pavese. L’abbiamo scelta tra tanti altri
“dispersi”, ululanti, preda di lamenti, di movimenti isterici, di
occhioni svuotati di se stessi. Zoe se ne stava in mezzo alla sua
gabbia, ferma come l’acqua del lago, inchiodata alla sua misera
esistenza. Ce la siamo portata a casa senza pensarci su due volte. Zoe
senza voce, senza sguardo in alto, senza nome né storia, cancellate
dalla strada in cui è stata abbandonata perché displasica,
terrorizzata dai bastoni e dagli schiamazzi. Troppi calci e mai una
carezza. Zoe senza giochi né scoperte da incontrare, era scomparso
l’uscio dove infilarsi per conoscere il mondo di affetti a pochi passi
dal suo bel nasone. Zoe disperata nei silenzi che assordano… Sono
trascorsi i giorni, i mesi e un paio di anni, sei lontana dagli spazi
angusti del canile, ora proteggi i metri della tua casa, con le tue
nuove passioni, sei padrona della tua scelta d’amare e di essere amata
senza forzature e con reciprocità. Non c’è più niente in questa casa
che non contempli anche te, e mentre sfioro il viso della mia
compagna, perfino il nostro amore è più bello, in forza del tuo più
smisurato bisogno. La osservo girovagare per le stanze, adagiarsi sul
divano, addormentarsi, così mi coglie un parallelismo di non poco
conto. Zoe e la sua storia di recente trovata, somiglia per intero a
tante altre storie anonime, di giovanissimi dimenticati dal
disinteresse più colpevole dei propri cari, abbandonati a se stessi,
per rincorrere un benessere che disconosce i più deboli oppure i già
vinti in partenza. Rammento Zoe in quei giorni lontani, e rivedo i
troppi ragazzi in questa comunità, non c’è poi tanta differenza nella
loro diversità, quattro zampe o due gambe non accorciano i metri di
sofferenza imposta e mai cercata. Giovani con il cuore lacerato, le
membra tumefatte, con gli occhi umidi e le guance contratte. Zoe
piagata e piegata, sola, senza più desiderio di giocare. Giovani
minuti e paffuti, annaspano per non annegare nelle solitudini più
sconosciute. Zoe e padroni latitanti, ragazzi e amori distanti, tutti
a camminare in ginocchio, nonostante i pugni chiusi, il digrignar di
denti. Sto scrivendo di lei e Zoe mi osserva, il suo nasone si muove,
si protende verso di me, come a voler annusare il frastuono dei miei
pensieri. E più mi avvicino al suo bel muso con la dolcezza che mi ha
insegnato, più mi rendo conto che davvero non esistono cani cattivi,
né ragazzi da scartare, più banalmente ci sono invece padroni e
genitori idioti, e peggio amori mai nati, per la loro incapacità di
farsi carico dei "viaggiatori di passi perduti ". |
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Volti nuovi e abiti
vecchi
di
Vincenzo
Andraous Nov.
2002 |
Nell'incontrare tanti giovanissimi e
tanti adulti in una comunità, viene da pensare ai volti nuovi, alle
carni zigrinate dagli inciampi, dalle droghe, dagli abbandoni seguiti
a catena. Viene da pensare agli abiti vecchi e al tempo che ogni cosa
riporterà al suo posto, ma io che di tempo ne ho avuto tanto, a ben
pensare non so ancora bene cos’è, figuriamoci se posso spiegarlo ad un
giovanissimo che del tempo a venire non sa che farsene. Metodo
educativo e atteggiamento educativo sono indirizzi precisi, affinché
chi affaticato cade, possa, attraverso un percorso di risalita,
riacquistare autostima e conoscenza di sé, per poi costruire e
mantenere rapporti e relazioni significative, con la capacità di
custodire parte del futuro in esse contenuto. Occorre educare bene,
educare con amore e fiducia: queste sono parole grandi, affermate da
chi grande è stato nel campo della pedagogia del servire. Sono passati
anni, ma ancora mi stupisco di fronte all’incedere del disagio che
aggredisce giovani e adulti, rimango perplesso, disarmato, senza
frecce nella faretra, solo interrogativi. Ascoltando (i ragazzi) e le
più autorevoli figure di riferimento nel campo della pedagogia e del
metodo educativo, mi rendo conto che nel tentativo di "tirare fuori",
di costruire e crescere insieme, non può resistere all’usura del tempo
chi parte per “ questa avventura “ con un bagaglio di certezze
inossidabili, di regole intransigenti, di binari singoli. Infatti
questo è l’ atteggiamento più idoneo per arenarsi negli errori
ripetuti. Forse è il caso di armarci di qualche incertezza,
dismettendo i cingoli per evitare l’ urto, accettando il dubbio che
assale, e che potrebbe divenire una certezza sul modo per giungere
insieme al traguardo . E' difficile sapere, conoscere e agire, quando
un giovane se ne sta impettito, a muso duro, felice di avere scelto il
vicolo cieco , è davvero difficile spiegargli quanto è doloroso, POI,
il resto che se ne ricava. Educare non sempre ha medagliamenti o
riconoscimenti, spesso è un'avventura senza cielo per compagno, ove
non sfugge certo l’utilità dell’opera, ma in cui a volte si producono
incomprensioni, quando sguardi diversi interpretano in modi differenti
la pur identica finalità dell’accompagnare l’altro. Ecco che allora
una comunità è tale, perché alla priorità del rispetto della persona,
affianca l’aggiornamento del conduttore, di colui che a sua volta deve
usare il linguaggio in un labirinto di sensazioni e intendimenti,
consapevole che non sempre si arriva alla meta per sentieri
conosciuti, ma anche per nuove strade che possono coglierci
impreparati. C’è il lavoro, lo studio, i momenti di aggregazione, ci
sono le situazioni di confronto, quelle spontanee e quelle stimolate,
c’è soprattutto la persona da accogliere, da ascoltare, e ciò rende
secondario il primato delle competenze, le stesse provenienze
esperienziali, che sembrano apparentemente differenti se non distanti.
E' complicato "operare" con il disagio, forse è ancora più complesso
venirne a capo, perché questo abusare delle cose, delle persone, dei
sentimenti, è tessuto insieme attraverso il deteriorarsi dei valori e
dei principi, che rimangono tali didatticamente e assai meno nel
vivere quotidiano. Prevenire con progetti condivisi e realizzabili
rimane solo una intuizione che soccombe alle pressioni
economiche-politiche: reprimere costa meno che prevenire, ma il
risultato è l’accettazione dell’esclusione, del "sei fuori dal gioco e
ci rimani". Messa in prova, misure alternative, meno carcere per il
minore, più tutela per chi arranca, ebbene, stanno per diventare
strategie pedagogiche obsolete. Mi chiedo quale può essere il
metro di misura da usare con chi è lacerato dentro, se poi questa
vista prospettica richiesta al conduttore, è annebbiata da queste
norme a venire. L’impressione che si ricava nel camminare insieme alle
tante lentezze e devastazioni interiori, è che non solo è difficile
ben operare dalle ridotte specole di osservazione a causa della marea
di disagio dilagante, ma lo è anche soprattutto per l’avanzare di
nuove forme di malessere, che non hanno più l'etichetta protestataria
di un tempo. E’ un inverso ipnoticamente diritto che assale
generazioni diverse, che si insinua più facilmente in chi non ha
strutture mentali formate, in chi nell’evoluzione intellettuale ha
ceduto sotto il peso di una libertà inconsciamente percepita come una
condanna, per l’incapacità ad onorare reciprocamente le proprie
responsabilità.
E' un disagio che avanza, che intacca aree di vita in
maniera sempre più esponenziale, allora, e forse, per chi conduce
attraverso eredità pedagogiche più che mai attuali, perché mai
minimamente superate, è necessario accrescere la consapevolezza che
l’unica ricompensa per essere riusciti a ben educare,
è averlo fatto. |
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Violenza negli stadi
di
Gennaro
Scotti
Nov. 2002 |
Sono un appassionato
di calcio: mi piace il gioco, mi piacciono le coreografie e, perchè
no, mi fanno sorridere anche gli sfottò tra le tifoserie quando non
sono offensivi. Ma quello che è successo domenica allo stadio di
Cagliari sfugge ad ogni logica. Per chi non lo sapesse il portiere
della squadra ospite, il Messina, è stato aggredito con un pugno alle
spalle da un tifoso che aveva scavalcato la recinzione e che poi si è
dileguato lasciando lo sfortunato calciatore a terra privo di sensi.
Ora, quasi per uno scherzo del destino, si viene a sapere che in
Inghilterra un tifoso, reo di aver commesso (in una gara di due mesi
fa) "gesti osceni di scherno" nei confronti del portiere dell'Aston
Villa, è stato condannato a 4 mesi di carcere, a 6 anni di
interdizione da tutti gli stadi inglesi e alla squalifica a vita da
quello del Birmingham dove si è svolto il fatto. Inoltre in Gran
Bretagna la richiesta di libertà condizionata, per effetto delle leggi
Blair del 2000, può avvenire solo dopo aver scontato metà della pena
in carcere; quindi il tifoso inglese comunque vada si farà due mesi di
galera. Per quel che riguarda l' aggressore di Cagliari per il momento
gli è stato vietato l'ingresso negli stadi per 3 anni mentre per quel
che riguarda il procedimento penale, non essendo il tifoso stato preso
in flagranza di reato, è stato denunciato a piede libero e sarà
giudicato con i tempi della giustizia italiana e quindi chissà quando.
La differenza tra i due provvedimenti e tra le modalità di
applicazione degli stessi è troppo netta. Il vero problema del
dilagare della violenza negli stadi italiani (solo nell' ultima
domenica si sono verificati incidenti e disordini a Como, Torino,
Napoli e Brindisi) sta nel cattivo funzionamento della giustizia
applicata al mondo dello sport. Vorrei ricordare che in Inghilterra
non ci sono recinzioni, gabbie, reti e tutte quelle diavolerie che
vanamente sono impiegate qui in Italia. L' unico vero modo per
contrastare e isolare i violenti è inasprire le pene e renderle
effettive subito ridando così un pò di sicurezza allo sport
sicuramente più amato dagli italiani. |
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Parole soltanto parole
di
Mario Emari
Ott.
2002 |
Dopo il diluvio di
acqua ed aumenti, di arrotondamenti selvaggi, tocca ora alle tariffe
energetiche ed all’addizionale degli Enti Locali, che sempre tasse
sono! La Comunità Europea ci ha ricordato che le tariffe di società
una volta pubbliche, non possono essere bloccate. Essendo le società
del gas, luce e telefono quotate in borsa e ormai totalmente o
parzialmente private, c’è da chiedersi come possa il governo bloccare
le tariffe. Potrebbe però intervenire sul dettaglio delle voci che
compongono la bolletta, compresa l’Iva. Un riferimento concreto? Su
una ipotetica bolletta telefonica di 58 Euro, il traffico telefonico
avvenuto risulta di 23 Euro. La differenza di 35 Euro, superiore al
costo delle telefonate fatte, è costituita da balzelli e sopratasse
varie! Oltre ai rincari già segnalati, va ricordato che la Regione
Puglia e il Comune di Bari (come per tante altre regioni e comuni
italiani) hanno aumentato la percentuale delle addizionali, sia sulle
tariffe, sia sull’IRPEF. Il governo, nonostante le promesse, non ha
ancora ridotto questa tassa di notevole importanza, mentre gli enti
locali hanno già aumentato le loro entrate in questi ultimi due anni.
Ragionandoci un po' su ( e neanche per tanto tempo ), si arriva alla
conclusione che noi cittadini siamo stati gabbati due volte. Senza
parlare dei pensionati, in particolare quelli che godono della
pensione minima, che prima hanno avuto quel piccolo, illusorio,
enfatizzato regalo dallo Stato e che poi hanno dovuto e dovranno
dilapidare quella somma in più che hanno ricevuto non solo per
l’aumento dei prezzi dei prodotti di varia natura, ma anche per i
ticket sulle ricette ed i farmaci. Ne risulta una vignetta facile da
immaginare: un omino sorridente che con una mano elargisce 100
bigliettoni immaginari all’italiano in bolletta e con l’altra ne sfila
200 sempre dalla tasca del malcapitato romantico sognatore in
questione. Ai cittadini onesti sottoposti al martirio delle imposte
spietate, tocca ancora una volta stringere la cinghia, anche se i fori
sembrano essere arrivati ormai alla fine. Si risparmierà sulle
telefonate, sul gas, sulla luce, ma non si può risparmiare sulla
salute che resta un bene primario che andrebbe tutelato ad ogni costo
e non solo dai cittadini ma anche dai signori in giacca e cravatta del
parlamento. “Parole parole parole, parole soltanto parole” recitava
una celebre canzone di alcuni anni fa…e la gente stufa non ci sta.
Così nelle piazze tra un girotondo e una partita a carte, sale dal
paese la protesta di molti, che hanno compreso i tranelli delle
promesse facili di uomini sorridenti, sempre presenti in tv, ma che
per ora non si sono mostrate coerenti con gli impegni presi con tutti
noi italiani. |
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Dove muore la civiltà
di
Vincenzo
Andraous
Ott. 2002 |
Tante, troppe volte ho scritto, abbiamo scritto del e
sul carcere, infinite volte ai silenzi assordanti sono seguiti sofismi
e editti che sono rimasti lettera morta. Grosse fette della Società,
delle Istituzioni, dei Governi trapassati/attuali, hanno speso parole
e intenzioni, ma opere ben poche, se non quelle del redigere rapporti
di morti sopravvenute e di utopie tutte a venire: nonostante le
dimensioni di una disumanità ormai divenuta regola, di un
moltiplicarsi tragico di suicidi, di autolesionismi, di miserie umane
così profondamente deliranti, che l’orda barbarica, storicamente così
definita dal carcere per i suoi abitanti, s’è tramutata in una colonna
sgangherata di esseri perduti, senza più inizio né fine, senza più una
professione di fede, neppure quella della strada. Il popolo della
galera non ha più generazioni da consegnare alla storia, quelle che
in essa si sono imbattute, sono ormai annientate e hanno portato con
sé la rabbia, il furore, la follia. Oggi rimangono in quelle celle
fila male intruppate di uomini privi di lingua, di simboli, di segni,
soprattutto di memoria da tradurre e rielaborare. Del carcere si parla
per scatti, per ripicche, per reazione, per un’Erika, per un Piatti,
per un nero o per un giallo, per un ladro e per un assassino, se ne
parla per non parlarne più, per distanziare un fastidio pressante, non
per rendere giustizia a chi è stato offeso né a chi l’offesa l’ha
recata. Se ne parla per rendere nebulosa e poco chiara ogni analisi,
se ne parla per nascondere l’ingiustizia di una giustizia che tocca
tutti, ma in cui il messaggio trasmesso, potente e annichilente,
impedisce di intervenire. Il detenuto non è un numero, né un oggetto
ingombrante…..lo dice il messaggio cristiano, dapprima, e quello di
umanità ritrovata poi, e invece la realtà che deborda da una prigione
è riconducibile all’umiliazione che produce il delitto, ogni delitto
nella sua inaccettabilità. E’ proprio questa irrazionalità che
ingenera pericolose disattenzioni, a tal punto da ritenere il recluso
qualcosa di lontano, estraneo, pericoloso, qualcosa di non ben
definito. Dimenticando che stiamo parlando di persone, di pezzi di noi
stessi scivolati all’indietro. Carcere duro, carcere hotel,
sottonumero di organici, corpi speciali e corpi adagiati stancamente
su piedistalli di carta. Lamenti e grida, sostituiscono le
devastazioni, i massacri e il delirio di onnipotenza di ieri, fino a
formare l’ossatura del carcere odierno, composto per lo più da una
grammatura incontabile di commiserazione, che neppure intende
sottrarsi alla sepoltura di ogni dignità calpestata. Eppure,
nonostante le fratture, le lacerazioni, le assenze eterne siano le
fondamenta su cui poggiano le ultime speranze, è palese il tentativo
di una involuzione pilotata al passato, che incoraggia al presente
ideologie senza alcun Dio, se non quello della forza. Nei decenni
trascorsi tra sbarre e filo spinato, ho avuto netta l’impressione che
incapacitare fosse l’unica risposta da parte di una Società e quindi
uno Stato di porsi a mezzo al dilagare della violenza. Sebbene
tremendo nel suo effetto il contenuto, non sorprende in quegli anni di
rivolte e di ribellioni, l’intendimento di spersonalizzare e annullare
l’identità del detenuto. Ma oggi che il carcere non rappresenta più
uno zoo umano, ma un contenitore di numeri e di miserie, a che prò
riproporre le armi della sola repressione. A che prò rifiutare una
realtà infarcita di membra piegate e piagate. A che prò, proprio ora,
che il lamento non è più un grido di guerra. Forse siamo preda di una
visione che ci obbliga a rifiutare la realtà che c’è. O forse siamo
addirittura dei bugiardi incalliti, e ciò ci obbliga a raccontare una
realtà che non c’è. E’ vero, il detenuto non è la vittima, infatti le
vittime sono senz’altro altri, feriti, offesi, scomparsi, ma il
detenuto è persona che sconta la propria pena, che vorrebbe riparare,
se posto nella condizione di poterlo fare. Rieducare, risocializzare,
reinserire, non sono solamente termini e concetti trattamentali da
seguire e svolgere, essi purtroppo stanno a sottolineare
l’inadeguatezza al dettato Costituzionale, tanto che
nell’impossibilità di rendere fattivo l’intervento rieducativo, è
assai più facile trincerarsi dietro i soliti scontati “motivi di
sicurezza”. Ma non usare gli strumenti trattamentali e di contro
incancrenendo la convivenza, ciò equivale a dichiarare fallito
l’ideale più nobile, quello della promozione umana. Allora,
sorprendersi se la funzione della pena è latitante, se la recidiva è
galoppante, se le menzogne superano di gran lunga la trama di un film,
è pura disonestà intellettuale. A chi parla di privilegi, di lussi
impropri, basterebbe davvero osservare volti e mani di detenuti in
qualche carcere, per rendersi conto del livello di abbruttimento
raggiunto, di quanto questa situazione di indifferenza e solitudine
imposte, di mancata applicazione di quella famosa parola a nome
rieducazione, risulti deleteria per la persona ristretta. Non so di
quale carcere si parli, ma so di un carcere che non ha più al suo
interno spinta a rinnovarsi, so di un carcere popolato di uomini
vestiti non tanto e solo di rabbia o odio, ma di paura e stanchezza.
Uomini che se non aiutati a migliorare, rimangono al palo, con la sola
aspettativa di scontare in fretta la propria condanna, e ciò senza
alcuna consapevolezza del presente, senza vista prospettica, senza
figura del futuro, in una sola parola senza speranza. Chi conosce poco
del carcere, di questa condizione inumana, dove è vietato persino
sentirsi utili, responsabili, con delle prospettive, ebbene a costui
sfugge il senso di questo arbitrio. Forse qualcuno pensa che
inchiodare il detenuto in uno stato di inazione e alienazione,
comporti la fatica minore, perché così facendo egli sconta la propria
condanna senza rompere le scatole a nessuno. Ma questo agire è
nuovamente un inganno, perché quel detenuto non è in una situazione di
attesa, dove il tempo serve a ricostruire e rigenerare, è l’esatto
contrario: quel detenuto non attende domani, egli è fermo a ieri, a
un passato riprodotto e mascherato, a tal punto, che tutto rincula a
ieri, come se fosse possibile bloccare il tempo, come se delirare
fosse identico a sperare. Rieducare ha costi elevati, comporta cadute
e inciampi, ma per evitare il proliferare della criminalità, è la sola
strada maestra da seguire, il resto è per davvero illusione. Inoltre,
a ben pensarci, se io riconosco il diritto alle regole da rispettare,
quel diritto a sua volta disciplina i rapporti con l’altro, e implica
il riconoscimento di tutte le persone, fin anche del detenuto…Ma forse
è proprio questo che si vuole cancellare. Un carcere ridondante di
criminali irrecuperabili? Ho l’impressione che il carcere italiano
possa essere definito un involucro chiuso agli uomini, alle idee, ai
cambiamenti, così premeditatamente chiuso e imbullonato al
pregiudizio, che persino la pietà è divenuta un sentimento buonista.
Tutto è buonista nei riguardi del carcere, a tal punto che l’inumanità
oramai è un effetto meccanico di un contesto standardizzato, e allora
perché scandalizzarsi, rischiando anche di essere annoverati nel
movimento dei caritatevoli, o peggio dei sostenitori del male.
Guardare da un’altra parte, quando in carcere ci sono tasselli di vita
mancanti alla nostra? L’esperienza mi insegna che coloro che hanno
fatto del male, hanno soltanto una via da percorrere per ritornare a
essere uomini nuovi, una via che non è soltanto quella dei venti o
trent’anni di carcere da scontare, ma quella della ricerca di azioni
nuove per tentare di rimediare e quindi accorciare le distanze. Ma
perché ciò possa diventare terreno fertile per costruire insieme un
carcere a misura di uomo, occorre parlare dei problemi veri, affinché
una Società e una Giustizia equa, possano davvero sperimentare ciò che
è lecito da ciò che non lo è. |
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La nuova stagione della
guerra agli uccelli
di
Marcello Tucci
Sett. 2002 |
"…dimmi se posso
continuare a mettere briciole sui balconi…"
Cantava cosi il buon
Concato, in una delle sue più belle canzoni.
Certo caro Fabio che puoi continuare a mettere briciole sui
davanzali o fuori dalle finestre, ma hai voglia di aspettare che
pettirossi o pespole o altri piccoli uccelli vengano a becchettare il
pane messo lì per loro. A parte il mio facile sarcasmo fra breve
inizia la nuova stagione venatoria: un esercito di 800.000 cacciatori,
per un primo momento cui se ne aggiungeranno molti altri, sta già
imbracciando il fucile per iniziare una guerra mai dichiarata ad ogni
sorta di volatile e quanto altro ancora. Per quest’anno le cose
tragiche da notare sono almeno due. Prima di tutto la caccia si apre
con largo anticipo rispetto agli anni precedenti. In questo modo si
mette così a serio repentaglio le innumerevoli specie che si preparano
per le migrazioni, con al loro seguito la relativa prole che non ha
avuto tempo per imparare ad orientarsi con gli adulti. In questo modo
si otterrà la ‘simpatia’ ed il ‘favore’ della più truce delle lobby,
appunto quella dei cacciatori e del suo relativo indotto. In cambio le
regioni interessate riceveranno finanziamenti a pioggia per tacitarne
le coscienze. Quello della caccia è un annoso problema che nonostante
le innumerevoli richieste di una sua abolizione o almeno un’adeguata
sospensiva per un periodo di tempo non trova nelle aule del parlamento
un momento di serio e pacifico confronto. Si noti inoltre che la
stragrande maggioranza d’italiani (87%) è nettamente contraria a
questo ‘sedicente’ sport, scippata anche dalle innumerevoli richieste
referendarie; nonostante ciò si persegue ostinatamente ad invogliare
questa pratica omicida che tanti danni e squilibri ambientali sta
portando. Come se non bastasse la seconda e tragica notizia e che
l’attuale governo per decreto ha stabilito che quest’anno si può
sparare anche alle specie più piccole che nel resto dell’Europa (cui
ci vantiamo di farne parte) sono largamente protette ed inoltre si può
cacciare anche all’interno dei Parchi ed Oasi naturali. Insomma
vedremo cadere vittime delle doppiette uccelli prima protetti come
tortore e pettirossi, cince e cinciallegre ed altri ancora. Tutto ciò
succede nel nostro paese ad opera di questo governo che può contare su
una maggioranza trasversale, mentre in più parti si discute di
sviluppo sostenibile ed ambiente. Per onore del vero e per correttezza
non ho la pretesa di puntare il dito su questo governo di centro
destra, che dell’ambiente ha una strana concezione, anzi nei
precedenti governi dell’Ulivo niente si è fatto per debellare questa
piaga. Molti ricorderanno la famosa consultazione referendaria sulla
caccia, collegata anche all’abolizione dell’uso dei pesticidi,
svoltasi una decina d’anni fa. In quella occasione, con la colpevole
complicità dei partiti della sinistra storica, il referendum fallì per
non avere raggiunto il quorum necessario poiché gli italiani furono
invitati a disertare le urne. Dunque questa è un’ulteriore riflessione
per ripensare una società diversa, che mai più può prescindere
dall’ambiente e della sua tutela, che sempre più si pone come problema
dominante per i giorni che stiamo vivendo e per il prossimo futuro,
presago di cattivi segnali sempre più visibili agli occhi di tutti. |
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Rincari sotto il sole
di
Mario Emari
Sett. 2002 |
Con Ferragosto ormai alle spalle
l’italiano medio comincia legittimamente a chiedersi cosa resti di
questa estate 2002? Tra banalità, chiacchiericci sotto l’ombrellone,
tradimenti e pettegolezzi d’ogni genere , minuziose classifiche dei
ristoranti, delle discoteche o delle mete turistiche preferite di vip
e politici nostrani, emerge solo un dato degno d’interesse: l’effetto
euro sull’aumento dei prezzi dei prodotti di ampio consumo,
soprattutto nel campo ortofrutticolo, nonostante le smentite delle
indagini ISTAT. A quanto pare, sin dai primi giorni dell’imminente
autunno subiremo inoltre aumenti in vari settori energetici, malgrado
i vari interventi ministeriali avessero promesso riduzioni nelle
tariffe di gas, luce e telefono. Mai credere alle promesse facili, lo
sanno anche i bambini. E il popolo bue (gens italica) si è lasciato
adescare da ciarle e turlupinamenti diffusi per mezzo del nostro mezzo
mediatico preferito: la televisione. Fortunatamente c’è ancora
qualcuno a cui piace ragionare e scrivere con la propria testa, finché
sarà possibile, finché non arriverà la censura totale, già in fase
embrionale in alcuni settori informativi…o semplicemente finché questa
testa continuerà a funzionare quantomeno discretamente. Chi scrive è
un Milanese che vive da alcuni anni a Bari, un consumatore come tanti
altri, che spesso fa la spesa in un mercato del capoluogo pugliese
(per i curiosi precisamente in quello di via Montegrappa) e si
considera testimone oculare dei cosiddetti rincari. Attento come voi
tutti al prezzo al minuto e al dettaglio (purtroppo quello
all’ingrosso non lo possiamo né valutare, né tantomeno modificare),
altrettanto attento a non farmi gabbare dallo “specchietto per le
allodole”, ovvero quel cartello che espone il prezzo in euro. Facciamo
un esempio banale ma utile: i
nostri profumatissimi percochi.
Prendiamone un chilo, di quelli di prima scelta, lo paghiamo un Euro,
vale a dire 1.936 delle nostre vecchie Lire. Lo scorso anno, un chilo
dello stesso prodotto lo avremmo pagato 1200/1300 Lire, con un aumento
di circa 42 centesimi di Euro. Occhio al prezzo… ma anche al peso.
Non conviene mai farsi fare peso e prezzo dal venditore, perché la
truffa diventa strisciante. Esigete sempre la pesatura richiesta e
tonda… uno due o tre chili (1, 2 o 3 euro). Il sopraccitato specchio
potrebbe rompersi e lasciare le innocenti allodole librarsi leggere in
cielo, via da questa giungla di speculatori e opportunisti
(naturalmente non mi riferisco ai poveri commercianti da bancone...
responsabili in minima parte se non per nulla). Attendiamo ora i nuovi
rialzi per le vecchie tariffe energetiche, tasse, balzelli e gabelle
varie che versiamo e verseremo agli enti locali. Con impazienza
attendiamo anche i famosi aumenti per quei pensionati ridotti sotto la
soglia della povertà... il problema maggiore è… ahimè… questa soglia…
chi la stabilisce? Con questo dilemma vi saluto. |
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E-commerce: boom o
floop? di Gennaro Scotti
Sett. 2002 |
Con lo sviluppo e il diffondersi
della tecnologia si sono aperte nuove strade per quel che riguarda il
commercio. Ai tradizionali metodi di acquisto si sono affiancati nuovi
modelli che sfruttano le enormi potenzialità della Rete e in special
modo la sua caratteristica di raggiungere un bacino d'utenza
vastissimo. Già da tempo si sente parlare di commercio
elettronico:esso consiste nell'acquistare prodotti senza muoversi
dalla propria abitazione semplicemente scegliendoli con un clic
all'interno di negozi virtuali. Questi negozi, nella maggior parte dei
casi, non sono altro che le proiezioni on-line di negozi reali. Questi
ultimi, cogliendo le opportunità che la Rete mette a loro
disposizione, aggiungono alla loro struttura di cemento un'altra
costituita da carrelli della spesa virtuali e dai bit di Internet.
Detto ciò possiamo affermare che in generale la vendita di prodotti su
Internet non ha avuto quel boom che ci si aspettava, tanto è vero che
le librerie, le edicole e in negozi in generale continuano ad essere
frequentati; nella Rete si trova un ottimo strumento per comunicare
(attraverso e-mail, chat, ecc), per informarsi ma non, o almeno non
come ci si aspettava, direttamente per fare acquisti. Le motivazioni
di questa tendenza sono da ricercare nella perplessità sulle modalità
e sui tempi di ricezione della merce, nella poca volontà dei
consumatori di pagare con carte di credito e nella difficoltà a
muoversi all'interno di alcuni siti. Ma lo scoglio più grande da
superare è la volontà da parte dell'acquirente di toccare con mano il
prodotto che si accinge a comprare. Chiaramente per attrarre un
maggior numero di utenti, questi siti devono essere organizzati in
modo efficiente.
Per prima cosa deve essere
facilmente individuabile la sede del negozio; per un cliente è una
sorta di "garanzia" sapere che uno strumento in vendita on-line è
esposto in un ben preciso negozio. Può essere utile anche dotare il
sito di foto del negozio. Inoltre è indispensabile avere una buona
base tecnologica che consenta di aggiornare frequentemente le offerte
e tutte le news riguardanti il negozio. E' chiaro che ciò comporta
investimenti abbastanza considerevoli che non hanno un riscontro
facilmente visibile: la funzionalità di un sito non si può evincere
dal numero di acquisti conclusi, ma bisognerebbe sapere anche il
numero di informazioni utili fornite ai visitatori. Ciò considerato
quindi notiamo che si procede con una politica dei piccoli passi,
ovvero si attuano investimenti in modo dilazionato per non incidere
pesantemente sui bilanci da un lato, ma da consentire dall'altro di
attuare quelle iniziative volte a suscitare la curiosità dei
visitatori come la creazione di newsletters, la possibilità di avere
molti links, la presenza di un mercatino degli utenti, ecc. Per finire
è fondamentale la chiarezza dei costi; il negoziante deve essere il
più chiaro possibile su questo aspetto specificando esattamente le
spese di trasporto e di spedizione. Del resto per il cliente è
abbastanza sgradevole pagare una somma superiore a quanto pattuito e
per il negoziante è un pessimo ritorno d'immagine. |
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Il lavoro? Un privilegio
per pochi di
Mario Emari
Sett. 2002 |
Dallo studio di recenti statistiche si evince che quasi una
intera generazione di ragazzi rischia di accedere ad un posto di
lavoro solo in età avanzata, nelle migliori delle ipotesi. La
situazione, in particolare nel sud, è gravissima e non basta
denunciare e fare proposte. Per dare lavoro non servono solo leggi e
decreti ma soprattutto forza di volontà, a partire dal mondo
imprenditoriale: aziende grandi medie e piccole. Ma l’accusa va
inoltre allargata anche a chi gestisce in modo spesso discutibile gli
ospedali, i tribunali, le preture, le cooperative agricole, le regioni
,le province e via discorrendo. Questo è un problema che riguarda
tutti indistintamente. Quello che rattrista maggiormente è lo sguardo
di questi giovani (quelli che non godono di privilegi e benefici di
natura “ultraterrena” , concedetemi il tono ironico) che vivono nella
speranza, bussando a tutte le porte (anche di quelli che gliela
sbatteranno in faccia) alla ricerca di occupazione, disillusi, delusi,
a volte privi di ambizioni (e non solo come i più credono solo per
debolezza caratteriale ma soprattutto per le condizioni avvilenti in
cui si trovano a muovere i primi passi). Questa schiera di giovani
alla ricerca disperata di un impiego (spesso il primo!) è giunta al
limite della sopportazione in questa giungla di favoritismi,
raccomandazioni ,omissioni, abusi e discriminazioni fatte in nome
delle sacre leggi del mercato da industriali che invece di
intensificare la produzione con conseguente aumento del personale,
preferiscono far lavorare il doppio i lavoratori già assunti, o che
invece di reinvestire gli utili in altre iniziative imprenditoriali
che producano altro lavoro, li depositano attraverso espedienti e
grovigli bancari, nei paesi del paradiso fiscale . Dov’è finita
l’intraprendenza e la volontà di crescere, utilizzando i mezzi , le
braccia ed i cervelli a disposizione nel territorio? Vorrei poter
toccare il tasto dei salari non garantiti, del lavoro in nero, ma
questi argomenti meriterebbero uno spazio maggiore ed una analisi più
accurata. Quale è dunque la risposta che spetta a questi giovani e a
chi vuole semplicemente vivere onestamente, lavorando? Quanto devono
aspettare ancora i nostri figli o i nostri nipoti? Quanto tempo deve
passare prima che si possa rimuovere quella patina di superficialità
ed egoismo che avvolge questa società che alle volte sembra inumana,
questo intollerabile velo che copre il nostro viso ma che non può
coprire le coscienze di noi tutti. |
Le nuove frontiere dei
virus di
Fabio Gargano
Lug. 2002 |
Un nuovo virus
informatico minaccia una delle attività più effuse su Internet, la
condivisione di fotografie. Si chiama "Perrun" ed è il primo ad essere
in grado di colpire file che contengono immagini. Inoltre riesce a
infettare non solo i programmi, ma anche i file collegati
all'applicazione, finora considerati al riparo da questo tipo di
minaccia. Il virus arriva per mezzo di posta elettronica o di un disco
flessibile come un file eseguibile. Gli esperti di sicurezza mettono
sempre in guardia gli utenti dall'apertura di programmi inviati come
accessori di posta elettronica. Una volta scaricato, il file installa
un programma sul disco rigido del computer della vittima e colpisce le
immagini. Quando l'utente clicca su una foto con l'estensione jpg, il
file di immagine più comune sul web, quest'ultima viene "infettata"
dal virus. Finora i virus hanno infettato file di programma; i file di
dati, film,
musica, testo e immagini erano sicuri da infezione. Mentre i
virus precedenti hanno cancellato o hanno modificato file di dati,
Perrun è il primo a infettarli. Questo nuovo virus è noto come proof
of concept (prova di concetto) e non causa danno. Gli esperti temono
che gli scrittori di virus possano impiegare Perrun come una sagoma
per creare una versione più distruttiva.
Info virus
Variante:
W32.Perrun.dr
Lunghezza di infezione:
11,780 bytes
Sistemi
interessati:
Windows
3.x, Windows 95, Windows 98, Windows NT, Windows 2000, Windows XP,
Windows Me
Sistemi non
interessati:
Macintosh, Unix, Linux
Siti internet da consultare
http://www.mcafee.com
http://www.symantec.com
http://www.sophos.com |
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Igiene al Politecnico di
Bari di
Salvatore Schembri Volpe
Lug. 2002 |
Che la vita dello
studente universitario non fosse semplice, lo si sapeva già, e ogni
studente che si rispetti, in cuor suo, sa certamente quali sono i suoi
doveri e le sue responsabilità - salvo certamente il fatto di
rispettarle! Ciò che però non si sa altrettanto bene è che le
responsabilità degli organismi competenti spesso sono lasciate in uno
stato di "oblio vizioso" da parte degli stessi, cui spetta di dovere
garantire agli studenti quel minimo di confort nel loro ambiente di
studio lavoro - quelle che uno studente di matematica o di ingegneria
come me definirebbe "Condizioni al Contorno" - per consentire di
svolgere le proprie attività in maniera quanto meno sicura. Quello che
vedo ogni mattina quando vado a lezione al Politecnico certamente non
mi lascia tranquillo né soddisfatto del luogo in cui mediamente
trascorro dalle 6 alle 10 ore giornaliere (figuratevi poi i
fuorisede). Mi riferisco, e non senza un fastidioso senso di
insoddisfazione, alle condizioni igieniche della facoltà di Ingegneria
del Politecnico di Bari dove oltre ai numerosi studenti, circolano
quotidianamente altrettanti colombi. Non credo che la mia penna possa
essere tanto onesta nei confronti del lettore nel descrivere
adeguatamente come una buona parte dei corridoi esterni (dove
necessariamente gli studenti devono passare per raggiungere le aule)
sia letteralmente tappezzata da uno strato di guano (cacca, per i
profani) di colombo, mista, forse per garantirne le proprietà
isolanti, ad una buona quantità di piume. La cosa, oltre ad essere
rivoltante, è per giunta pericolosa dal momento che è risaputo - e chi
non lo sapesse può informarsi su una qualsiasi Enciclopedia Medica o
rivista specializzata- che i colombi e, in particolare i loro
escrementi, sono felicissimo veicolo per infezioni e malattie. Dal
canto suo, il Politecnico ha cercato di risolvere il problema alla
radice: evitare la presenza stessa dei colombi. Come? Mettendo delle
grate di ferro a protezione di tutta l'intelaiatura della struttura al
fine di evitare che i colombi vi si posino. Risultato? Dei poveri
uccellini se ne vedono un pò di meno, tuttavia a qualche malcapitato è
accaduto di rimanere bloccato dentro la grata (o di esservi entrato -
visto che i buchi ci sono - e di essersi dimenticato da dove si esce)
ecco perché ancora oggi in bella mostra c'è un piccione bello e
putrefatto che da almeno due mesi riposa in pace sulle teste degli
studenti che ogni giorno passano e spassano per l'università!
Personalmente, la cosa mi ha fatto schifo e ho avvisato il
responsabile della pulizia, il quale, con faccia alquanto inebetita e
serena, mi ha detto: "Ma è un problema toglierlo di lì, ci vuole una
scala...", chissà, forse aspetteremo che si decomponga totalmente.
Come ciliegina sulla torta aggiungo tutte le solite porcherie che si
vedono nelle toilettes (o almeno in quelle degli uomini dove mi è
permesso andare) e quindi: orinali intasati colmi fino all'orlo di
vari tipi di orina (evidentemente chi ce l'ha proprio in punta, per
evitare una spiacevole perdita incontrollata, non si preoccupa tanto
di controllare se l'orinale prescelto sia agibile, buffo sarebbe se lo
sventurato non contribuisca proprio alla goccia che fa traboccare il
vaso...); WC pieni di carta igienica (sporca naturalmente) e di
residui fecali con annesso soave profumo; porte letteralmente divelte
e sgangherate (compresa qualcuna delle aule grandi - per
gli interessati aule C e B). In conclusione, mi scuso con l'eventuale
lettore per il linguaggio crudo e credo anche nauseante in certi
termini che ho adottato, ahimè, è l'unico modo che ho per descrivere
ciò che vedo! |
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Inefficienza del
sistema bibliotecario di Angelo Damiani
Giu. 2002 |
Essendomi
confrontato con la compilazione della tesi di laurea, negli ultimi
mesi, ho avuto modo di osservare la carenza del servizio bibliotecario
barese. Per la verità, l’inefficienza delle nostre biblioteche è un
problema antico, che esaspera gli sfortunati avventori che si
apprestano a difficili e spesso infruttuose ricerche
bibliografiche. Tempo fa, ebbi la possibilità di leggere un articolo
sulla “Repubblica” di Bari in cui veniva descritta l’odissea
dell’avventore tipo della Biblioteca Nazionale Sagarriga Visconti,
ubicata al piano terra del palazzo dell’Ateneo Barese. Leggendo quelle
righe mi sembrò quasi di rivivere le innumerevoli volte che,
recandomi in quella struttura, subii l’inefficienza di un servizio
che con gli anni sembra solo peggiorare. Da studente di Lettere so
quanto le biblioteche del nostro territorio siano tutto il contrario
di ciò che dovrebbero essere. Mancano i mezzi informatici, manca la
buona volontà, manca spesso anche il rispetto per un luogo che ha il
dovere di custodire la nostra memoria storica e manca probabilmente
anche l’interesse delle istituzioni che non fanno niente per
modernizzare cataloghi cartacei che, nell’anno 2002, sono ormai
improponibili. Anche il sistema bibliotecario dell’Università degli
studi di Bari o meglio dovrei dire quello della facoltà di Lettere e
Filosofia non è esente da critiche. Nell’Università ogni dipartimento
è indipendente e ciò significa che ogni dipartimento gestisce il
proprio patrimonio librario come meglio crede. I dipartimenti decidono
se consentire il prestito dei libri agli studenti, e in quali casi e a
quali studenti concedere questo diritto. Ci sono istituti, come quello
di “Tradizioni culturali europee”, diretto dal Prof. Amoruso, che
hanno stabilito di non prestare i propri libri poiché “in passato
molti testi sono stati rubati”. Questo è un caso limite ma, nella
maggior parte dei casi, ogni studente può avere in prestito, solo nel
periodo della compilazione della tesi e previa autorizzazione del
proprio relatore, esclusivamente i testi del dipartimento presso il
quale ha deciso di laurearsi e della biblioteca A. Corsano. Paghiamo
le tasse alla Facoltà di Lettere e Filosofia ma possiamo prendere in
prestito i libri di un solo dipartimento proprio in quella facoltà in
cui ci insegnano che la cultura è un bene di tutti e che tutti
dovrebbero avere libero accesso ai libri, i custodi della nostra
memoria storica. È accettabile poi che il sistema OPAC (online public
access catalogue), esistente da circa due anni, sia ancora incompleto
e inefficiente perché molti dipartimenti non si affrettano a rendere
disponibile on-line il loro patrimonio bibliografico? Lascio aperti
questi interrogativi perché spero che gli utenti di AnnoZero
vogliano esprimere il loro pensiero su questi piccoli
problemi. |
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La morte semestrale
dell'hardware pc di Enzo Lasorella
Giu. 2002 |
Ecco; siamo arrivati
in un periodo tecnologico e commerciale dove qualsiasi prodotto
hardware destinato all'utenza professionale e privata, subisce
purtroppo da parte del grande mercato una morte prematura, con la
conseguenza dello sfruttamento dello stesso con meno del 40% delle sue
prestazioni. In maggiore risalto vi sono le schede grafiche; Ormai
adoperate in più campi lavorativi o di intrattenimento , che vengono
prodotte con chip innovativi di ultima generazione e prevedono
prestazioni molto interessanti che risulterebbero in quel momento il
top della gamma. Ma molta gente non sa che un modello così innovativo,
sarà in una data più o meno vicina a 6 mesi , messo fuori produzione
dalle aziende, oppure verranno detratti i costi di sviluppo
precedenti, abbassandone notevolmente il prezzo di lancio per far
posto a un nuovo modello. Questo e' secondo molti di noi un aspetto
negativo per l'utenza finale e le motivazioni per una seria protesta
nei confronti di questo monopolio sono in netta evidenza.
Possiamo quindi elencare dei punti che raggruppano vari aspetti
negativi:
1) prezzo elevato su schede grafiche, ridotto del 40% dopo 6 mesi
2) a volte la qualità non è così elevata e ci sono molti problemi di
driver
3) Il produttore impone dei ricarichi minimi per il rivenditore finale
4) La merce spesso e volentieri subisce richieste di rma (garanzia)
5) Il reperimento del software è molto disorganizzato
6) La traduzione di manuali tecnici nella nostra lingua è quasi
impossibile da reperire
7) Il prodotto subisce ritardi nelle consegne e il valore dello stesso
perde moltissimo in valore economico
Ci potrebbero essere anche tantissimi altri punti che voi stessi
potreste pensare, ma a questo si aggiunge un alto numero di utenti
insoddisfatti e delusi da questo comportamento che in campo
informatico si subisce. La critica come sappiamo è costruttiva, anche
se in questo caso può essere solo guardata come informazione diretta,
senza purtroppo dei fatti concreti. |
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