Sulla redenzione delloca lamentosa

 

e sulla neolingua (ocolingo) di Orwell

 

L’“oca lamentosa” è un soggetto subumano che si lamenta in continuazione della vita ma che non si arrabbia mai, perché ama apparire a sé ed agli altri buona, saggia ed equilibrata.

 

Per questa forma di buonismo dell’umanità odierna (anzi della subumanità odierna) non vale il detto di Tommaso d’Aquino sull’immoralità e sull’ingiustizia di chi riesce a vivere nell’ingiustizia senza arrabbiarsi mai pur avendone buoni motivi (“Colui che non è arrabbiato quando c’è un buon motivo per arrabbiarsi, è immorale. E se puoi vivere nell’ingiustizia senza rabbia, sei immorale ed anche ingiusto” diceva Tommaso d’Aquino).

 

Per i lamentosi di questo tipo subumano, nemmeno la famosa polemica Schrödinger-Carnap circa la sostenibilità o meno dell’antisolipsismo testimonia qualcosa, nonostante sia notoria come evento indicativo di evoluzione della filosofia analitica. La sintetizzo come segue. Schrödinger diceva che era impossibile stabilire l’omologia delle esperienze soggettive riguardo al percepire sensorio. Non potrà mai essere accertato, diceva, che la percezione che un individuo ha del colore rosso sia identica a quella di un altro che affermi di vedere un simile colore: da qui il limite della comunicabilità dell’esperienza e la ragione del solipsismo. Conclusione, questa, che allarmò il mondo dei filosofi della scienza, tra cui Carnap, che difendendo la posizione antisolipsistica e l’oggettività cognitiva dell’esperienza fisica, si oppose a Schrödinger, riuscendo a mostrare la poca fondatezza delle sue affermazioni e invece la fondatezza dell’omologia delle rappresentazioni nell’espressione linguistica di una pluralità di soggetti rispetto alla stessa percezione del rosso.

 

Ebbene, per l’oca lamentosa tutto ciò non ha importanza alcuna, dato che è assolutamente persuasa del carattere soggettivo e psicologico del pensare umano, ritenendo per esempio che il concetto del triangolo non è il medesimo in tutte le menti, e che invece esistano tanti concetti del triangolo a seconda di quanti soggetti lo pensino. Coloro che pensano in tal modo non hanno il senso del pensiero perché sono stati convinti dalle scuole di Stato che i sensi umani sono cinque. La logica di realtà mostra invece che i sensi umani sono dodici (cfr. il mio saggio “I sensi umani non sono cinque ma dodici”).

 

Perciò il lamento di questo tipo di persone lamentose non lo si può neanche dire un lamento. Potrebbe essere… poesia, così come il bianco potrebbe essere nero, o un odore nauseabondo un profumo, ecc., a seconda dei punti di vista di ognuno.

 

Il linguaggio usato da questo tipo di persone è caratterizzato come “neolingua” da George Orwell, ed è  detto “ocolingo”.

 

La lamentela dell’oca, continuamente espresso in “ocolingo”, cioè ripetendo il lamentoso quaqquaraqquà new age del mondo “malmondato” e della cultura di Stato, è dunque una forma di creatività subumana, che appare come espressione di disagio ma che è in verità una necessità per l’autocompiacimento di chi l’adotta: “Oh me poverina, oh me misera tapina, come è cattivo il mondo! Quaqquaraqquà, quaqquaraqquà…”.

 

Ovviamente, chi cade nella trappola di queste lamentele, volendo anch’egli fare il buon samaritano, cercando di consolarla, fa davvero un grave errore. Dovrebbe lasciar vivere quelle lamentele. Sanarle è impossibile perché mancano del senso del pensare, che solo loro possono sperimentare in se stesse. Ma non vogliono. Perché sono convinte che i sensi sono cinque e non dodici. Perciò, incontrando le loro lamentele, bisognerebbe chiedersi: “Perché voglio essere così crudele da alleviare il dolore ad una masochista?”. Anzi, quando il nostro senso di colpa comincia a prendere forma perché siamo bersaglio di oche o di pappagalli o di struzzi lamentosi, dovremmo dire a noi stessi: “Anche oggi ho fatto la mia buona azione: ho dato loro occasione per lamentarsi”.

 

La creatività del subumano porta dritti alla guerra, o al cosiddetto karma negativo della vendetta degli dei o della “nemesi”.

 

Ciò è dimostrabile, dato che gli esempi di linguaggio “ocolingo” non mancano, sia nella vita reale che in quella virtuale del web.

 

Nella spiegazione del video “Dal vangelo di Quiquoquà…” (https://youtu.be/8vmgbxBg38w), ho già accennato che il concetto di “ocolingo” (o di “neolingua”) riguarda  un linguaggio di oche o di pappagalli, vale a dire di soggetti umani talmente disabituati all’esperienza del concetto, che quando parlano o scrivono, non collegano più le parole con ciò che esse evocano.

 

Prendo ora un esempio dalla realtà di Facebook. In questa immagine (a destra): vi è la citazione di un versetto del “Faust” di Goethe, preceduta dalla frase “Non basta studiare, bisogna anche sperimentare ciò che si scopre”.

 

La relazione fra questa affermazione ed il versetto con cui Faust afferma l’inutilità della cultura, dimostra che lo scrivente ignora o suppone la restante opera di Goethe. Delle due l’una: o non l’ha mai letta, oppure da’ per scontato che l’abbiano letta tutti e che tutti riconoscano la differenza fra il personaggio Faust di Goethe, e Goethe. Cosa quest’ultima alquanto improbabile. Ebbene questa citazione è già un esempio di linguaggio “ocolingo”. E mi spiego. È certamente vero che il nozionismo non serve a nulla se le nozioni o le citazioni che usiamo sono mere parole ripetute pappagallescamente o prive di esperienza reale dei contenuti evocati. Quando però si citano versi di Goethe attribuendoli a Faust (che fra l’altro è un essere umano realmente esistito, e che Goethe fece diventare un personaggio della sua opera tragica), facendo in tal modo dire a Goethe che la cultura è inutile, si afferma il contrario di ciò che si dovrebbe. L’opera generale di Goethe è infatti espressione della massima cultura possibile in quanto del tutto autenticamente poggiante su logica di realtà.

 

Sottolineo dunque il fatto che, citando in quel modo una frase come quella, si è talmente superficiali che l’ignoranza, l’antilogica e la menzogna diventano bestialità. Perché la verità di quella citazione indica proprio il contrario, dato che si riferisce alla cultura vera poggiante su logica di realtà ma a quella nozionistica che s’impara a scuola. Proprio perché la cultura di Stato è una falsa cultura, che fa dell’individuo un appartenente alla specie umana, destinandolo a diventare marionetta di chi lo governa, Goethe fa parlare il suo personaggio Faust, per significare che l’uomo del suo tempo (come del resto ancora quello odierno nostro del 3° millennio) è un burattino! Di fatto, per creare il suo “Faust”, Goethe si ispira al “teatro dei burattini” (Puppenspiel).

 

Allo stesso modo Dante si ispira alla commedia degli uomini per creare “La divina commedia”. Allo stesso modo Orwell si ispira all’ipocrisia degli uomini per creare le sue opere, dicendo che i maiali ci governano e che gli struzzi parlano in ocolingo, scrivendo idiozie. Ed allo stesso modo, Paolo Villaggio inventa la “cagata pazzesca” di Fantozzi ispirandosi agli uomini-marionetta di oggi impiegati nei vari uffici-lager di lavoro odierni!

 

Dunque solo chi è talmente superficiale da non distinguere Faust da Goethe può citare Goethe per fargli dire che la cultura è inutile senza “SPERIMENTARE ciò che si scopre”! Infatti di cosa parla il parlante se parla senza avere SPERIMENTATO la lettura del “Faust” per capire almeno il senso di quelle parole? Non basta prendere dal web tre o quattro parole di qualcuno, di cui abbiamo trovato una frase corrispondente a ciò che noi siamo, cioè struzzi, o oche o pappagalli, per poi copiaincollarle in qualche Facebook, sostenendo così le nostre aberrazioni, e in base a ciò poi predichiamo che essere ignoranti è bello, che la cultura è inutile, ed oltretutto credendo in tal modo di deresponsabilizzarsi, in quanto… “l’ha detto Goethe!!!”. Ma qui abbiamo davvero a che fare con la civiltà della menzogna o del manicomio!!!

 

Il primo contatto di Goethe col motivo di Faust-personaggio fu la rappresentazione di un “Puppenspiel” (teatro dei burattini), risalente all’infanzia. Questo impressionò Goethe fanciullo, e l’impressione continuò a vivere in lui come un elemento intorno al quale si raggrupparono poi altri motivi, crescendo con altre esperienze di vita, simili a quelle di quei burattini. Nel 10° libro di “Dichtung und Wahrheit” (“Poesia e verità”), Goethe parla proprio di quel motivo, che lo accompagna come un’eco interiore, proprio perché si sentiva anch’egli, come un burattino, nauseato da tutto quel falso sapere ed urtato dalla vanità di quanto aveva dovuto imparare negli anni universitari a Lipsia. “Guardate che a scuola si impara solo ad essere burattini, schiavi!” avrebbe detto oggi.  La figura di Faust simboleggia e documenta molta vita del suo tempo, la sua stessa vita, e quella di uomini del suo e del nostro tempo (dato che a scuola non impariamo nulla di nulla, e vogliamo solo insegnare poi agli altri la nostra ignoranza sempre più stolida). Goethe si ribellava, almeno! Ed alla ribellione per quel gretto mondo razionalistico di Lipsia univa una prepotente fame di interiore attività, di individualità, di “io”, e l’anelito a varcare i confini e le regole entro i quali stavano allora relegati i poeti, i pensatori, e in genere tutta la vita quotidiana del suo tempo.

 

Oggi le cose sono peggiorate al punto che è diventato addirittura offensivo dire a qualcuno “poeta”, dato che “poeta” è divenuto sinonimo di “stupido”! Invece la stupida cultura del tempo di Goethe (come del resto la nostra, stupidissima e piena di idiozie e contraddizioni) era appunto quella del personaggio Faust, che chiede aiuto “alla cazzo”, cioè all’arte di Mefistofele, che in quel poema è simbolo dell’economicismo, o di Satana per gli evangelisti, o di Beliar o Belial (in Paolo di Tarso), o di Arimane (in Steiner)…

 

La figura di Faust riconduceva dunque Goethe alla sua infanzia, al teatro dei burattini, nonché a correnti di pensiero e a fedi che erano passate, ma che gli riaffioravano ancora intorno. Esattamente come oggi, riaffiora negli uomini l’aberrante “dover essere” kantiano, secondo cui si dovrebbe ritenere giusto pagare le tasse del canone TV, attraverso la bolletta della luce, nonostante Cristo sia stato massacrato per aver detto che pagare le tasse è sbagliato (il primo capo d’imputazione per il massacro di Stato e del Sinedrio, sua intercapedine, riguarda infatti i tributi, dato che “sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare” (Lc 23,2)! Dovremmo allora chiedere con Goethe, prima a noi stessi e poi alla chiesa cattolica ed allo Stato: perché dovremmo credere giusto ciò che Cristo riteneva ingiusto? Pagando, non siamo forse esattamente come Faust, burattini, figure tragiche, destinati per tutta la vita alla schiavitù, senza possibilità di salvezza? Dove sta in noi l’urto di Goethe con la logica di realtà della vita, se predichiamo che ignoranti è bello?

 

Nel poema goethiano - nonostante il sottotitolo: “Una tragedia” - il dramma si risolve in una catarsi, sia pure oltre la vita. E ciò risponde ad una convinzione di Goethe, che odiava ogni violenza, il “puro tragico”, la catastrofe alla Shakespeare, o all’Alfieri. L’inconciliabile gli pareva assurdo. Invece gli pareva necessario, dopo gli urti, i contrasti, le minacce di catastrofi, ecc., appianare questi contrasti in una serena, superiore armonia. Anche per questo motivo non accetterà mai l’istituzione della ghigliottina e i modi della Rivoluzione francese (accettati invece da Kant, che li predicava come cosa buona e giusta).

 

Ecco: la cultura dell’ocolingo, che parla solo perché ha il becco, è la cultura insegnata da Mefistofele a Faust. Quella, sì, non serve a nulla se non a ritrovarsi sempre più schiavi e persuasi che schiavo è bello.

 

Chi cita Goethe dovrebbe almeno farlo NON per fargli dire “Viva l’ignoranza”! Perché una simile citazione anticulturale è stupida. È come paragonare o preferire la festa del cotechino alla lettura integrale del “Faust”…  E ciò, a lungo andare, produce disastri, guerre, sconvolgimenti… Tutto ciò è come attirato dal “sottovuoto spinto” dell’interiorità umana…

 

Infatti le oche, i pappagalli, gli struzzi e tutti coloro che parlano solo perché hanno il becco, meccanismo ripetitivo delle parole sconnesso dal giudizio critico, possono anch’essi essere redenti. La loro redenzione si chiama “Nemesi”, dato che col loro becco sono usi ad oltrepassare la misura senza neanche accorgersene. Perciò, nel loro richiamare Nemesi, dea della misura oltrepassata, “beccano” batoste, una dietro l’altra, finché capiscono il loro potere umano, il pensare, che è la più alta facoltà che l’uomo ha a disposizione per mondare se stesso e il mondo. Fino ad allora il mondo resta… immondo, ma solo in quanto abitato da loro, quaqquaraquà che disturbano l’armonia naturale del cosmo. Il cosmo è sempre mondo perché è ordine (“cosmos” significa in greco “ordine”). Ecco perché se il mondo è immondo a causa degli sporcaccioni che sparlano in ocolingo, arriva Nemesi che si vendica quando si oltrepassa la misura.

 

Nemesi era la dea greca della misura, intesa come strumento della vendetta divina, perché combatteva e combatte l’“hybris”, cioè gli eccessi in tutti i campi. Nella tragedia greca il termine “hybris” esprimeva eccessi di superbia, di bastardaggine, di falsità, ecc. Perciò “ibrido” è sinonimo di ambiguo, disarmonico, confuso, mescolato, spurio, ecc.

 

Oggi, per esempio, siamo sommersi da un’“hybris” fuori misura, per cui c’è da aspettarsi un’azione di Nemesi, che essendo figlia di Nyx (la notte), sa vedere distintamente non solo l’etere e il giorno, suoi fratelli, ma anche ogni astrazione personificata dalle sue sorelle: il sonno, la sorte, il sarcasmo, la miseria, gli inganni, le tenerezze, la vecchiaia, la discordia, e tutte le altre figlie della sera. Da un’unione con Zeus, nacquero i Dioscuri ed Elena, causa della guerra di Troia.

 

La dea Nemesi regnava sulla distribuzione dei beni. Oggi le cose sono talmente ibridate che non si tratta nemmeno più di distribuire ma di restituire il maltolto!

 

Il concetto stesso di politica economica è ibrido in quanto mescola ciò che non può stare assieme: il diritto ed il profitto, che mischiati insieme sono il conflitto di interesse per eccellenza.

 

Oggi c’è dunque da sperare solo in Nemesi, che vegliava sull’equilibrio, puniva l’orgoglio e la dismisura; condannava l’eccesso di felicità, l’eccesso di ricchezza, l’eccesso di potere, tutto ciò che minacciava l’equilibrio del mondo e che disturbava il cosmo cioè l’ordine universale e l’universalità del pensare, che aveva manifestato tutto ciò durante egli eoni del tempo. Nemesi metteva a posto tutti. Ecco perché ad esempio Creso, troppo felice e troppo potente, fu trascinato in una spedizione sfortunata contro Ciro.

 

Il santuario più celebre consacrato a Nemesi fu quello di Ramnunte, e testimoniò la dismisura dei Persiani così sicuri della loro vittoria sugli ateniesi (oggi abbiamo la stessa sicurezza negli appartenenti all’ISIS): Nemesi impedì loro di conquistare la città… Perciò Fidia scolpì la statua di Nemesi in un blocco di marmo portato per festeggiare la vittoria.

 

Diceva Socrate: “Conosci la tua condizione umana e i suoi limiti, non esporti per dismisura alla vendetta della Nemesi divina”.

 

E l’oca cosa c’entra? C’entra, c’entra! Il mito racconta che Nemesi fosse amata da Zeus, nonostante cercasse di evitare i suoi abbracci, assumendo mille forme diverse e finendo col trasformarsi in… un’oca.

 

Allora Zeus diventò un cigno, e si unì a lei. Nemesi allora “partorì” un uovo, che i pastori raccolsero e donarono a Leda. Ed è da questo uovo d’oca che nasce, appunto, Elena, anch’essa, fra l’altro, presente come personaggio nel “Faust” di Goethe.

 

Goethe era talmente affascinato dall’arte greca che nel suo “Faust” cercò di rappresentare, attraverso il matrimonio di Faust con Elena, il proprio amore per la cultura greca. Nel “Faust” di Goethe Elena rappresenterà infatti non più l’antica complessa mitologia che la riguarda ma il puro simbolo del bello, e risiederà là, dove il potere di Mefistofele (economicismo arimanico o satanico) non può arrivare. In tal modo nel poema goethiano Elena apre a Faust un mondo nuovo, avviandolo verso esperienze nuove, sovrasensibili, che lo liberano dalle grinfie mefistofeliche, oggi rappresentate dalle grinfie della politica economica (o della religione keynesiana imperante nei manipolatori di capitali, nonché nei politici e nei media, loro “camerieri”).

 

La degenerazione dell’umano incomincia dall’ocolingo, cioè dal linguaggio, che è ben altra cosa del linguaggio scurrile. Dire “cazzo” è nulla a confronto del parlare solo perché si ha il becco. Basta sentire il verso del corvo per avvertire lo iato che come un proiettile urlato dalla voce degli uomini può uccidere gli uomini con le parole… Le guerre nascono dalle parole. L’uomo alfabeta uccide la sua sensibilità e la sua fantasia e, mediante l’uso improprio della parola, attua quella separazione, quella “torre di Babele” che è l’espressione dell’arrampicarsi sugli specchi delle proprie paranoie. L’alfabetismo si è tradotto da tempo in tubi, prese, strade, catene di montaggio, ma anche in inventari di parole (cfr. McLuhan M., “Gli strumenti del comunicare”, Garzanti, Milano, 1986) che possono essere veri e propri attentati all’umanità.

 

Occorre dunque redimere pennuti e beccuti? Non credo. Questa non è un’operazione che l’uomo può fare, dato che è compito del mondo spirituale. Di Nemesi, appunto… Oltretutto la storia di Roma racconta già di oche sacre connesse alle… monete! Basta avere un po’ di memoria e si scoprono molti altarini!

 

Come accenno nel mio saggio sui dodici sensi a proposito del senso del pensare, il termine “moneta” proviene infatti dal verbo latino “moneo” e dai suoi tre significati di “rammentare”, “rimembrare”, e “ricordare”, rispettivamente connessi alla triarticolazione di “mente” (rammentare), “membra” (rimembrare), e “cuore” (ricordare) dell’uomo...  Coloro che tacciono queste cose, lo fanno semplicemente perché le rimuovono essi stessi dalla loro coscienza, perché le credono di disturbo allo “status quo”. In tal modo si genera il dimenticare collettivo ed un’umanità senza meraviglia, perché indebolita nella propria essenza che è il pensare. In tal modo è facile dimenticare che tanto la moneta dell’economia, quanto il manas, che è l’io spirituale del talento umano, esigono universalità del pensare per risorgere dal loro tumulo sepolcrale. Ne consegue che la moneta stessa oggi diventa debole.

 

Nel paradosso della sua etimologia, la moneta è infatti l’esatto contrario di ciò che dovrebbe essere. La parola latina “moneta” traduce anche il greco “mnemosine”, e Mnemosine era la personificazione della memoria!

 

“Moneta” era infatti il soprannome dell’“Avvertitrice”, la dea Giunone, così chiamata perché nel 390 a.C., durante l’invasione dei Galli, le oche sacre del suo santuario “Giunone Moneta”, situato nella sommità nord del Campidoglio, diedero l’allarme coi loro starnazzamenti, mentre il nemico cercava di assalire la collina con un attacco notturno. In quel tempio si batteva moneta chiedendo consiglio alla dea, e in segno di ringraziamento per le sue risposte si stabiliva che il conio della moneta fosse fatto sotto i suoi auspici.

 

Oggi, con la cosiddetta “caduta degli Dei” e con l’avvento a divinis dei politici della Goldman Sachs, della Trilaterale e del Club Bilderberg, ecc., detti “tecnici”, gli animali sacri non possono più avvertire degli attacchi delinquenziali notturni dei nemici, così che gli uomini sono indotti a colpevolizzare una parte di loro stessi (destra o sinistra o centro) dei sempre nuovi disastri della loro economia che deputano, ignari, ad altri, recandosi alle urne come sonnambuli...

 

Però, anche se gli animali sacri tacciono, saranno le pietre a parlare per loro (Luca 19, 40). E questo mi rasserena...