Il seguente libro-conferenza di Steiner è talmente eloquente e ben tradotto che lo acquistai più volte, ogni volta regalandolo a qualche amico. Trentatrè anni fa lo trascrissi a mano come sintesi di appunti, prima di regalarlo per l'ennesima volta (vedi 1985/fondamentale_errore_del_kantismo-01.htm). Oggi non lo si trova più nelle librerie e faccio appello a tutti gli editori per la sua ristampa in quanto straordinariamente utile non solo per la cultura antroposofica ma soprattutto per l'esigenza del futuro diritto di epicheia e dell'economia fraterna che potranno bene svilupparsi sulle basi di molti suoi contenuti [il corsivo del testo che segue è qui evidenziato in maiuscolo - ndc].
Nereo Villa, Castell'Arquato 22 febbraio 2018
Rudolf Steiner
FILOSOFIA E ANTROPOSOFIA
Titolo originale del saggio: "Philosophie und Anthroposophie" (Opera Omnia n. 35)
Come è detto nella "Premessa" dell'autore, il testo riproduce la conf. di Stoccarda del 17/08/1908; il saggio fu pubblicato a Berlino nel 1918 nel volume "Durch Den Geist zur Wirklichkeitserkenntnis der Menschenrätsel" ("Mediante lo spirito verso la conoscenza reale degli enigmi umani).
A cura (ndc) di Nereo Villa
PREMESSA
Le considerazioni contenute in "Filosofia e Antroposofia" riproducono in
sostanza una conferenza da me tenuta nel 1908 a Stoccarda. Per antroposofia
intendo un'indagine scientifica del mondo spirituale, che rileva tanto
l'unilateralità della sola scienza naturale, quanto quella del solito
misticismo, e sviluppa nell'anima che aspira alla conoscenza, prima ch'essa
tenti di penetrare nel mondo soprasensibile, le forze che non sono ancora attive
nella coscienza abituale e nella scienza ordinaria e che dànno la possibilità di
una tale penetrazione.
In genere, dalla filosofia "ufficiale" una tale scienza dello spirito è ritenuta
cosa da dilettanti. Con la presente breve esposizione dell'evoluzione della
filosofia, cercherò di mostrare che questo rimprovero è del tutto
ingiustificato, e può essere sollevato soltanto perché la speculazione
filosofica contemporanea si è smarrita per false vie, e non può, finché non le
abbia abbandonate, riconoscere che i suoi veri punti di partenza esigono ch'essa
segua invece quel cammino che in ultimo conduce all'antroposofia.
Rudolf Steiner
FILOSOFIA E ANTROPOSOFIA
Una vita psichica sanamente sviluppata urta per naturale necessità contro due
scogli di cui deve vincere la resistenza se, nel gran mare della vita, non vuole
andare alla deriva come una barca senza timone in balìa delle onde. Questo
andare alla deriva porta infine l'uomo a un'incertezza interiore e, in un modo o
nell'altro, alla rovina; oppure gli toglie la possibilità d'inserirsi
nell'ordinamento del mondo in modo conforme alle vere leggi della vita, così che
egli diviene un ostacolo per quell'ordine, invece che un fattore di progresso.
Una delle forze per cui l'uomo acquista la
possibilità di sentirsi interiormente sicuro nello svolgimento della vita e
d'inserirsi in modo rispondente al suo vero essere è la conoscenza che, riguardo
all'uomo, deve diventare autoconoscenza.
L'impulso all'autoconoscenza è in ogni uomo; può restare più o meno inconscio ma
è pur sempre presente. Può manifestarsi in sentimenti indistinti che a guisa di
ondate salgono alla coscienza delle profondità dell'anima e si fanno sentire
come vita non appagata. Spesso questi sentimenti si interpretano erroneamente e
se ne cerca il compenso in circostanze esteriori: spesso danno come un senso di
apprensione di cui pure ci sfugge l'essenza. Chi riuscisse a superare
quest'apprensione vedrebbe che, non mezzi esteriori, ma solo una conoscenza
radicale dell'essere umano può portarvi rimedio. La conquista di una tale
conoscenza radicale esige però che, nell'urto contro i due ostacoli a cui la
conoscenza è condotta quando vuol divenire conoscenza dell'essere umano, si
avverta davvero una resistenza. In sostanza, quei due ostacoli, costituiti da
miraggi ingannevoli ma tali che l'uomo non può progredire nella sua vita
conoscitiva prima d'averli riconosciuti nella loro vera essenza, sono la scienza
naturale e il misticismo. Entrambi s'incontrano naturalmente sul cammino della
vita umana; e con entrambi, perché possono avvantaggiarlo, l'uomo deve fare le
proprie e esperienze interiori. Dal fatto ch'egli sviluppi la forza d'arrivare a
queste due forme della conoscenza, senza però arrestarsi né all'una né
all'altra, dipende il suo riuscire o no a conquistarsi la conoscenza dell'essere
umano. Nel raggiungerle, egli deve essersi conservata tanta indipendenza da
dirsi che nessuna delle due può portarlo dove la sua anima anela arrivare; ma,
per riconoscerlo, egli deve aver prima sperimentato interiormente l'una e
l'altra forma nel suo valore conoscitivo. Non deve temere di sperimentare
davvero la loro essenza per riconoscere, in virtù di questa esperienza, che
entrambe vanno superate per esser rese feconde. Occorre cercare l'accesso ad
ambedue, poiché solo dopo averle realmente trovate si scopre la via per uscirne.
Chi, senza pregiudizi interiori, osservi il nostro modo di conoscere la natura,
scorgerà come sia illusorio credere che con esso si afferri la realtà vera. Nel
sano sentire la propria realtà umana si fa una ben determinata esperienza, e la
si fa tanto più quanto più si cerca d'estendere la scienza naturale alla
comprensione dell'essere umano. L'uomo, quale essere naturale, appare a questa
scienza come una confluenza delle forze della natura. Penetrare la struttura
dell'essere umano alla stregua dei modi d'azione che si sono scoperti nei regni
della natura, può diventare un ideale conoscitivo; un ideale che, nei riguardi
della vera scienza naturale, è giustificato. Per quanto lontano possa apparire
il tempo in cui si arriverà a conoscere come si formi secondo leggi naturali, la
meravigliosa struttura dell'organismo umano, il tendere a tale conoscenza, come
fine ideale della scienza naturale, ha il suo valore. Ma, accanto a questo
ideale giustificato, è pure indispensabile che un sano sentimento della realtà
ci porti a sperimentare come ciò che la scienza naturale pone davanti all'uomo
diventi sempre più estraneo alla realtà che viviamo interiormente. Quanto più la
scienza si perfezionerà, tanto più quel ch'essa avrà da presentare all'uomo che
anela alla conoscenza sarà estraneo alla vita interiore. Secondo il suo
giustificato ideale, essa DEVE presentarci fatti sostanziali, materiali.
Un'esperienza spassionata deve finire con l'urtarsi allo scoglio che spinse
Du
Bois Raymond a dire, nella sua celebre conferenza "Sui limiti della scienza
naturale": "La conoscenza umana non potrà mai afferrare nel mondo ciò che
infesta lo spazio come materia". È sana un'esperienza interiore che, pur
cercando con tutte le forze adatte la conoscenza della natura, senta al tempo
stesso che così facendo non si avvicina alla vera realtà, ma se ne allontana.
Dobbiamo sperimentare ciò di fronte ai risultati della scienza naturale;
dobbiamo riconoscere ch'essi non si palesano all'intendimento, al sentimento. E
allora arriveremo a dirci: non è affatto vero che l'uomo aspiri alla scienza
naturale per avvicinarsi alla realtà; lo crede, dapprima, nella sua coscienza,
ma l'inconscia causa prima di quest'aspirazione deve avere un tutt'altro
significato. Avrà certo un significato per la vita umana, e dobbiamo cercare
quale sia; ma la conoscenza della realtà vera non può essere una scienza
naturale. Questo riconoscimento può divenire un punto di svolta della vita
dell'anima. Riconosciamo per intima esperienza che si è dovuta coltivare la
scienza naturale, ma riconosciamo altresì ch'essa non può dare quel che ce ne
ripromettevamo nella nostra fervente ricerca. Una penetrazione vera e vissuta
nei fenomeni della natura finisce col portare l'uomo a questa conclusione.
Allora egli cessa di credere che la conoscenza dell'essere umano possa mai
venirgli da una, per quanto perfetta, elaborazione della scienza naturale. Chi
non è giunto a riconoscerlo, chi spera ancora, come in un ideale, che le scienze
naturali giungano a illuminare l'uomo intorno alla sua propria essenza, non è
ancora penetrato abbastanza a fondo nelle esperienze che si possono fare con la
conoscenza della natura.
Questo è uno degli scogli contro cui urta l'aspirazione alla conoscenza
dell'essere umano. Molti pensatori hanno sentito l'urto e si sono rivolti
dall'altro lato, all'approfondimento mistico nel proprio sé. Anche in questa
direzione si può per un certo tempo procedere, animati dalla fede di
sperimentare direttamente nel proprio intimo la piena realtà. Si può credere di
sperimentare, per dir così, un'unione con la fonte primordiale dell'essere; se
però si prosegue abbastanza con questa esperienza, e se si distruggono le forze
dell'illusione, si scorge che l'esperienza intima, per quanto profondamente si
cerchi d'immergerci in essa, resta pure impotente di fronte alla realtà. Per
quanto fortemente si sia creduto - tentati da questa o quella circostanza - di
afferrare l'essere, alla fine l'esperienza interiore ci si mostra come un
effetto qualsiasi di una realtà ignota, ma non certo come qualcosa che sia in
grado di afferrare e trattenere la piena realtà. Il mistico, che cammina su
questa via, si accorge d'aver abbandonato con la sua vita interiore la vera
realtà che cerca, e di non poter più accostarsi ad essa. Se l'indagatore della
natura arriva a un mondo esteriore che non si lascia afferrare con
l'interiorità, il mistico giunge a una vita interiore che annaspa nel vuoto
quando vuol afferrare il mondo esteriore di cui pure ha bisogno.
Le esperienze che l'uomo fa, da un lato con la scienza naturale e dall'altro col
misticismo, non si dimostrano dunque come il coronamento del suo sforzo per
trovare la realtà, ma come il punto di partenza per la ricerca di essa. Infatti,
quest'esperienza mostra un abisso tra i fatti materiali e la vita dell'anima;
conduce al punto di vedere quest'abisso e di riconoscere che, per la vera
conoscenza, non può esser colmato né per mezzo della scienza naturale, né per
mezzo del solo misticismo. Lo scorgere quest'abisso conduce a cercare la vera
realtà colmandolo con esperienze conoscitive, le quali non esistono ancora nella
coscienza umana ordinaria ma devono prima svilupparsi da essa. Chi abbia fatto
le debite esperienze, sia di fronte alla scienza naturale, sia di fronte al
misticismo, dice a se stesso: a questi due modi di conoscenza se ne deve
aggiungere un terzo, che avvicini il mondo esteriore materiale alla vita
interiore umana più di quanto non faccia la scienza naturale, e che, al tempo
stesso, immerga la vita interiore umana nel mondo reale più profondamente di
quanto non possa avvenire per mezzo del solo misticismo.
Un tale genere di conoscenza può esser chiamato antroposofico, e antroposofia la
nozione della realtà ottenuta con questo mezzo, poiché deve partire dal fatto
che il vero e reale essere umano (ANTHROPOS) si occulta dietro a quello che si
palesa alla scienza naturale e che la vita interiore trova in sé nella coscienza
ordinaria. Questo essere umano vero e reale si preannunzia nel sentimento
oscuro, nella vita inconscia dell'anima e, per mezzo della ricerca
antroposofica, dev'esser tratto a galla nella coscienza. L'antroposofia non vuol
distogliere l'uomo dalla realtà per condurlo verso un mondo irreale, inventato;
al contrario, vuole cercare un modo di conoscenza al quale il mondo reale possa
appunto dischiudersi. Dopo le esperienze fatte con la scienza naturale e col
misticismo sperimentato dalla conoscenza ordinaria, essa deve giungere al
riconoscimento che da questa coscienza ordinaria se ne può sviluppare un'altra
come, press'a poco, dall'ottusa coscienza di sogno la coscienza diurna di
veglia. Quindi, per l'antroposofia, il processo di conoscenza diviene un reale
svolgimento interiore che conduce oltre i limiti della coscienza ordinaria,
mentre la scienza naturale consiste soltanto nel logico giudicare e concludere
della coscienza ordinaria sulle basi della realtà materiale esteriore e il
misticismo altro non è che vita interiore più approfondita ma che tuttavia resta
entro i limiti della coscienza ordinaria.
Se oggi si accenna all'esistenza di un tale processo di conoscenza interiormente
reale, di una conoscenza antroposofica, si va a cozzare contro le abitudini di
pensiero generate, da un lato dalla scienza naturale giunta a un'altezza
meravigliosa, e dall'altro da certi ormai connaturati pregiudizi mistici.
L'antroposofia della quale parliamo è respinta dagli uni perché ritengono che
essa non renda giustizia alla scienza naturale; dagli altri, perché appare
superflua alle loro tendenze mistiche che essi ritengono sufficienti a collocare
l'uomo nella vera realtà. Infine, coloro che vorrebbero proteggere la "vera"
conoscenza da tutto quanto oltrepassa i confini della coscienza ordinaria,
credono che l'antroposofia rinneghi il vero indirizzo scientifico, - proprio, ad
esempio, alla conoscenza filosofica del mondo, - e cada nel dilettantismo.
Ora, nelle considerazioni seguenti vogliamo mostrare quanto sia poco
giustificato il rimprovero di dilettantismo rivolto alla ricerca antroposofica
appunto da parte della filosofia. Con brevi tratti, seguendo lo svolgimento
della filosofia, vogliamo mostrare quanto spesso questa si allontani dalla vera
realtà per il fatto di non vedere i due scogli sopra accennati, e come tuttavia,
nei sostrati più profondi del suo sforzo, giaccia inconscio un impulso a passare
in mezzo tra l'uno e l'altro, e a dirigersi verso l'antroposofia (su questo
orientamento di ogni filosofia verso l'antroposofia l'autore si è maggiormente
diffuso nella sua opera "Gli enigmi della filosofia").
Molti studiosi considerano la filosofia come qualcosa di assoluto, non come una
scienza che, nel corso dell'evoluzione umana, abbia dovuto nascere e
trasformarsi da certe premesse. Corrono molti errori riguardo al vero carattere
della filosofia. Eppure si è in grado d'indicare, anche secondo documenti
storici esteriori, e non solo per esperienze conoscitive interiori, in quale
momento dell'evoluzione umana la filosofia come tale abbia avuto ed abbia dovuto
avere la sua origine. Questo momento è stato infatti indicato - e per lo più
giustamente - dalla maggior parte degli storici della filosofia, specie dai più
antichi. Tutti cominciano infatti con Talete, e da lui proseguono fino ai giorni
nostri.
È, sì, vero che taluni storici moderni di quelli che hanno voluto essere
particolarmente esaurienti e intelligenti, hanno collocato il principio della
filosofia in epoche anteriori, e vi hanno compreso ogni sorta di dottrine
anteriori. Ma tutto ciò è generato solo da una ben determinata forma di
dilettantismo, il quale ignora che tutte le dottrine sorte in India, in Egitto,
e in Caldea, hanno un'origine e un metodo del tutto diversi da quelli del
pensiero puramente filosofico e speculativo. Questo si è sviluppato per la prima
volta nel mondo greco, ed è veramente Talete il primo filosofo che importi,
sotto questo riguardo. Tuttavia, non è necessario caratterizzare i diversi
filosofi greci, da Talete in poi; non occorre menzionare Anassagora, Anassimene,
Eraclito, e nemmeno Socrate e Platone; possiamo subito riallacciarci a quello
che è veramente il primo filosofo nel senso più stretto della parola, cioè ad
Aristotele.
Tutte le altre filosofie sono, in sostanza, astrazioni derivate dalla sapienza
dei misteri; si potrebbe facilmente provarlo ad esempio per Talete e per
Eraclito (la saggezza dei misteri a cui i accenna qui, è una forma di conoscenza
diversa da quella propria a epoche posteriori, e appartiene a tempi più antichi
dell'evoluzione spirituale dell'umanità. Fonte di questa saggezza era un'intima
esperienza dell'anima in cui si rivelavano i misteri dell'universo. Intorno al
VI secolo av. Cristo, questo modo di conoscenza si andò trasformando in quello
che cerca la comprensione della vita universale non tanto nell'intima
esperienza, quanto nell'osservazione delle percezioni sensibili e psichiche
dirette dall'intelletto. Nella forma più antica della conoscenza, si aveva una
veggenza interiore permeata di logica istintiva. Tale disposizione dell'anima
cedette il posto all'altra, per la quale il pensare logico si fece sempre più
cosciente. L'antica facoltà della veggenza intuitiva andò perduta nell'anima
umana. La saggezza dei misteri fu sostituita dall'indagine filosofica. Però sia
per una veggenza interiore ancora sussistente in loro, sia per tradizione, i
filosofi della prima epoca dell'evoluzione filosofica ebbero conoscenza
dell'antica saggezza dei misteri e la compenetrarono con la facoltà del
ragionamento che stava nascendo nell'umanità. Questo trapasso e il suo
svolgimento è stato esposto dall'autore negli "Enigmi della filosofia"). Ma
nemmeno Platone e Pitagora sono già filosofi nel vero senso della parola;
entrambi hanno ancora le loro fonti nella veggenza, poiché quel che caratterizza
il filosofo come tale, non è il solo fatto che egli si esprima in concetti, ma
le fonti da cui attinge. Pitagora ha per fonte la saggezza dei misteri, e la
traduce in concetti; egli è un chiaroveggente, ma quel che ha appreso come
chiaroveggente lo ha espresso in forma filosofica; e lo stesso ha fatto Platone.
Invece la caratteristica essenziale del filosofo che per la prima volta ci
appare appunto in Aristotele, è che lavora sulla base di una tecnica puramente
concettuale, e che ogni altra fonte deve o essergli inaccessibile oppure essere
da lui respinta. E siccome quest'atteggiamento si presenta per la prima volta in
Aristotele, non è senza una ragione storico-universale che egli appunto sia
stato il fondatore della logica, la scienza della tecnica del pensiero. Tutti
gli altri furono solo precursori. Il modo in cui si formino concetti, come si
inferiscano giudizi, come si traggano conclusioni, tutto ciò lo ha scoperto per
primo Aristotele come una specie di storia naturale del pensiero umano
soggettivo e tutto quello che troviamo nelle sue opere è strettamente connesso
con questa fondazione della tecnica del pensiero. Dato che ritorneremo ancora su
alcune sue caratteristiche fondamentalmente importanti per tutte le
considerazioni successive, basta per ora quest'accenno storico per
caratterizzare brevemente il nostro punto di partenza.
Aristotele rimane, anche per i tempi seguenti il filosofo che dà il tono. La sua
opera non solo compenetra il periodo post-aristotelico dell'antichità fino alla
fondazione del cristianesimo, ma appunto nei primi secoli del cristianesimo,
fino a Medio Evo inoltrato, è presa per regola ogni qual volta si elaborano
concezioni del mondo. Con ciò non si vuol dire che, specialmente nel Medio Evo,
quando i testi originali non si avevano più, si riguardasse l'opera aristotelica
come un sistema, come un complesso di dogmi; ma era diventato familiare il
metodo di salire la scala della pura tecnica dei concetti per giungere a un
sapere e infine al pensare sopra gli enigmi fondamentali della vita. E così
Aristotele diviene sempre più il maestro della logica. Nel Medio Evo si diceva
press'a poco così: "Da qualsiasi parte ci venga la conoscenza positiva dei fatti
del mondo, dall'investigare coi sensi umani la realtà esteriore, o in seguito a
una rivelazione per grazia divina, come quella del Cristo Gesù, sono cose che si
devono semplicemente prendere come vengono; da un lato come testimonianze dei
sensi, dall'altro come rivelazione, Ma se vogliamo dare un fondamento per mezzo
di puri concetti a qualcosa che, nell'uno o nell'altro dei due modi sia DATO,
dobbiamo farlo con la tecnica di pensiero che è stata instaurata da Aristotele".
Effettivamente, Aristotele fondò la tecnica del pensiero in modo così eminente
da far dire a Kant, con ragione, che in realtà, da Aristotele in poi, la logica
non era progredita nemmeno di una proposizione (quel che da diverse parti è
stato opposto a quest'opinione di Kant ha solo un valore limitatissimo). In
sostanza, questa affermazione è valida tuttora, per quel che è essenziale,
poiché fino ad oggi le fondamentali dottrine logiche e tecniche del pensiero
sono rimaste pressoché invariate rispetto a quelle date da Aristotele. Quanto
oggi vi si vuole aggiungere proviene da un atteggiamento piuttosto equivoco di
fronte al concetto di logica che si riscontra anche tra i filosofi.
Non solo lo studio dell'opera aristotelica, ma più ancora l'orientazione nella
sua tecnica di pensiero, divenne regola per il periodo centrale del Medio Evo,
per quel periodo cioè in cui la
Scolastica era nel suo fiore, e che ebbe termine
con Tommaso d'Aquino, nel XIII secolo, Trattando di questo primo periodo della
Scolastica bisogna premettere che oggi è lecito parlarne filosoficamente solo a
patto di esser liberi da ogni fede cieca nell'autorità e nel dogma. Oggi è quasi
più difficile parlare di queste cose in modo puramente oggettivo che non
parlarne sfavorevolmente; infatti, parlando male della Scolastica, non si corre
il pericolo di essere stigmatizzati dai cosiddetti liberi pensatori; se invece
se ne parla oggettivamente, c'è molta probabilità di essere fraintesi. La
ragione di ciò sta nel fatto che oggi certi ambienti ecclesiastici, e proprio
quelli più intolleranti, si richiamano spesso alla filosofia tomistica in modo
del tutto erroneo. Non è questa la sede per trattare della filosofia cattolica
dei nostri giorni. D'altra parte non dobbiamo neppure lasciarci impressionare
dalla possibilità che qualcuno ci rimproveri di coltivare gli stessi pensieri
che altrove vengono presentati in forma dogmatica. Ma, senza curarci di tutto
ciò che può venir messo innanzi da destra e da sinistra, vogliamo qui ora
caratterizzare il sentimento che si aveva, durante il fiorire della Scolastica,
di fronte alla scienza, alla tecnica del pensiero e alla rivelazione
soprannaturale.
La Scolastica dei primi tempi non è quel che spesso si vuol caratterizzare con
una frase fatta; al contrario, è monismo, dottrina dell'unità; non è nemmeno
lontanamente di natura dualistica, nel senso inteso oggi da molti. Per la
Scolastica la causa prima del mondo è assolutamente unitaria; solo che, riguardo
al riconoscimento di questa causa prima, lo scolastico ha un sentimento ben
determinato. Egli dice: esiste un certo patrimonio di verità soprasensibili che
fu da prima rivelato all'umanità; il pensiero umano, con tutta la sua tecnica,
non giunge a penetrare da sé nelle ragioni la cui essenza è il contenuto della
suprema sapienza rivelata. Quindi, per lo scolastico del primo periodo, esiste
un certo patrimonio di sapienza che non è completamente accessibile alla tecnica
del pensiero, ma le è accessibile solo fino al punto in cui il pensiero è in
grado di spiegare quello che è stato rivelato.
È dunque compito del pensatore accogliere questa parte del patrimonio di
sapienza come rivelazione, e applicare la tecnica del pensiero soltanto per
interpretarla. Ciò che l'uomo può trovare per forza propria si aggira solo in
certe regioni subordinate della realtà. Per queste, lo scolastico applica
l'attività del pensiero alla propria indagine umana, e così arriva fino a quel
certo limite dove gli si fa incontro la sapienza rivelata. In tal modo, i
contenuti dell'indagine propria e quelli della rivelazione si congiungono e
formano una concezione del mondo oggettivamente unitaria, monistica. Che in ciò
s'inserisca una specie di dualismo, come conseguenza della natura peculiare
dell'uomo, è solo un fatto secondario; si tratta di un dualismo della
conoscenza, non già di un dualismo inerente alla struttura del mondo.
Lo scolastico dichiara dunque che la tecnica del pensiero è capace di elaborare
razionalmente quanto viene acquistato nelle scienze empiriche con l'osservazione
dei sensi, e che inoltre è capace di salire, per un tratto, fino alla verità
spirituale; dopo di che, con modestia, riconosce come rivelazione un altro
tratto della sapienza che, da sé, egli non può scoprire ma soltanto ricevere.
Ora, la speciale tecnica del pensiero che lo scolastico applica in tal modo è
assolutamente cresciuta sul terreno della logica aristotelica. La Scolastica del
primo periodo che, intorno al XIII secolo, si avvicina al suo termine, aveva due
necessarie ragioni per occuparsi di Aristotele: una era data dall'evoluzione
storica, poiché l'aristotelismo era ormai penetrato nella cultura dell'epoca;
l'altra proveniva dal fatto che a poco a poco, da altra parte, alle dottrine
cristiane tradizionali era sorto un avversario.
Aristotele non si era diffuso soltanto in Occidente, ma anche in Oriente, e
tutto ciò che, riguardo alla tecnica del pensiero, era stato portato dagli Arabi
in Europa attraverso la Spagna, era permeato di aristotelismo. Soprattutto una
certa forma della filosofia, della scienza naturale estesa fino alla medicina,
portata in Europa dagli Arabi, era eminentemente compenetrata di tecnica
aristotelica del pensiero. Ora, tra gli Arabi, si era venuta formando l'idea che
dall'aristotelismo potesse nascere soltanto una specie di panteismo che,
infatti, era sorto nella filosofia da un molto confuso misticismo. Dunque, oltre
al fatto che Aristotele continuava a vivere nella tecnica del pensiero, si ebbe
ancora un altro motivo di occuparsi di lui, e cioè che, nell'interpretazione
degli Arabi, il pensiero aristotelico appariva l'avversario, il nemico del
cristianesimo.
Si doveva dire: se l'interpretazione di Aristotele importata dagli Arabi fosse
vera, l'aristotelismo sarebbe una base scientifica atta a confutare il
cristianesimo. Figuriamoci che cosa dovessero sentire di fronte a ciò gli
scolastici! Da un lato essi si attenevano strettamente alle verità del
cristianesimo; dall'altro dovevano pur ammettere, secondo tutte le tradizioni,
che la logica, la tecnica di pensiero di Aristotele, era quella giusta e vera.
Da questo contrasto nacque per gli scolastici il compito di dimostrare che la
logica di Aristotele era da applicare, che si poteva studiare la sua filosofia,
e che in questa appunto si sarebbe avuto lo strumento per comprendere e
afferrare veramente il cristianesimo. Era un compito imposto proprio dallo
sviluppo culturale dell'epoca. L'aristotelismo doveva esser trattato in modo da
mettere in evidenza che quanto era stato portato come dottrina aristotelica
dagli Arabi ne era solo un'interpretazione erronea; e che bastava interpretare
quella dottrina nel modo giusto per avere in essa il miglior fondamento per la
comprensione del cristianesimo. Tale fu il compito che la Scolastica si assunse,
e al quale l'Aquinate dedicò gran parte della sua opera.
Ma accadde anche un'altra cosa. Nel corso dell'evoluzione, passata l'epoca d'oro
della Scolastica, in tutto lo sviluppo logico-filosofico del pensiero umano si
produsse una profonda frattura. Lo svolgimento naturale avrebbe richiesto che la
tecnica di pensiero si fosse andata estendendo sempre più, e che col pensiero si
fossero afferrate, via via, parti sempre più elevate del mondo soprasensibile
(dire questo, però, non vuole essere una critica e nemmeno si vuole affermare
che ciò sarebbe potuto non accadere; il corso effettivo delle cose era appunto
necessario, e quanto abbiamo detto va preso solo come ipotesi). Ma l'evoluzione
non avvenne così, dapprima. Il pensiero fondamentale che, ad esempio, per
Tommaso d'Aquino valeva anzi tutto per le sfere supreme, e che si sarebbe
certamente potuto sviluppare in modo che il limite dell'indagine umana fosse
stato suscettibile di sempre maggiore estensione verso l'alto, verso le regioni
soprasensibili, fu ostacolato nella sua portata e continuò a vivere nella
convinzione che le somme verità spirituali si sottraggono interamente
all'attività del pensiero puramente umano, all'elaborazione concettuale a cui
l'uomo può giungere per forza propria. Con ciò si produsse una frattura nella
vita dello spirito umano. La conoscenza soprasensibile fu presentata come quella
che assolutamente si sottrae a ogni lavoro del pensiero umano, che non può
essere raggiunta da atti oggettivi di conoscenza, ma deve scaturire soltanto
dalla fede. Come tendenza ciò esisteva già prima, ma fu spinto all'estremo verso
la fine del Medio Evo. Sempre maggiormente si andò creando la separazione tra la
fede, che si doveva raggiungere attraverso una convinzione soggettiva del
sentimento, e quel che si poteva elaborare come fondamento di un giudizio sicuro
per mezzo dell'attività logica.
Ormai, spalancatosi quest'abisso, era naturale che scienza e fede si
allontanassero sempre più l'una dall'altra; ed era pure naturale che in questa
frattura, formatasi nell'evoluzione storica, fossero travolti anche Aristotele e
la sua tecnica di pensiero: ciò avvenne specialmente al principio dell'era
moderna. Da parte degli scienziati si disse (e possiamo riconoscere come ben
fondate molte delle loro asserzioni) che continuando semplicemente a
rimaneggiare quel che già si trova in Aristotele, non era possibile progredire
nell'indagine empirica della verità. Si creò una situazione storica tale che
l'avere e che fare con gli aristotelici divenne un disagio, e al tempo di
Keplero e di Galileo l'aristotelismo mal compreso era diventato per la
conoscenza una vera piaga.
Capita sempre che i seguaci di una concezione del mondo guastino grandemente
quel che i fondatori di essa hanno esposto in modo perfettamente giusto. Alla
fine del Medio Evo, invece di guardare la natura stessa, invece di osservare,
appariva assai comodo prendere gli antichi libri di Aristotele e metterli a base
di tutte le conferenze accademiche. È caratteristico a questo proposito il fatto
che una volta un aristotelico ortodosso fu invitato a osservare un cadavere per
persuadersi che i nervi non partono dal cuore, com'egli aveva erroneamente
creduto di leggere in Aristotele, ma che il sistema nervoso ha il suo centro nel
cervello. L'aristotelico rispose: "L'osservazione mi dimostra che la cosa sta
veramente così, ma nei libri di Aristotele sta scritto il contrario, e io credo
piuttosto a lui" [oggi in campo scientifico avviene la
stessa cosa con Albert Einstein: l'osservazione dimostra che le affermazioni di
Einstein sono tutt'altro che scientifiche ma si preferisce credere ad esse - ndc].
Così gli aristotelici erano effettivamente diventati una calamità; e perciò la
scienza empirica dovette farla finita con questo falso aristotelismo, e
richiamarsi all'esperienza pura. Un impulso particolarmente energico fu dato a
questa tendenza dal grande Galilei.
Dall'altro lato, si sviluppò un altro fatto: in coloro che, per così dire,
volevano proteggere la fede dagli assalti del pensiero ormai poggiante su se
stesso nacque un'avversione contro la tecnica del pensiero. Essi la ritennero
impotente in confronto alla sapienza rivelata. Se gli scienziati del metodo
sperimentale si richiamavano al libro di Aristotele, gli altri si richiamavano a
qualcosa che, pur fraintendendolo, avevano ricavato da un altro libro, la Bibbia
[purtroppo la situazione è ancora pressoché identica a
quella odierna: la scienza del big bang e quindi della creazione dal nulla, o
del creazionismo magico, si richiama al biblico "fiat lux", anche se ciò è
confutato dalle osservazioni dell'astrofisica, nonché dalla stessa impostazione
empirica della scienza - ndc]. Troviamo espresso quest'atteggiamento nel
modo più energico, all'inizio dell'era moderna da Lutero nelle dure parole: "La
ragione è una pazza, orba e sorda che nulla deve avere a che fare con le verità
spirituali"; e così pure là, dove egli afferma che la pura convinzione della
fede non può mai sorgere nel giusto modo attraverso il pensiero razionale che
poggia sulle concezioni di Aristotele. Per lui, Aristotele è "un ipocrita, un
sicofante, un becco puzzolente". Parole dure, come dico, ma dal punto di vista
dell'età moderna ci appaiono comprensibili; perché un baratro profondo si era
appunto spalancato tra l'intelletto e la sua tecnica di pensiero, da un lato, e
la verità soprasensibile, dall'altro.
Questa frattura trovò poi un'ultima espressione in un filosofo sotto l'influsso
del quale il secolo XIX si è impigliato in una rete dalla quale difficilmente
riuscirà a districarsi: in Kant. Egli rappresenta, in fondo, l'ultima propaggine
della frattura avvenuta nel Medio Evo, e separa nettamente la fede da quanto
l'uomo può raggiungere con la conoscenza. Già esteriormente la "Critica della
ragion pura" sta accanto alla "Critica della ragion pratica"; e la ragione
pratica cerca di trovare un punto d'appoggio di fede: sia pure razionalistico,
di fronte a quel che si può chiamare sapere. Per contro, con la sua ragione
teorica, Kant afferma nel modo più assoluto che questa ragione è inetta a
comprendere il fatto reale, la cosa in sé. La cosa in sé fa certamente delle
impressioni sull'uomo, ma quest'ultimo può vivere soltanto nelle proprie
rappresentazioni, nei propri concetti. Ora, se volessimo caratterizzare il
funesto errore fondamentale di Kant, dovremmo addentrarci molto profondamente
nella storia della filosofia kantiana, ma questo ci allontanerebbe troppo dal
nostro compito. Del resto, quel che occorre dire in proposito si trova nel mio
saggio "Verità e scienza" (Ed. Antroposofica).
Qui ci interessa piuttosto un'altra cosa, e cioè la rete nella quale si è
impigliato il pensiero filosofico del XIX secolo. Vogliamo studiare un po' come
ciò sia avvenuto. Kant sentì anzitutto il bisogno di mostrare fino a qual punto
il pensiero sia qualcosa di assoluto, qualcosa su cui non vi può essere
incertezza. Ma tutto ciò che proviene dall'esperienza, egli disse, non è cosa
certa. La certezza può esser data al nostro giudizio solo dal fatto che una
parte della conoscenza non proviene dalle cose, ma da noi stessi. Secondo Kant,
dunque, nel nostro conoscere guardiamo le cose come attraverso un vetro
colorato, e impigliamo gli oggetti nella rete di nessi e rapporti che provengono
dal nostro stesso essere. La nostra conoscenza ha date forme: la forma spaziale,
la forma temporale, la forma della categoria di causa ed effetto, ecc. Tali
forme non hanno importanza per la cosa in sé, o almeno l'uomo non può sapere se
la cosa in sé esista nello spazio, nel tempo o nella causalità. Sono forme che
sorgono soltanto dal soggetto dell'uomo, e che l'uomo intesse sopra la cosa in
sé nel momento in cui questa gli si presenta, sicché la cosa in sé gli rimane
sconosciuta. Dunque, dove l'uomo si trova di fronte a questa cosa in sé, egli la
avvolge con le forme dello spazio e del tempo, la inserisce in un nesso che
appare come rapporto di causa ed effetto; e così riveste la cosa in sé di
tutt'una rete di concetti e di forme. Per l'uomo esiste una certa sicurezza
della conoscenza perché, finché egli è quale è, spazio, tempo e causalità hanno
valore per lui; ciò che l'uomo tesso vede dentro le cose, egli deve di nuovo
estrarre da esse Ma quel che è veramente la cosa in sé, l'uomo non può saperlo
poiché resta eternamente impigliato nelle forme della sua rappresentazione.
Schopenhauer ha dato un'espressione classica a questo fatto con la sentenza: "Il
mondo è la mia rappresentazione".
Questo modo di argomentare si è introdotto in quasi tutto il complesso del
pensiero del secolo XIX; non solo nella teoria della conoscenza, ma anche ad
esempio nei fondamenti teoretici della fisiologia. Alle argomentazioni
filosofiche vennero ad aggiungersi talune esperienze. Se per esempio guardiamo
alla teoria delle energie specifiche dei sensi, può sembrare che essa contenga
una conferma dell'opinione kantiana; almeno la cosa è stata veduta così nel
corso del secolo XIX. Si dice: "L'occhio percepisce la luce; però, se si
esercita altrimenti un'azione sull'occhio, ad esempio, mediante pressione,
impulso elettrico, ecc., si ha pure una percezione di luce". Perciò si dice: "Il
contenuto della percezione di luce si genera dalle energie specifiche
dell'occhio e si stende sopra la cosa in sé". Specialmente Helmholtz diede a
questo fatto un'espressione radicale nella sua teoria fisiologica-filosofica,
quando asserì: "Tutto ciò che noi percepiamo non è da pensare simile alle cose
che si trovano fuori di noi, nemmeno come un'immagine. L'immagine ha somiglianza
con quel che rappresenta; ma ciò che chiamiamo sensazione non può avere con
l'originale nemmeno una somiglianza qual è quella dell'immagine col suo
originale. Ciò che l'uomo sperimenta in sé non si può designare altrimenti che
come un SEGNO della cosa in sé. Un segno non ha bisogno d'aver somiglianza con
l'oggetto che esprime".
Quel che così si era andato da gran tempo preparando, si è poi, per così dire,
infiltrato nel pensiero filosofico del secolo XIX sino al tempo nostro. Sul
rapporto della conoscenza umana con la realtà non si fu più capaci di pensare se
non nel senso delle rappresentazioni qui accennate. Mi torna spesso in mente un
colloquio avuto molti anni fa con un filosofo del XIX secolo che molto
apprezzavo, ma del quale non potevo affatto condividere le idee sulla teoria
della conoscenza. Io sostenevo che la concezione dell'essenza soggettiva della
rappresentazione umana è un'affermazione teorica, e non si può asserire A
PRIORI. Egli rispose che bastava attenersi alla definizione terminologica
"rappresentazione": questa definizione stessa esprime che la "rappresentazione"
è soltanto nell'anima; e poiché tutto il reale è dato solamente per mezzo delle
rappresentazioni, così appunto nel processo conoscitivo non si ha una realtà, ma
solo una serie di rappresentazioni della realtà. In questo pensatore, pure
acutissimo, un'opinione preconcetta si era dunque condensata in una definizione,
e per lui rimaneva incontestabilmente stabilito che quel che io afferro nella
rappresentazione giunge sempre solo al confine della cosa in sé; quindi è
soltanto soggettivo. Nel corso dei tempi quest'abitudine di pensiero si è così
fortemente radicata che tutti i teorici della conoscenza, i quali si vantano di
comprendere Kant, ritengono corto di cervello chiunque non possa ammettere che
la loro definizione della rappresentazione e della natura oggettiva della cosa
percepita sia giusta. Tutto ciò è derivato dalla sopra descritta frattura
avvenuta nell'evoluzione dell'umanità.
Ma chi avesse veramente una giusta comprensione di Aristotele, scorgerebbe che
un'evoluzione rettilinea, o comunque non deviata, pur prendendo le mosse da lui,
avrebbe potuto derivarne tutt'altro come principio e teoria della conoscenza.
Nel campo della teoria della conoscenza Aristotele aveva già riconosciuto cose
alle quali l'uomo d'oggi, a causa di tutti gli sviluppi d'idee sorti per
influsso kantiano, assurge solo lentamente e gradualmente. Anzitutto egli dovrà
imparare a comprendere che Aristotele aveva già la possibilità di conquistarsi,
con la sua tecnica di pensiero, concetti che sono giustamente concepiti, e che
conducono direttamente a varcare i limiti, segnati dall'uomo stesso, alla
conoscenza come risultato delle idee sopra accennate. Basta osservare alcuni dei
concetti fondamentali di Aristotele, per riconoscerlo. È assolutamente conforme
al suo pensiero il dire: quando sorgiamo le cose che stanno intorno a noi,
troviamo a tutta prima quel che ci dà una loro conoscenza, per il fatto che le
percepiamo coi sensi: i sensi ci trasmettono il singolo oggetto. Ma quando
cominciamo a pensare, le cose ci si raggruppano, e allora riuniamo diversi
oggetti in un'unità di pensiero. E Aristotele trova la giusta relazione tra
questa unità di pensiero e una realtà oggettiva, - quell'oggettività che conduce
alla cosa in sé - mostrando che, se pensiamo coerentemente, dobbiamo pensare il
mondo sensibile circostante composto di materia e di ciò che lui chiama forma.
Materia e forma sono per Aristotele due concetti che lui distingue nell'unico
modo giusto in cui possono essere distinti. Potremmo parlare per ore e ore, se
volessimo esaurire tutto ciò che riguarda questi due concetti e ad essi si
riallaccia. Ma vogliamo citare almeno qualche nozione elementare per intendere
che cosa Aristotele distingua come forma e materia. Egli è ben chiaro sul fatto
che, riguardo a tutte le cose che costituiscono il mondo della nostra
esperienza, l'importante per la conoscenza è che si afferri la forma, perché è
la forma, non la materia, quella che dà l'essenziale alle cose.
Anche al tempo nostro ci sono ancora persone che hanno una giusta comprensione
per Aristotele. Vincenz Knauer, che tra il 1880 e il '90 era professore
all'Università di Vienna, illustrava di solito ai suoi studenti la differenza
tra materia e forma con un'immagine, della quale si potrà forse anche ridere, ma
che pure colpisce nel segno. Egli diceva: poniamo che un lupo, per un certo
tempo della sua vita, abbia divorato esclusivamente agnelli; ormai dovrebbe
essere costituito interamente dalla materia degli agnelli, eppure non diventerà
mai un agnello. Questo pensiero, se lo si segue nel giusto modo ci indica la
differenza tra materia e forma. È forse il lupo un lupo per via della materia?
No, la sua entità è data dalla forma, e la "forma lupo", la troviamo non solo in
quel lupo, ma in tutti i lupi. Così troviamo la forma, in quanto formuliamo un
concetto che esprime un universale, in contrapposizione a quel che i sensi
afferrano e che è sempre un particolare, un oggetto singolo. Il nostro pensiero
si muove totalmente nella sfera delle rappresentazioni aristoteliche quando
cerchiamo nel conoscere, come facevano gli scolastici, di penetrare
nell'essenzialità della forma per mezzo di una triplice divisione
dell'universale. Gli scolastici preponevano l'universale, come essenzialità
della forma, ad ogni operare e vivere della forma nel singolo oggetto: in
secondo luogo lo pensavano come compenetrante i singoli oggetti e vivente in
essi; in terzo luogo trovavano che l'anima umana, osservando gli oggetti,
suscita in sé la forma universale, nel modo conforme alle proprie possibilità.
Perciò quei filosofi distinguevano l'universale che vive nelle cose e che si
esprime nella conoscenza umana come segue: 1°) UNIVERSALIA ANTE REM,
l'essenziale della forma prima di vivere nelle cose singole; 2°) UNIVERSALIA IN
RE, le forme essenziali entro le cose stesse; 3°) UNIVERSALIA POST RE, le forme
essenziali, astratte dalle cose e sorgenti nel processo conoscitivo, come
esperienze interiori dell'anima, grazie alla reciproca relazione tra l'anima e
le cose.
Finché non si entra in questa triplice divisione, non si può arrivare a una
giusta comprensione di quel che è importante in questo campo. Infatti, si pensi
un po' di che cosa si tratta! Si tratta di comprendere che l'uomo, in quanto
vive negli "universalia post rem", ha qualcosa di soggettivo. Ma al tempo stesso
viene indicato un fatto essenziale, e cioè che il concetto che sorge nell'anima
è una "rappresentazione" di ciò che, come forme reali (entelechie), ha
sussistenza universale. E questi - gli "universalia in re" - a loro volta sono
fluiti entro le cose soltanto perché già prima delle cose esistevano come "universalia
ante rem".
L'essenzialità universale, quale esiste prima della sua realizzazione nei
singoli oggetti, va pensata come un gradino puramente spirituale dell'esistenza.
Va da sé che la supposizione di una siffatta essenzialità ("universalia ante
rem") debba apparire il risultato di un'astratta elucubrazione di pensiero a chi
riconosca come realtà solo quello che è accessibile ai sensi. Ma l'importante è
appunto avere l'esperienza animica interiore che costringa a una tale
supposizione. È quell'esperienza che nel concetto generico di "lupo" non vede
soltanto una figura dell'intelletto che abbraccia i diversi singoli lupi, ma
VEDE la realtà spirituale "lupo" che esiste al di là dei singoli esseri! Questa
realtà spirituale dà poi la possibilità di vedere la distinzione tra animale e
uomo in un senso conforme allo spirito. La specie "lupo" non viene a
realizzazione nel singolo lupo, ma nel complesso dei singoli lupi. Invece
nell'uomo vive individualmente l'elemento spirituale-animico che nell'animale si
manifesta attraverso il genere (o la specie) nella somma degli individui
[l'evidenziazione in grassetto del testo di Steiner è mia
- ndc].
Oppure, parlando aristotelicamente: nell'individuo umano la "forma" si
estrinseca direttamente nell'entità sensibile; nel regno animale invece questa
"forma" come tale, rimane nel soprasensibile e si
estrinseca solo nel corso totale dell'evoluzione che comprende tutti gli
individui della medesima "forma". L'aristotelismo ci consente di parlare, per
gli animali, di anime di gruppo (anime di specie, di genere), e per gli uomini
di anime individuali. Se si riesce a creare in sé una vita animica tale che per
essa una distinzione siffatta corrisponda a una realtà veduta, si sarà fatto un
progresso ulteriore su una via conoscitiva che l'aristotelismo e la Scolastica
avevano percorsa solo fino alla tecnica concettuale.
La scienza dello spirito antroposofica cerca di dimostrare che è possibile
riuscirvi. Per essa le "forme" non sono soltanto i risultati di una distinzione
concettuale, bensì quelli di una visione soprasensibile. Essa VEDE nelle anime
di specie degli animali, e nelle anime individuali degli uomini, esseri di
genere analogo. E VEDE questi rapporti come gli occhi vedono la realtà
fisico-sensibile. In qual modo la scienza dello spirito antroposofica persegua
questi scopi sarà accennato nel seguito di questo studio; qui importava mostrare
come nel metodo aristotelico di rappresentazione sia implicita la possibilità di
trovare concetti coi quali si può sostenere l'antroposofia.
Però, a tutto quanto troviamo in Aristotele, va connesso un altro fatto che, per
l'epoca moderna, è diventato sempre meno attraente; la necessità cioè di
adattarci a pensare in concetti netti, finemente cesellati, in concetti che
dobbiamo prima prepararci; occorre aver la pazienza di procedere di concetto in
concetto e, innanzi tutto, aver l'amore alla purezza e nitidezza di essi, così
che quando si tocca un dato concetto si sappia bene di che cosa si parla. Se ad
esempio in senso scolastico si parla della relazione del concetto con quel che
esso rappresenta, bisogna molto lavorare e passare prima attraverso lunghe
definizioni negli scritti scolastici. Bisogna sapere che cosa significa quando
si dice che il concetto è fondato FORMALITER nel soggetto, e FUNDAMENTALITER
nell'oggetto; quel che il concetto ha come vera e propria sua forma proviene dal
soggetto, e quel che ha come contenuto, proviene dall'oggetto. Questo non è che
un piccolo saggio, e davvero ben piccolo. Studiando con cura opere scolastiche,
ci si deve aprire il varco attraverso grossi volumi di definizioni, e ciò è
assai sgradevole allo scienziato d'oggi; ragion per cui egli considera gli
scolastici come pedanti, e così se la sbriga. Non sa che la vera Scolastica non
è altro che l'elaborazione a fondo dell'arte del pensiero, così che questa possa
veramente formare il fondamento per una piena comprensione della realtà.
Dicendo questo, spero che si comprenda quanto sia benefico che in seno alla
Società antroposofica emergano delle attività intese all'elaborazione
gnoseologica più rigorosa. Dobbiamo quindi considerare come di eccezionale
importanza l'attività di studio gnoseologico-teoretico svolta dal dottor Unger,
proprio qui a Stoccarda, perché non saranno certo coloro che vogliono solo
sentir narrare i fatti delle sfere superiori a far apprezzare nel mondo il
nostro movimento scientifico-spirituale nelle sue parti più profonde, ma saranno
coloro che hanno la pazienza di penetrare in un tecnica di pensiero che crea una
base reale, quasi uno scheletro per il lavoro nel mondo superiore. Così,
prendendo le mosse dall'antroposofia stessa, si tornerà a comprendere che cosa
volesse veramente la Scolastica, ridotta quasi a una caricatura tanto dai
seguaci quanto dagli avversari. Naturalmente è assai più comodo pretendere di
capire, con un paio di concetti belli e fatti, tutto quel che ci appare come
realtà superiore, anziché creare un solido fondamento nella tecnica concettuale.
Ma quali sono le conseguenze di questo procedere? Oggi si ha spesso un'assai
sgradevole impressione, quando si prendono in mano libri di filosofia. Gli
uomini non si comprendono più tra loro, quando parlano di cose superiori; non si
rendono più conto di come adoperano i concetti. Ciò non sarebbe potuto accadere
al tempo della Scolastica, poiché allora si doveva aver un'idea precisa circa i
limiti di un concetto.
Si vede dunque che effettivamente era stata trovata una via per penetrare nelle
profondità della tecnica concettuale. E se questa via fosse stata seguita più
oltre, se non ci si fosse lasciati imprigionare entro la rete kantiana della
cosa in sé e della rappresentazione che si riteneva soggettiva si sarebbero
raggiunte due cose: anzitutto si sarebbe arrivati a una teoria della conoscenza
sicura in se stessa, e in secondo luogo, e ciò è di grande importanza, i
competenti in materia non avrebbero potuto fraintendere così interamente i
grandi filosofi che lavorarono dopo Kant: per esempio, la triade Fichte,
Schelling, Hegel. Che cosa sono essi per l'uomo odierno?
Filosofi che - così si dice - hanno voluto intessere un mondo con concetti
meramente astratti. Ciò non è loro mai venuto mente (l'autore non ignora affatto
l'esistenza di studi filosofici recenti che si richiamano a Fichte, Schelling e
Hegel, e che vorrebbero orientarsi sulle concezioni di questi pensatori; è però
costretto a constatare che in queste tendenze NON VIVE, appunto, ciò che per
quei pensatori era fondamentale, cioè il loro atteggiamento di fronte a una
realtà spirituale che dev'essere SPERIMENTATA nella vita dell'anima. Il ritorno
a quel che si è estrinsecato nell'elemento logico-astratto di quei pensatori,
non consentirà di cogliere quel che operava nelle loro filosofie): ma si era
talmente irretiti nei concetti kantiani che non si fu in grado di comprendere né
filosoficamente né concretamente il più grande filosofo del mondo. Intendo
parlare di colui che ha trascorso la sua gioventù a Stoccarda: Hegel. Solo poco
a poco si diverrà maturi per comprendere quel che egli ha dato al mondo; e lo si
comprenderà solo quando si sarà nuovamente usciti dall'opprimente rete teorica
di concetti, intessuta dalla teoria della conoscenza.
E sarebbe così semplice. Basterebbe esercitare un'attività di pensiero naturale
e spassionata, liberandoci dalle abitudini mentali invalse nella letteratura
filosofica sotto l'influsso delle intorbidate correnti del kantismo. Ci dev'essere
una chiara intesa riguardo al quesito: è proprio vero che l'uomo prende le mosse
dal soggetto, in esso soggetto si costruisce la sua rappresentazione, e poi
intesse questa rappresentazione sopra l'oggetto? È veramente così? Sì, è proprio
così. Ma ne segue forse di necessità che l'uomo non possa mai penetrare nella
cosa in sé? Voglio fare un semplice paragone. Si pensi di avere un sigillo, sul
quale sia inciso il nome Müller. Ora si imprime il sigillo nella ceralacca e poi
lo si toglie. Ci si rende ben conto, nevvero, che, se quel sigillo è fatto,
poniamo, d'ottone, nulla di quell'ottone passerà nella ceralacca? Se dunque
quella ceralacca avesse conoscenza, nel senso kantiano, direbbe: io sono tutta
ceralacca, nulla dell'ottone penetra in me; dunque non c'è alcun rapporto in
base al quale io possa conoscere alcunché circa la natura di quel che qui mi
viene incontro. Ma così dicendo, si dimentica totalmente che quel che importa, e
cioè il nome di Müller sta del tutto oggettivamente come impronta nella
ceralacca, senza che in questa sia penetrato nulla dell'ottone. Finché si pensa
materialisticamente e si crede che, per stabilire relazioni, occorra che da un
oggetto all'altro scorra materia, non si cesserà di dire, anche teoreticamente:
"Io sono ceralacca, e l'altro è OTTONE IN SÉ; e poiché dell'OTTONE IN SÉ nulla
può penetrare in me, anche il nome Müller non può essere altro che un segno. Ma
la cosa in sé che stava dentro il sigillo, e che si è improntata così che io la
possa leggere, mi resta eternamente sconosciuta". Ecco come si argomenta. Se si
continua fino in fondo questo paragone, ne risulta: l'uomo è tutto ceralacca
(rappresentazione), la cosa in sé è tutta sigillo (ciò che sta fuori dalla
rappresentazione). E poiché io, come ceralacca (colui che rappresenta), posso
arrivare soltanto al confine del sigillo (la cosa in sé), così io rimango in me
stesso, e in me non passa nulla della cosa in sé.
Finché alla teoria della conoscenza si applicherà il materialismo, non si
scoprirà mai quel ch'è essenziale (vediamo da ciò che il concetto di
materialismo si deve prendere in un senso molto più esteso di quanto si fa di
solito. Chi, dalla sua FORMA MENTIS, è costretto a pensare che nulla della reale
cosa in sé possa sorgere nella sua anima per il fatto che nell'anima non può
trasportarsi la materia della cosa in sé, è materialista, anche se, ammettendo
l'esistenza dall'anima, crede di essere idealista. E Kant fu erroneamente
portato alle sue rappresentazioni dal suo nascosto materialismo. Se si
considerano queste cose nella giusta luce, si riconoscerà anche la nullità delle
asserzioni che si odono sempre ripetere ai nostri giorni, e cioè che la scienza
d'oggi ha ormai superato il materialismo della seconda metà del secolo 19°. Al
contrario, vi si è immersa tanto più dentro, in quanto non riconosce più come
tale il suo modo di rappresentazione materialistico). Resta valida la premessa:
"Noi non andiamo al di là della nostra rappresentazione, ma quel che giunge a
noi della realtà va riconosciuto come spiritualità, e non occorre che atomi
materiali passino dall'oggetto a noi. Nulla di materiale penetra nel soggetto;
eppure lo spirituale passa nel soggetto, come il nome Müller passa nella
ceralacca". Di qui deve poter prendere nuovamente le mosse una sana indagine
gnoseologica; allora si vedrà fino a che punto il materialismo moderno,
inosservatamente, abbia preso stabile dimora nei concetti della teoria della
conoscenza. Da una spassionata considerazione della cosa risulta che Kant, per
quanto strana quest'asserzione possa sembrare a prima vista, non sa
rappresentarsi una cosa in sé altro che materialmente.
Ora dobbiamo delineare ancora un'altra cosa, se vogliamo completare le nostre
considerazioni. Abbiamo detto che Aristotele ha indicato che in quanto cade nel
campo della nostra esperienza si deve necessariamente distinguere tra quel che è
forma e quel che è materia. Si può dunque dire: "Nel processo conoscitivo noi
arriviamo fino alla forma nel modo or ora descritto. Ma vi sarebbe forse anche
la possibilità di arrivare fino all'elemento materiale?" Intendiamoci bene.
Aristotele, per materiale, non intende solo la materia fisica, bensì la
sostanza, quel che, anche come elemento spirituale, sta a base della realtà.
Esiste forse la possibilità di comprendere non solo ciò che passa dall'oggetto a
noi, bensì anche di penetrare dentro le cose, d'identificarci con la materia?
Questa domanda è importante anche per la teoria della conoscenza e vi può
rispondere solo chi si è approfondito nella natura del pensiero, del PENSIERO
PURO. Ma anzitutto dobbiamo sollevarci fino a questo concetto di pensiero puro.
Secondo Aristotele, possiamo qualificare il pensiero puro come attualità. È pura
forma; e, quale si presenta a tutta prima, è vuoto di contenuto in rapporto ai
singoli oggetti immediati che stanno fuori nella realtà sensibile. Perché?
Rendiamoci chiaramente conto di come sorga il concetto puro in contrapposizione
alla percezione.
Immaginiamo di voler formare il concetto del cerchio. Possiamo farlo, ad
esempio, navigando sul mare, finché tutt'intorno non si veda che acqua. Così ci
formiamo la rappresentazione di un cerchio per mezzo della percezione. Ma c'è
pure un'altra maniera di arrivare al concetto di cerchio: se, per esempio, senza
fare nessun appello ai sensi, costruiamo nel nostro spirito la somma di tutti i
punti che sono egualmente distanti da un dato punto. Per formarci questa
costruzione che si svolge totalmente nell'intimo della vita del pensiero, non
abbiamo bisogno di fare appello ad alcunché di esteriore; questo, nel senso di
Aristotele, è assolutamente
pensiero puro, pura attualità.
Ora però entra in gioco qualcosa di speciale: questi stessi pensieri puri, che
così vengono formati, coincidono con l'esperienza. Anzi, senza di essi
l'esperienza non può nemmeno essere compresa. Si pensi: Keplero, mediante una
pura costruzione di pensiero, elabora un sistema che dimostra, ad esempio, come
i pianeti percorrano orbite ellittiche mentre il Sole si trova in uno dei due
fuochi. In seguito poi, col telescopio, si constata che l'osservazione coincide
col pensiero puro concepito prima dell'esperienza! Qui, ad ogni pensare
spregiudicato, si palesa che quanto sorge come pensiero puro non è senza
significato per la realtà, poiché coincide con essa. Uno scienziato come Keplero
illustra col suo procedere quel che l'aristotelismo ha fondato teoreticamente.
Egli afferra quel che appartiene agli "universalia post rem" e, accostandosi
alle cose, trova che questi "universalia post rem" sono stati prima posti nelle
cose come "universalia ante rem". Se dunque non si considerano gli universali
come semplici rappresentazioni soggettive, secondo una teoria errata della
conoscenza, ma si riconosce che essi si trovano oggettivamente nelle cose, vuol
dire che prima erano stati posti dalla divinità entro la forma che Aristotele
suppone stia alla base del mondo.
Si vede così che quel che a tutta prima è l'elemento più soggettivo, accertato
indipendentemente dall'esperienza, è quello appunto che conduce nel modo più
oggettivo alla realtà. Qual è la ragione per cui, prima, l'elemento soggettivo
della rappresentazione non poteva arrivare al mondo esteriore? Perché andava a
urtare contro un cosa in sé. Ma quando l'uomo costruisce un cerchio, non urta in
nessuna cosa in sé, vive nella cosa stessa, sebbene da prima solo formalmente.
La domanda che segue è questa: "Possiamo noi, in genere, da un siffatto pensare
soggettivo pervenire a una qualsiasi realtà, a qualcosa di permanente?". Come
abbiamo detto, il soggettivo è appunto costruito nel pensiero, è formale e,
rispetto all'oggettività, appare a tutta prima come qualcosa di aggiunto. Certo,
possiamo dire che in ultima analisi per un cerchio o per una sfera che stanno in
qualche parte del mondo, è indifferente che noi li pensiamo o no. Il nostro
pensiero che si aggiunge alla realtà è del tutto indifferente per il mondo
dell'esperienza che giace intorno a noi. Questo sussiste in sé,
indipendentemente dal nostro pensare. Può dunque darsi che il nostro pensiero
sia, sì, per noi qualcosa di oggettivo, ma che non riguardi affatto le cose.
Come possiamo uscire da quest'apparente contraddizione? Dov'è l'altro polo che
ora dobbiamo afferrare? Dov'è la via per generare, entro il pensiero puro, non
solo la forma, ma assieme alla forma anche la materia? Non appena troviamo un
quid che generi assieme alla forma anche la materia, possiamo attaccarci a un
punto saldo nella nostra teoria della conoscenza. Costruendo ad esempio un
cerchio ci troviamo pur sempre nel caso speciale di dire che quanto affermiamo
di quel cerchio è oggettivamente giusto, ma se sia o no applicabile alle cose,
dipende dal fatto se, quando incontriamo le cose, esse ci mostrino se portano in
sé o no le leggi da noi costruite. Quando la somma di tutte le forme si dissolve
nel pensiero puro, se non è possibile arrivare a una realtà estrinseca, partendo
dal pensiero puro stesso, deve sopravanzare quella parte che Aristotele chiama
MATERIA.
Qui Aristotele può essere integrato da Fichte. Secondo Aristotele, si può
arrivare anzitutto alla formula: "Tutto quanto ci circonda, anche quel che
appartiene a mondi invisibili, rende necessario che si contrapponga al lato
formale della realtà qualcosa di materiale". Ora, per Aristotele, il concetto di
Dio è pura attualità, è atto puro; vale a dire, è tale che in esso l'attualità,
cioè il dar forma, ha al tempo stesso la forza di produrre la sua propria
realtà, dunque di non essere qualcosa a cui sta di fronte la materia, ma
qualcosa che, nella sua pura attività, è insieme la piena realtà.
L'immagine di questa pura attualità si trova nell'uomo stesso quando, a mezzo
del pensiero puro, egli assurga al concetto dell'"io". Nell'io egli giunge a
quel che Fichte chiama TATHANDLUNG [da "Tat", "atto" e da
"Handlung", "azione", dunque significante l'atto proveniente dall'azione, o
"azione in atto" in J. G. Fichte, "Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre",
Leipzig 1794-95, tr. it. con testo originale a fronte a cura di G. Boffi,
"Fondamento dell'intera dottrina della scienza", Milano 2003, p. 139 - ndc]. Giunge nella sua interiorità a qualcosa
che, vivendo nell'attualità, produce assieme a quest'attualità la sua materia.
Quando afferriamo l'io nel pensiero puro siamo in un centro in cui il pensare
puro produce al tempo stesso la propria essenza materiale. Quando afferriamo
l'io nel pensare abbiamo un triplice io: un io puro, che appartiene agli
universali "ante rem", un io, nel quale siamo noi stessi, che appartiene agli
universali "in re", e un io che noi comprendiamo, che appartiene agli universali
"post rem". Ma qui c'è anche un fatto speciale: per quanto riguarda l'io, quando
si assurga ad afferrarlo davvero, questi tre "io" vengono a coincidere. L'io
vive in sé, in quanto produce il suo concetto puro e può vivere nel concetto
come realtà. Per l'io non è indifferente quel che il pensiero puro fa, perché il
pensiero puro è il creatore dell'io. Qui il concetto dell'elemento creatore
coincide con l'elemento materiale, e basta riconoscere che in tutti gli altri
processi conoscitivi noi urtiamo a tutta prima contro un limite, ma nell'io no;
questo lo abbracciamo nel suo essere intimo, in quanto lo afferriamo nel
pensiero puro.
Così si può dare una base teorica alla proposizione che anche nel pensiero puro
è raggiungibile un punto nel quale realtà e soggettività coincidono totalmente,
e nel quale l'uomo sperimenta la realtà. Se prende le mosse da qui, e feconda il
suo pensiero in modo che, partendo da qui, il suo pensiero torni a uscire da se
stesso, egli afferra le cose dall'interno. Esiste dunque nell'io, afferrato
mediante un puro atto di pensiero e così al tempo stesso creato, qualcosa grazie
a cui varchiamo il confine che, per tutto il resto, dev'esser posto tra forma e
materia.
Una tale gnoseologia, che procede radicalmente, diventa qualcosa che mostra
anche nel pensiero puro la via per penetrare nella realtà. Se si percorre questa
via, si finirà per riconoscere che da essa si deve entrare nell'antroposofia.
Una minima parte di filosofi è disposta ad ammettere questa via. Essi si sono
impigliati in una rete di concetti fatta da loro stessi; e non possono mai,
poiché conoscono il concetto soltanto come qualcosa di astratto, afferrare
l'unico punto dove esso è archetipicamente creativo; perciò non possono nemmeno
trovare nulla che consenta loro di congiungersi con la cosa in sé.
Per riconoscere l'io come quel quid mediante il quale è possibile comprendere
l'immergersi dell'anima umana nella piena realtà, bisogna accuratamente badare
di non cercare il vero io nella coscienza ordinaria che di esso si ha. Se,
cadendo in tal confusione, volessimo dire come il filosofo Cartesio: "Io penso,
dunque sono", verremmo a trovarci confutati dalla realtà ogni qualvolta si
dorme. Infatti nel sonno SI È, sebbene non si pensi. Il pensiero non garantisce
la realtà dell'io. Ma è altrettanto certo che SOLTANTO attraverso il pensiero
puro il vero io può essere sperimentato; il vero io emerge appunto nel pensiero
puro e solo in esso, per quanto riguarda la coscienza umana ordinaria. Chi pensa
soltanto, non arriva che all'idea dell'io; chi vive quel che nel pensiero puro
può essere vissuto, nello sperimentare l'io per mezzo del pensiero trasforma in
contenuto della propria coscienza una realtà che è allo stesso tempo forma e
materia. Ma, per la coscienza ordinaria, all'infuori di quest'io non c'è nulla
che introduca nel pensiero forma e materia al tempo stesso. Ogni altro pensiero
non è a tutta prima immagine di una realtà completa. Ma in quanto nel pensiero
puro si ha il vero io come esperienza, s'impara a conoscere che cosa sia la
piena realtà; e, partendo da questa esperienza, si può procedere oltre ad altri
campi della piena realtà.
Ciò tenta di fare l'antroposofia. Essa non si arresta alla esperienza della
coscienza ordinaria; tende a un'investigazione della realtà per mezzo di una
coscienza trasformata. Elimina, agli scopi della sua investigazione, la
coscienza ordinaria, ad eccezione dell'io sperimentato nel pensiero puro, e la
sostituisce con un'altra coscienza che opera, dispiegata in tutta la sua
ampiezza, così come la coscienza ordinaria riesce a operare solo quando
sperimenta l'io nel pensiero puro. Per raggiungere questo, l'anima deve
acquistare la forza di sottrarsi a tutte le percezioni esteriori e a tutte le
rappresentazioni che nella vita ordinaria s'insinuano nell'interiorità dell'uomo
in modo da potersi poi ridestare nella memoria. La maggior parte degli uomini
che aspira alla conoscenza della vera realtà, nega che l'anima umana possa
riuscire ad acquistare ciò a cui qui alludiamo. Lo nega senz'averlo
sperimentato, poiché tale esperienza può farsi soltanto se si praticano, entro
la vita dell'anima, procedimenti interiori che conducono all'accennata
trasformazione della coscienza. (Ho trattato esplicitamente di questi
procedimenti animici nel libro "L'Iniziazione: come si conseguono conoscenze dei
mondi superiori" e in altre mie opere). Chi di fronte a ciò prenda un
atteggiamento negativo non potrà mai penetrare nella vera realtà. Qui possiamo
parlare soltanto dei caratteri principali di questi procedimenti animici;
indicazioni più precise si trovano nell'opera menzionata e in altri miei libri.
Le forze psichiche che nella vita e nella conoscenza ordinaria si esplicano
nella percezione, e nella rappresentazione che può ridestarsi poi nella memoria,
possono esser dirette anche a sperimentare un mondo soprasensibile, spirituale.
In tal modo si giunge a sperimentare anzitutto la propria entità soprasensibile
e ad intendere perché, nella coscienza ordinaria, non possiamo mai raggiungere
quest'entità soprasensibile. (Sempre eccezion fatta per quel punto del vero io
il quale però nel suo isolamento non può essere da noi riconosciuto
direttamente). La coscienza ordinaria nasce appunto per il fatto che la
corporeità dell'uomo assorbe in certo modo la sua entità soprasensibile e agisce
in sua vece. La percezione ordinaria del mondo sensibile è quell'attività
dell'organismo umano che si compie in seguito alla trasformazione dell'entità
soprasensibile dell'uomo in entità sensibile. La rappresentazione ordinaria si
produce allo stesso modo, con la differenza che la percezione si compie nel
vicendevole rapporto dell'organismo umano col mondo esteriore, mentre la
rappresentazione si svolge nell'interiorità di quest'organismo stesso.
Ogni vera conoscenza della realtà poggia sull'intendimento di questi fatti. Per
chi cerchi la conoscenza, l'acquisto di un tale intendimento deve diventare un
lavoro interiore dell'anima. Le abitudini mentali dei nostri tempi confondono
questo lavoro interiore dell'anima con ogni sorta di nebulosi e mistici
dilettantismi. In realtà, esso ne è precisamente l'opposto, perché si svolge
nella più limpida chiarezza interiore dell'anima, escludendo tutto ciò che non è
sperimentato con analoga chiarezza e limpidezza interiore. Il rigoroso
pensiero logico è il suo modello e punto di partenza. Ma il mero pensiero logico
sta a quest'attività interiore come l'ombra sta all'oggetto che la proietta. Per
essa lo sforzo della conoscenza umana s'intensifica al punto di sperimentare non
solo pensieri astratti, ma un contenuto saturo di realtà spirituale. Sorge così
nell'anima una conoscenza della quale una coscienza non trasformata non può
farsi un'idea. Questo accrescersi della coscienza non ha nulla a che fare con
nessuna forma di vita psichica visionaria o comunque morbosa, perché queste
forme dipendono da un abbassamento della vita psichica al di sotto della sfera
in cui opera il chiaro pensiero logico; invece la ricerca antroposofica
s'innalza al di sopra di questa, nella sfera dello spirito. In quelle forme si
ha sempre la cooperazione dell'organismo corporeo, mentre l'indagine
antroposofica rafforza la vita psichica così che essa può lavorare nel campo del
soprasensibile senza l'aiuto dell'organismo fisico. Per raggiungere un tale
rafforzamento della vita psichica occorre anzitutto esercitarsi nel pensare
immaginativo. Si introducono nella nostra coscienza rappresentazioni vive ed
evidenti, quali di solito sorgono soltanto per influsso della percezione
esteriore dei sensi. In tal modo si vive con la coscienza in un'attività intensa
come quella che ordinariamente viene suscitata solo dal suono o dal colore o da
altre percezioni dei sensi, e che ora, invece, si svolge per un ricorso a forze
puramente interiori. Quest'attività è, sì, un pensare, ma non quello che, in
concetti astratti, accompagna la visione sensibile, bensì un pensare che
intensifica se stesso sino alla visione, la quale, nella vita ordinaria, si ha
soltanto nelle immagini dei sensi.
Non importa che cosa venga così pensato; quel che importa è di renderci
coscienti di una tale attività mai esercitata dalla coscienza ordinaria,
poiché così si impara a sperimentare se stessi nell'entità soprasensibile del
proprio io che, nella vita psichica ordinaria, si occulta dietro le
manifestazioni dell'organismo corporeo. Soltanto con quanto in tal modo si è
acquistato come autocoscienza trasformata, si può percepire la realtà
soprasensibile. Per potervi riuscire, occorrono ancora altri procedimenti animici riguardanti la volontà e il sentimento, mentre quelli di cui si è
parlato fin qui hanno a che fare con le trasformate facoltà di percezione e di
pensiero. Volontà e sentimento, nella vita ordinaria dell'anima, hanno relazione
con esseri e processi che stanno fuori della nostra vita psichica. Per
introdurre la realtà soprasensibile nel campo della conoscenza, l'anima deve
svolgere le stesse attività che di solito, nel sentire e volere, si dirigono
agli oggetti esteriori, ma facendo sì che ora queste attività afferrino
esclusivamente la sua propria vita interiore. Per investigare nell'ambito
soprasensibile, l'uomo, finché dura l'indagine, distoglie totalmente il volere e
il sentire dal mondo esteriore e lascia loro afferrare soltanto ciò che vive
entro l'anima dopo la trasformazione delle forze di percezione e di pensiero.
Sente e compenetra di impulsi di volontà soltanto ciò che, per mezzo del
pensiero elevato sino alla visione interiore, sperimenta come autocoscienza
trasformata. (Dati più precisi su questa trasformazione del sentimento e della
volontà si possono trovare nell'opera sopra menzionata). In tal modo avviene
però una completa metamorfosi della vita psichica. Questa sperimenta se stessa
come entità spirituale egoica, in un reale mondo soprasensibile-spirituale che
l'attornia, come, nella coscienza ordinaria, l'uomo sperimenta se stesso
nell'ambiente fisico-sensibile tramite i sensi e la facoltà di rappresentazione
ad essi connessa.
L'uomo aspira a raggiungere una conoscenza della vera realtà. Il primo passo
verso un possibile appagamento di questa sua aspirazione è il riconoscimento che
una tale conoscenza non può pervenirgli né dall'osservazione della natura, né da
una vita interiore mistica di tipo ordinario, poiché tra l'una e l'altra, come
abbiamo mostrato al principio di queste considerazioni, si spalanca un abisso
che prima di tutto va colmato, mediante la trasformazione della
coscienza qui accennata. Nessuno può giungere alla conoscenza della vera realtà
se non riconosce che per questa conoscenza i soliti mezzi conoscitivi non
bastano e che occorre prima di tutto sviluppare i mezzi necessari a questo
conoscere. L'uomo sente che in lui giace sopito molto più di quello che la sua
coscienza abbraccia nella vita e nella scienza ordinaria. Istintivamente chiede
una conoscenza che per questa coscienza è inaccessibile. Per raggiungerla, non
deve temere di trasformare le forze che nella coscienza ordinaria sono rivolte
al mondo dei sensi, al punto che possano afferrare un mondo soprasensibile.
Prima di giungere alla possibilità di afferrare la vera realtà, occorre formarci
lo stato d'animo che possa avere affinità col mondo soprasensibile. Quel che è
accessibile alla coscienza ordinaria dipende dall'organizzazione umana che, con
la morte, si disgrega: quindi è comprensibile che la conoscenza propria a questa
coscienza non possa saper nulla del lato soprasensibile eterno della
natura umana. Solo la coscienza trasformata penetra nel mondo in cui l'uomo vive
come essere soprasensibile, immune dalla decomposizione dell'organismo
sensibile.
È ancora ben lontano dalle abitudini mentali moderne l'ammettere una coscienza
capace di trasformazione e, con ciò, una vera indagine della realtà; è forse
ancora più lontano di quanto non fosse per i contemporanei di Copernico il suo
sistema fisico dell'universo. Eppure, come quel sistema, attraverso tutti gli
ostacoli, ha trovato accesso alle anime umane, così lo troverà anche la scienza
dello spirito antroposofica. Riuscirà difficile comprenderla, anche alla
filosofia contemporanea, perché questa trae le sue origini da un modo di
rappresentazione che non è riuscito a sviluppare i germi fecondi di una tecnica
concettuale spregiudicata, contenuti nell'aristotelismo. Da questo difetto, come
qui abbiamo mostrato, conseguì quello d'intessere trame artificiali di concetti,
con le quali l'uomo si chiude la via alla realtà, ridotta ad una inaccessibile
cosa in sé. Per questa sua tendenza fondamentale, la filosofia moderna deve
respingere l'antroposofia perché, per i concetti che la filosofia ha su ciò che
è scientifico, l'antroposofia non può apparirle altro che dilettantismo. Questa
accusa di dilettantismo non è certo incomprensibile per chi vede a fondo come
stanno le cose: anzi, essa gli appare in sostanza ben naturale. Qui si è voluto
mettere in evidenza l'origine di tale accusa.
Da questa trattazione potrà forse riuscire evidente che cosa dovrà
necessariamente avvenire prima che i filosofi giungano a riconoscere che
l'antroposofia non è dilettantismo. Occorre che la filosofia, col suo sistema
concettuale, lavori fino ad aprirsi il varco a una conoscenza spregiudicata dei
suoi propri fondamenti. Non è affatto vero che l'antroposofia sia in
contraddizione con una sana filosofia; è piuttosto una moderna teoria
pseudo-scientifica della conoscenza quella che contrasta coi fondamenti profondi
di una vera filosofia. Essa batte vie sbagliate, e dovrà uscirne: dopo di che,
potrà sviluppare una giusta comprensione per la concezione antroposofica del
mondo.