Perché le stelle non illuminano il mondo

(Paradosso di Olbers e soluzione di Charlier)

Da giovane avevo letto il famoso testo "Eureka" di Poe, ricordatomi dal seguente articolo di Bolognesi intitolato "L'oscurità della notte": «[...] Edgar Allan Poe s'interessò al buio della notte. Nella sua conferenza sull'universo tenuta a New York nel 1848 e poi pubblicata con l'ambizioso titolo di "Eureka", egli afferma testualmente che "se la successione delle stelle fosse infinita, lo sfondo del cielo ci apparirebbe uniformemente luminoso, poiché non vi potrebbe essere nessun punto in tutto quello sfondo in cui non esista una stella" [...]» (vedi più avanti). Ricordo di essermi chiesto allora come mai egli dubitasse dell'immensità dell'universo. Pur non sapendo alcunché di Etere o di atmosfera, quell'immensità di stelle era per me di ovvio, e che il fatto che essa non potesse essere percepita uniformemente come sfondo luminoso era causato da immensa distanza. Avvertivo come plausibile o come comune buon senso che fin dove il cielo stellato si mostra, noi lo possiamo vedere, e che là, dove invece non si mostra più, non per questo possiamo negarne l'esistenza, alla Berkeley (1).

A mio parere, il fatto di non percepirlo non escludeva di poterlo intuire, o supporre o credere, così come quando percorrendo al volante una strada possiamo intuire, supporre o credere le vetture che ancora non vediamo avvicinarsi alla nostra in senso contrario. Se non percependole, pensassimo che non esistono, e di conseguenza procedessimo a tavoletta, ciò sarebbe abbastanza rischioso. Credo che il buon senso porti a ragionare così. Faccio un altro esempio: io presumo, cioè credo, che là, dove poggio i piedi, camminando, vi sia terreno solido. Non ne ho la certezza scientifica, dato che potrebbe anche essere un'illusione ottica ciò che mi appare come strada. Con ciò però non mi precludo il cammino, né mi comporto bloccandomi, come in un campo minato. Procedo nel mio percorso secondo buon senso. Oggi, a sentire Einstein, sembra che l'intuito e il buon senso non debbano esistere più, dato che per negare l'Etere e misurare l'universo egli fu costretto ad affermare da un lato che l'universo è finito, e dall'altro che è illimitato. A me pare tuttavia che la fine totale del buon senso non sia imputabile a questo tipo di ciarlataneria di Einstein, che reputo solo il frutto grottesco di una logica priva di realtà, tipica degli schizofrenici, bensì l'einsteinismo. L'einsteiniano, cioè il sedicente scienziato odierno, è infatti un antilogico che non si rende conto di essere tale, in quanto crede - e lo fa con molto zelo - che l'universo sia finito e illimitato. Insomma CREDE BUONO E GIUSTO un concetto di CONFINE che neghi il proprio contenuto di "FINITEZZA" per manifestarsi nel suo contenuto opposto (di "INFINITEZZA" o di "illimitatezza" o di "immensità"). Buona lettura.


Nereo Villa, Castell'Arquato, 31 gennaio 2018

 

Alberto Bolognesi

L'oscurità della notte
AAO - Armenzano Astronomical Observatory

A cura di Nereo Villa


«Trecento anni fa, dai cieli sfavillanti di stelle dell'isola di Sant'Elena, l'astronomo Edmund Halley si domandò perché di notte il cielo è buio.

Dai "Principia" di Newton si ricava che un universo finito dovrebbe necessariamente precipitare dentro a se stesso "ALLA RICERCA DI UN CENTRO E LÀ FORMARE UNA GRANDE MASSA SFERICA"
[in corsivo nel testo originale - ndc]. Halley, che aveva finanziato personalmente la pubblicazione dei "Principia", condivideva quindi con Newton l'idea che l'universo dovesse essere infinito, ma si trovava poi a dover constatare, ogni notte, che le stelle "QUANDO SONO MOLTO LONTANE" [idem] non si vedono più. Questo non era in linea con le implicazioni teoriche di un universo infinito: Halley lo sapeva bene, ed in alcuni scritti sembra propendere per una diminuzione della luminosità alle grandi distanze maggiore di quanto non risulterebbe dalla legge I/r² (su posizioni affini a quelle di Halley si schiera l'astronomo Hugo Seeliger, 1849-1924, direttore dell'osservatorio di Gotha e di Monaco, il quale ha supposto che su scala cosmica la forza di attrazione e le radiazioni elettromagnetiche diminuiscano più rapidamente di quanto stabilito dalla legge dell'inverso del quadrato delle distanze).

Due anni dopo la morte di Halley (1744), un astronomo svizzero, Jean Philippe Loys de Cheseaux, provò a calcolare il contributo di luce che uno spazio infinitamente popolato di stelle apporterebbe al cielo della notte, e trovò che questo avrebbe dovuto essere ancor più luminoso di quello diurno, nel quale il Sole stesso non sarebbe praticamente distinguibile dal fondo!

Questo apocalittico trionfo della luce venne confermato a distanza di quasi un secolo dal medico ed astronomo tedesco Wilhelm Olbers (1758-1840), che, pur ignorando le conclusioni di de Cheseaux, ne dette una dimostrazione matematica pubblicata sull'Annuario Astronomico di Bode nel 1826.

Si immagini (fig. 1) un guscio sferico nel cui centro si trovi la Terra ed il cui spessore
s sia molto inferiore al raggio r.

 

Fig. 1): Il Paradosso di Olbers. Per un universo omogeneo, popolato di stelle (galassie) in un guscio sferico s1 o s2, la luminosità percepita dall'osservatore T posto nel centro è indipendente dal raggio del guscio. Supponendo che la densità sia costante, il numero di stelle (galassie) nel guscio sferico è proporzionale alla superficie di quest'ultimo. La luminosità ricevuta dall'osservatore T è direttamente proporzionale al raggio del guscio osservato.

 

Il volume del guscio è allora:

v = 4 π r² s.


Sia
N il numero di stelle per unità di volume. Il Numero totale di stelle nel volume V del guscio sarà dato allora da:

 

N=4pr²sn.
 

L'insieme di tutte le stelle possiede una luminosità totale L data da:

 

L=4 p r² sn 1
 

dove 1 è la luminosità media di una singola stella. Quindi, la luce che sulla Terra giunge dalle stelle del guscio considerato è espressa da L diviso per 4 pr², in quanto la luce emessa da ogni singola stella giunge alla distanza r affievolita dal fattore 4 pr²: sulla Terra giungerà allora la quantità di luce:


L Terra = snl.


Il raggio
r della sfera non compare più: da ogni guscio sferico riceviamo, all'incirca, la stessa quantità di luce. Se presumiamo un'infinità di gusci, il cielo dovrebbe essere ALTRETTANTO luminoso, e pur tenendo conto delle restrizioni derivanti dal fatto che le stelle si coprirebbero l'una con l'altra, si può calcolare che il contributo complessivo alla luminosità del cielo, di giorno e di notte, dovrebbe essere 50.000 volte superiore a quello del Sole, col risultato d'innalzare la temperatura terrestre di alcune migliaia di gradi.

La stridente (quanto provvidenziale) contraddizione con la realtà dei fatti dette rapida popolarità al calcolo di Olbers, che ritenne di poter individuare nelle nubi di polveri e di gas vaganti fra le stelle la ragione che ne evitava le catastrofiche conseguenze.

John Herschel (astronomo, 1792-1871, figlio di William Herchel, lo scopritore del pianeta Urano. Intraprese in Sud Africa il primo studio sistematico del cielo australe) fece notare prontamente che con tutto il tempo che è disponibile in un universo euclideo, queste nubi oscuranti avrebbero avuto modo di diventare sempre più calde e di riemettere infine tutta la luce trattenuta: come oggi ben sappiamo, infatti, la materia interstellare rimane fredda perché restituisce nell'infrarosso tutta la luce che assorbe dalle stelle; poiché a quei tempi la struttura extragalattica dell'universo non era ancora stata chiarita con sicurezza, Herschel non poteva accettare facilmente anche un numero infinito di nubi oscuranti. Se su tutta la materia assorbente (finita) arrivasse tutta la luce dei gusci (infiniti) pieni di stelle, questa dovrebbe necessariamente riscaldarsi e restituire radiazione nel visibile (il ragionamento è ritenuto valido anche se il numero delle nubi oscuranti è infinito qualora, ovviamente, si sia disposti ad attendere per un tempo infinito).

La necessità di disporre di un mezzo assolutamente trasparente non esaurisce la contraddittorietà delle condizioni fissate da Olbers: perché la luce di una sorgente posta a distanza infinita possa mai raggiungerci, è necessario concederle un tempo infinito, il che implica l'immortalità fisica degli astri, la loro perpetuità energetica, lo splendore eterno. Oppure bisogna introdurre un potenziale scalare di creazione che mantenga costante, IN OGNI TEMPO, la distribuzione uniforme delle sorgenti luminose.

Sul PARADOSSO di Olbers esistono oggi due scuole di pensiero nettamente contrapposte e che tendono la prima a conferirgli un'importanza decisiva, la seconda a relegarlo fra gli equivoci epistemologici ed i sillogismi ipotetici.

Il punto di vista convenzionale ritiene di risolvere tutta la questione affermando che il cielo è buio perché non è infinito (euclideo) come si pensava, e si va espandendo. È come se noi ci trovassimo al centro di una bolla che si gonfia alla velocità della luce, ed è questo ORIZZONTE COSMOLOGICO, oltre alla perdita di energia dei fotoni causata dalla recessione delle galassie, ad assicurare l'oscurità della notte. È vero che nel modello ad espansione il numero delle galassie e dei quasar deve aumentare per unità di volume (fig. 2) con la distanza, ma la catastrofe olbersiana viene evitata con uno stratagemma evolutivo che al di là di una crescente densità sopprime tutte le sorgenti luminose.

 

 

Fig. 2): (a e b). Le figure illustrano come un universo in espansione (a) può differire da un universo statico (b).

 

 

Ricordiamo che le premesse fondamentali di Olbers e di Cheseaux erano almeno quattro:

1) Lo spazio è euclideo (infinito);
2) Le stelle (le galassie) sono distribuite uniformemente in un mezzo che è eternamente trasparente;
3) L'universo é statico;
4) La materia é increata ed indistruttibile (cioè é sempre esistita).

Se le passiamo rapidamente in rassegna, ci rendiamo conto che nessuna delle condizioni richieste é stata verificata.

Per quel che riguarda la 1), che concerne direttamente la forma dell'universo, i cosmologi dell'espansione concordano che i dati disponibili non autorizzano ancora alcuna decisione; la 2) é oggetto di vivaci discussioni perché la diversità qualitativa delle galassie continua ad alimentare riserve sulla presunta uniformità dell'universo. La 3) dipende ovviamente dalla correttezza dell'interpretazione dello spostamento spettrale, e la 4) non trova riscontro né nella teoria del big bang né nello stato STAZIONARIO.

Così non é un gran risultato se alla fine i cosmologi rimarcano che solo l'espansione non crea problemi all'oscurità notturna. Se, come vedremo, l'universo fosse davvero statico come quello immaginato da Olbers e de Cheseaux, allora proprio l'abbassamento di frequenza che osserviamo nella luce delle galassie lontane fornirebbe per altra via la soluzione del problema.

Qualunque sia il credito che si é disposti ad assegnargli, non c'è dubbio che il problema dell'oscurità della notte é in relazione con le ambiguità insite nelle grandezze infinite.

Georg Cantor (matematico, Pietroburgo 1845 - Halle 1918) ha dato un grande contributo al mistero kantiano: le sue analisi degli insiemi infiniti rivelano aspetti così sconcertanti da incidere perfino sui cieli di Olbers e de Cheseaux. Grazie a Cantor, oggi sappiamo che una quantità infinità può ben essere eguale a una sua parte ma risultare maggiore o minore di altre; e che un principio logico evidentissimo come IL TUTTO È MAGGIORE DELLA PARTE non può più essere accettato senza riserve. Possiamo così invitare il lettore incline alla matematica a ospitare nel calcolo di Olbers la presenza di nubi intergalattiche (o, se preferisce, di materia oscura o di buchi neri), la cui quantità progredisca con il cubo della distanza; e inoltre di spiegarci nel dettaglio come un fotone staccatosi dalla superficie di una stella posta a distanza infinita ha potuto raggiungere, QUI, ORA, la nostra retina, o potrà farlo DOMANI, trasformando le frazioni infinite in quantità finite. 

Quanto tempo impiegherebbe un numero infinito di nubi di gas e polveri a riscaldarsi ed a diventare luminose come le stelle? E ancora: la maggior parte della luce necessaria a riempire tutto il cielo dovrebbe provenire da distanze inimmaginabili, qualcosa come
1017 anni-luce, oppure, come calcola Bondi, UN MILIONE DI MILIARDI DI MILIONI DI ANNI LUCE (miliardo più, miliardo meno) (Hermann Bondi, cosmologo inglese, uno dei fondatori, assieme a Thomas Gold e Fred Hoyle della Teoria dello stato stazionario). Tenendo conto della durata media delle stelle, quante stelle dovrebbe riprodurre l'universo per mantenere invariato il flusso luminoso ipotizzato dal Dr. Olbers? E come potrebbe mantenersi così straordinariamente TRASPARENTE?

La confutazione rigorosamente matematica del paradosso é stata data dallo svedese Karl Charlier, esperto di statistica stellare, intorno al 1920. Egli ha avanzato l'ipotesi che l'universo si organizzi in strutture fisiche nelle quali i sistemi di ordine inferiore si uniscono per formare sistemi di ordine superiore: una gerarchia innegabile se si pensa agli atomi, alle molecole, a noi stessi, e più in là ai pianeti, alle stelle, agli ammassi ed ai superammassi di galassie,... Questa tendenza della natura a mostrarsi sotto forma di aggregazioni fisiche sempre più generali (a sfuggirci per gradi) era già stata descritta alla fine del Settecento dal grande fisico e filosofo Johan Lambert. Charlier ha potuto dimostrare facilmente che se si prendono in considerazione strutture crescenti in modo che le distanze fra i diversi ordini aumentino con il numero dell'ordine (fig. 3), non c'è niente che possa minacciare l'oscurità della notte. Sono state fatte alcune obiezioni di carattere osservativo alla confutazione di Charlier (il valore del rapporto medio fra le distanze che separano le galassie e le loro dimensioni è inferiore al valore dell'analogo rapporto per le stelle, che rappresenta nell'ipotesi un'aggregazione di ordine inferiore), ma in sostanza il ragionamento è ineccepibile e consente la teorizzazione di un modello statico infinito senza che si producano dei campi infinitamente grandi.

 

 


Fig. 3): Sistemi di ordini inferiori che si aggregano con

ordini superiori di crescente distanza (Soluzione

del paradosso di Olbers proposta da K. Charlier).

 

 

Questo avrebbe alleviato non poco le perplessità di Halley e Newton (e forse anche quelle dello stesso Keplero) intorno alla natura finita o infinita dell'universo e delle sorgenti luminose.

Ma anche il geniale scrittore Edgar Allan Poe s'interessò al buio della notte. Nella sua conferenza sull'universo tenuta a New York nel 1848 e poi pubblicata con l'ambizioso titolo di "Eureka", egli afferma testualmente che
"... se la successione delle stelle fosse infinita, lo sfondo del cielo ci apparirebbe uniformemente luminoso, poiché non vi potrebbe essere nessun punto in tutto quello sfondo in cui non esistesse una stella...". Dopo aver fissato efficacemente la questione, Poe dà una sorprendente anticipazione dell'ipotesi di Charlier: "... Percepiamo l'isolamento del nostro universo, la solitudine di tutto quello che afferriamo con i sensi. Sappiamo che esiste un ammasso degli ammassi, e che probabilmente questo ammasso degli ammassi non è che una successione interminabile di ammassi degli ammassi o di universi più o meno simili..." in cui la distanza progredisce in tal modo "che la diffusione della luce è tale da non impressionare le nostre retine..." (!). E aggiunge fascinosamente: "... Forse non esiste affatto un'emanazione simile alla luce in quei mondi indicibilmente lontani...".

L'impossibilità di definire all'infinito le condizioni di un universo infinito incombe da sempre sulla cosmologia. Sebbene la meccanica quantistica abbia drammaticamente ridimensionato le aspirazioni di totale determinazione delle leggi fisiche, l'ipotesi di una gerarchia di ordini di grandezza che procede dal microcosmo al macrocosmo consente di ritenere numerabili, se pur elevatissime, tutte le forze che agiscono su un punto, o su più punti del medesimo ordine.

Liberando il cielo dalla catastrofe olbersiana, e risparmiando ai singoli corpi dell'universo l'atroce risucchio gravitazionale prodotto da masse infinite (non considerato da Olbers né da Cheseaux), l'idea di Charlier ci consegna anche la gradita prospettiva di universi a notte buia, statici e finiti.

Ciò consente una più soddisfacente formulazione del principio di Mach, per il quale le leggi locali sono determinate dalla loro collocazione rispetto a tutto il resto della materia esistente (interagente) nell'universo finito, e induce inoltre a un'inevitabile riflessione sulla natura del redshift nell'ambito della metrica statica. Ne diamo solo un cenno, essendo queste considerazioni l'oggetto di uno studio che l'autore del presente articolo ha inviato al Max Planck Institut fur Astrophisik di Monaco di Baviera.

È del tutto ovvio, intanto, che in un universo statico lo spostamento spettrale esclude l'interpretazione Doppler. Ovvio, ma non terribilmente ovvio, perché in questo caso è proprio il modello di un universo assunto per ipotesi a determinare le caratteristiche. L'effetto di Hubble esprimerebbe allora una relazione generica fra la scala delle magnitudini ed il redshift, e non necessariamente un legame del redshift con la distanza. Sull'intensità luminosa delle sorgenti graverebbe quindi, oltre la legge dell'inverso del quadrato delle distanze, un duplice ulteriore effetto di smorzamento.

Ciò implica l'esistenza di fenomeni di natura ottica in grado di operare progressivamente sugli oggetti deboli e puntiformi. Senza dubbio, nel lungo viaggio che le porta fino a noi, le sorgenti luminose devono subire qualche effetto di assorbimento e di diffusione: ciò tuttavia non chiama obbligatoriamente in causa la distanza, ma il percorso dell'onda luminosa. Questo comporta che oggetti più vicini ma collocati dietro zone meno trasparenti, potrebbero presentare spostamenti verso il rosso più marcati di altre sorgenti più remote e, contemporaneamente, che oggetti a noi spazialmente più lontani hanno maggiori probabilità di presentare redshift elevati. Il risultato è una generale perdita di attendibilità delle misure effettuate e un drammatico inasprimento nella distinzione fra sorgenti deboli e sorgenti lontane. Resterebbe insomma un rozzo incremento dello spostamento verso il rosso col crescere della magnitudine.

Dai tempi di Olbers, per la verità, nessuno pretende più che l'universo sia così CRISTALLINO da non influire minimamente sulla propagazione di onde luminose che giungono anche da distanze di miliardi di anni luce.

L'ipotesi di un mezzo perfettamente trasparente è guardata con crescente scetticismo persino dai cosmologi dell'espansione, che hanno assoluto bisogno di reperire grandi quantità di MATERIA OSCURA per far quadrare gli eccessi di redshift all'interno degli ammassi di galassie.

Ma attenzione! Qualsiasi scostamento dalla legge dell'inverso del quadrato rappresenta una minaccia mortale per la proporzionalità che dovrebbe legare il redshift alla distanza. Può essere ozioso ricordare che lo spostamento spettrale viene identificato esclusivamente con la velocità di recessione e che per le grandi distanze questa proporzionalità è desunta dalla luminosità APPARENTE: ciò significa però che qualsiasi ulteriore diminuzione di intensità luminosa altererebbe in maniera decisiva tutte le stime di magnitudini accettate da generazioni, A MENO DI NON POSTULARE UN EQUIVALENTE EFFETTO DI SPOSTAMENTO VERSO IL ROSSO, IN QUESTO CASO UN INCREMENTO DI VELOCITÀ APPARENTE, IN MODO CHE LE DUE DEVIAZIONI SI COMPENSASSERO ESATTAMENTE. Sarebbe davvero il colmo che per salvare la legge di Hubble la natura fosse disposta a fare imbrogli del genere...

Le sorprese dei modelli statici non sono però molto entusiasmanti: la più recente ricerca astronomica (Halton Arp) ha evidenziato che esiste anche un redshift TOTALMENTE INTRINSECO (2), determinato da condizioni peculiari della materia, che agisce sia sui quasar che sulle galassie.

 

Si tratta cioè di far posto ad un meccanismo in grado di agire su un intero insieme di stelle, gas e polveri, e poi di sommarlo agli altri effetti che sono in grado di spostare le righe, col risultato di rendere impossibile una lettura univoca del fenomeno redshift (uno spostamento non cinematico verso l'infrarosso non comporta necessariamente la scomparsa della sorgente luminosa perché al suo posto comparirebbe quella parte di radiazione che cade nell'ultravioletto. Ciò, tuttavia, avrebbe gli stessi effetti stravolgenti sulle magnitudini assolute a cui abbiamo accennato).

Così la contropartita è la definitiva riacquisizione di una metrica statica, l'automatica aggregazione dei quasar alle galassie, e la perdita di ogni connotato COSMOGONICO da parte della radiazione di fondo
(3). Vale la pena di ricordare che l'universo più rigorosamente vicino ai fondamenti della Relatività generale è ipersferico, statico e finito; e che fu elaborato dallo stesso Einstein a coronamento della sua teoria della gravitazione.

 

Si tratta del solo modello teorico in grado di fornire un legame preciso fra la quantità di materia e le dimensioni dello spazio, ma che venne abbandonato dai cosmologi non appena lo spostamento verso il rosso delle galassie fu fatto risalire all'effetto Doppler.

In questo universo la materia e l'energia implicano uno spazio chiuso, ipersferico e omogeneo, e quindi una densità media che, salvo irregolarità locali, è dovunque costante. La geometria dello spazio curvo non consente una rappresentazione stereografica delle sue proprietà: qui si può dire brevemente che esse sono equiparabili a quelle di una superficie sferica (tecnicamente: una VARIETÀ RIEMANNIANA (Bernhard Riemann, matematico, 1826-1866. Cfr.: "Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria", da Relatività, A. Einstein, Boringhieri, 1967) nella quale non esistono linee rette e dove la luce vi percorre delle GEODETICHE analoghe ai cerchi massimi della sfera: un impulso luminoso o energetico può quindi fare il giro dell'universo senza mai uscirne e restare IN CORSA
indefinitamente, conseguenza questa che sembra riesumare i fantasmi di Olbers, perché, se la luce di ogni galassia può giungerci più volte, e per giunta da direzioni opposte, la sua intensità dovrebbe tendere all'infinito. Se però consideriamo una circonferenza presunta di 200 miliardi di anni luce e una vita a termine delle sorgenti luminose (cioè un avvicendamento continuo di galassie), solo un mezzo completamente vuoto potrebbe assicurare la trasparenza assoluta: nell'universo chiuso di Einstein le galassie sorgono, decadono e ricompaiono proprio a causa dell'interazione a cui eternamente pervengono e le nubi di Olbers si moltiplicano.

Ma c'è uno stimolo finale alla smitizzazione del paradosso ed al luogo comune che solo l'espansione dello spazio è in grado di evitarlo.
 

 

Fig. 2): (a e b). Le figure illustrano come un universo in espansione (a) può differire da un universo statico (b).

 

Se si osserva ancora la fig. 2 (↑), risulta evidente che per riprodurre nella realtà la progressione del numero di galassie (e quasar) per unità di volume, prevista nell'universo in espansione, la FUNZIONE DI LUMINOSITÀ dovrebbe essere rapidissima. In altri termini, a una data distanza, cioè a uno dato spostamento verso il rosso, il numero degli oggetti dovrebbe aumentare vertiginosamente al diminuire della luminosità, e condurci direttamente al momento iniziale, alla sfera di fuoco, al big bang, che dovremmo poter osservare in
differita come un fondo luminoso del cielo.

A stento si potrebbe immaginare una smentita osservativa più netta di quella che osserviamo rispetto alla condizione cosmologica...

In conclusione, non sembra che dalla sola oscurità della notte si possa ricavare l'informazione cruciale sulla struttura cosmica. L'infinito pare piuttosto sfuggirci per gradi, e le stelle fisse non risplendono in eterno. Al di là dell'ultimo orizzonte, anche la stagione delle galassie potrebbe aver termine, e la trasparenza dell'universo sprofonda nella nebbia di un Erebo sospeso fra le incertezze del passato e quelle del futuro.

Certo non è facile adattarsi all'idea che il residuo luminoso di un oggetto che non esiste più possa raggiungerci, superarci e perfino distanziarci lungo quella stessa linea che rappresenta il nostro futuro ☺: tra pochi minuti la luce che adesso cade nel fuoco dei nostri telescopi doppierà i satelliti di Marte e all'alba di DOMANI sfreccerà irraggiungibile al di là di Plutone. Ma fino a quando? Nonostante che le ombre del passato, nell'universo, possano cavalcare a lungo la china del futuro, verrà il tempo in cui quella luce non potrà più essere alimentata, quella stessa luce che Olbers e de Cheseaux vedevano piovere, ininterrotta, da tutte le direzioni, quella luce immortale che solo rischiara le dimore degli Dei.

Halton Arp dice che se l'universo dispone di un tempo illimitato, allora è possibile che la materia sperimenti ogni possibilità ("From what I see I would guess things are always forming, and changing and disappearing and reappearing. But every thing seems to be in communication with every thing else. Since there seems to be so much time available it is possible matter might experience every possibility" (4), H. Arp, comunicazione privata).

 

Ma su questo piccolo pianeta? Perché la natura si cimenta nella produzione di organismi così fragili e transitori, eppure tanto cocciuti e diffidenti da dubitare non solo dell'oscurità del cielo, ma dell'accidentalità di un universo come questo? Perché, in ogni momento, l'avventura umana è già stata scritta all'interno delle pareti gassose del Sole, in funzione dell'energia che sarà ancora in grado di fornirci?

Seppur paludato con la migliore matematica, questo mito DELL'IMPROBABILE E DELL'ECCEZIONALITÀ ricompare puntualmente in cosmologia, dalle ceneri miracolose del big bang della quinta o della centesima generazione, o come puro atto creativo, nella teoria dello stato stazionario, quasi che il rimpianto di potenzialità perdute pesasse a tal punto sulle sue equazioni da indurlo continuamente a ritentare, a concedere nuove occasioni a tutti».

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(1) George Berkeley, secondo il cui modo di vedere, dell'oggetto percepibile ai sensi non resta alcunché, se si toglie il suo essere percepito [ndc].

(2) Redshift intrinseco: redshift non dovuto alla velocità di recessione (dal Glossario di Halton Arp in "Seeing red. L'universo non si espande. Redshift, cosmologia e scienza accademica", p. 377, Ed. Jaka Book, Milano 2009) [ndc].

(3) L'opinione diffusa oggi secondo cui la cosiddetta "radiazione di fondo" abbia riempito l'universo in seguito al mitico big-bang primordiale rientra in una teoria che, non lo si dimentichi, ha origine e plausibilità solamente in ambito relativistico. Potrebbe invece costituire, conformemente con la teoria dell'Etere, nient'altro che "l'oscillazione di fondo" di questo soprasensibile mezzo (l'Etere, appunto), inteso come residuo di tutte le "vibrazioni" che arrivano ormai smorzate dalle parti più lontane dell'universo. Si potrebbe cioè esaminare la questione big-bang, fornendo un'interpretazione del redshift sperimentale che ne è alla base come dovuto invece ad un fenomeno di assorbimento dell'energia della radiazione luminosa da parte del mezzo (cioè dell'etere). Pochi sanno che perfino lo stesso Hubble, il cosiddetto "scopritore" della legge di espansione dell'universo, era in realtà molto restio a considerare corretta l'interpretazione ormai ufficiale del redshift come conseguenza di un effetto Doppler, dato che in tale considerazione le discrepanze possono essere eliminate solo attraverso un'interpretazione forzosa dei dati. E ciò fornisce così un altro di quegli esempi, ai quali accenna G. Sermonti (in "La luna nel bosco", Ed. Rusconi, 1985, p. 13) di una "prova", ritenuta "cruciale" per la validità di una teoria, che non è invece ritenuta tale dal suo stesso scopritore! Inoltre un premio Nobel come W. Nernst, pur conoscendo perfettamente ormai le interpretazioni relativistiche (1937), propose lo stesso tipo di spiegazione poggiante sull'etere, giungendo anche a prevedere l'esistenza della radiazione cosmica di fondo, e dichiarando la teoria dell'espansione "ben poco attendibile", rispetto alla teoria alternativa di un universo stazionario, "coerente e fisicamente semplice", e "non in contrasto con nessun tipo di esperienza". Quanto alla relatività poi, Nernst la ignora, considerandola argomentazione del tutto irrilevante, e meritandosi così, in un necrologio scritto da Einstein in persona, la seguente opinione: "Fino a che non entrò in gioco la sua debolezza egocentrica, mostrò un'obiettività raramente riscontrabile, un senso infallibile degli aspetti essenziali, etc.". Come dire: "Birichino, sei stato un bel bastardo considerando irrilevante la mia creatura!". Va poi anche ricordato che Dingle nel suo "Science at the crossroads" (Martin Brian & Ò Keefe, Londra, 1972) scrisse a proposito dell'interpretazione del redshift come di un effetto Doppler che: "benché sia l'universale convinzione, è una speculazione delle più azzardate" (p. 217)! Probabilmente ignorava che si trattasse anche dell'opinione di uno scienziato come W. Nernst. La mitologia materialistica del big bang ha origine e plausibilità solamente in ambito relativistico: come il tossicodipendente è un alterato mentale disposto a rubare, a vendersi alla pornografia, al crimine, ecc., per mantenere il suo vizio, così il drogato di materialismo è un alterato mentale disposto a mantenere i suoi studi facendoli pagare ai suoi simili. Per rendersene conto ci si informi, ad es., sulle spese fatte per la mega costruzione del Large Hadron Collider, finalizzato a scoprire scientificamente come è nata la vita nell'universo. Una volta scoperto il "bosone", poi si scopre un altro concetto privo di contenuto, e poi un'altro ancora, all'infinito, semplicemente a discapito delle tasche di tutti, e a beneficio di quelle di pochi! [ndc].

(4) "Da quello che vedo immagino che le cose siano sempre in formazione e cambino, spariscano e riappaiano. Ma ogni cosa sembra essere in comunicazione con ogni altra. Siccome sembra esserci tanto tempo disponibile è possibile che la materia possa provare (subire) ogni possibilità" [ndc].