LE TESTE DI TALLERO
CHE SACCHEGGIANO ANCORA
LA NOSTRA ECONOMIA
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Grazie al tallero di Immanuel Kant (1724-1804) viviamo ancora un
oscurantismo in cui il denaro, anziché essere oggetto dell'economia, cioè uno
strumento, è qualcosa di autonomo che, comportandosi come se ne fosse il
soggetto, rende oggetto e strumento l'uomo, il quale poi, credendosi molto
intelligente nell'uso della "ragione pratica" riveduta e corretta da Kant,
schiavizza se stesso mediante tasse su tasse e debiti che non esistono, ma
confezionati come se esistessero come "possibilità" (secondo "imperativi
categorici" del "dover essere", anch'esse parole kantiane).
L'etimologia di "debito" proviene dal latino "debeo" che significa "io devo". Un
debito però è qualcosa di reale se in qualche modo lo si contrae con qualcuno,
non se lo si pensa astrattamente come possibile.
Questa nostra economia, in cui viviamo tutti come in una bolgia infernale dove
comanda il dio quattrino, potrebbe essere detta "economia del tallero".
Nel nostro quotidiano capita forse spesso, per un po' di millanteria, di
affermare che pensare sia facile.
Così però non è.
Perché se il pensare fosse così facile non si sarebbero fatti tanti errori
madornali nel campo del pensiero. Ed oggi siamo ancora impantanati in un
pensiero sbagliato sulla moneta espresso da Kant.
Da un lato Kant affermava: "Dovetti dunque togliere la conoscenza per fare posto
alla fede" (Kant, prefazione alla 2ª edizione della sua "Critica della ragion
pura"). Da un altro lato voleva togliere di mezzo la cosiddetta "prova
ontologica dell'esistenza di Dio", la quale proveniva anch'essa dall'epoca del
nominalismo, secondo il quale i concetti universali non avevano consistenza:
erano solo nomi, rappresentazioni fasulle. Per "fare posto alla fede" sarebbe
bastato sperimentare il vangelo di Giovanni, là dove si afferma che Dio non è
visibile sensibilmente ma solo sopra-sensibilmente, mediante occhi spirituali,
cioè mediante intuizione dell'io: "Nessuno ha mai visto Dio; l'unigenito Dio,
che è nel seno del Padre, è quello che l'ha fatto conoscere" (Gv 1,18). Ma Kant sacrificò
di fatto l'intuizione sull'altare della sua… enoteca,
come un sacerdote dell'"ignorabimus": anziché smettere di bere (sacrificando
piuttosto lo spirito del vino materiale al proprio io spirituale come cosa in sé
sperimentabile) preferì dimostrare l'indimostrabile, e cioè l'uguaglianza fra
una moneta solo immaginata come possibile, ed una moneta reale.
Dico questo non per difendere la prova ontologica di Dio, dato che
essa non può stare in piedi senza l'io, o l'elemento immateriale, che Giovanni
chiama "l'unigenito Dio" del conoscere sovra-sensibile (io non sono credente in
un dio che crea il cosmo dal nulla; il cosmo è sempre stato ed è sempre stato
ordine celeste che si manifesta dall'invisibile al visibile: da sempre e per
sempre), così come la preghiera del "Padre Nostro" non avrebbe senso senza la
santificazione del Nome, senza la quale siamo nel nominalismo astratto di "Iavé",
"Geova", "Allah", "Eloim", "Al", "Rama", "Krishna", "Pinco Pallino", ecc.
Dico questo perché è comico, ops, tragicomico, dato che il modo in cui Kant tira in
ballo il suo tallero è demenziale (esattamente come è demenziale la relatività
di Einstein secondo la quale anche se hai due mele e ne mangi una non è detto
che resti con una sola mela in quanto 2-1=1, e con questi superman perfino la
matematica diventa un'opinione), soprattutto perché da più di due secoli tale
melodramma occupa la zona più arcaica della materia grigia di tutte le teste di…
tallero: banchieri, keinesiani, statalisti, legulei, guerrafondai, ecc., detta
in fisiologia "cervello rettiliano".
In sintesi, la prova ontologica dell'esistenza di Dio dice: se ammetto
l'esistenza di un Dio, questo dev'essere l'essere più perfetto. Se è l'essere
più perfetto, non deve mancargli l'esistenza, perché altrimenti sarebbe in
deficit di esistenza e quindi sarebbe tutt'altro che perfetto. Quindi si deve
per forza di cose pensare l'essere più perfetto come esistente. Dunque pensando
Dio come l'essere più perfetto posso pensarlo solo come esistente. Vale a dire:
dal concetto stesso si può dedurre che in base alla prova ontologica
dell'esistenza di Dio, Dio esiste. Kant volle confutare questa prova, in quanto
intendeva dimostrare che da un "concetto" non è possibile dedurre l'esistenza di
qualcosa; e a questo proposito coniò la più grande stupidaggine di tutti i
tempi, e cioè che cento talleri veri non sarebbero né più né meno di cento
talleri possibili, e che pertanto la realtà dei cento talleri possibili non
sarebbe stata meno reale di quelli esistenti.
La cosa è talmente demenziale che fu accolta da tutti come buona e giusta,
specialmente dai banchieri e dai cattolici, dato che, con quella trovata, Kant
poteva "togliere la conoscenza per fare posto alla fede" (Kant, prefazione alla
2ª edizione della sua "Critica della ragion pura"), e conquistarsi tutti, dai
cattolici ai protestanti, e dai banchieri di Stato agli statalisti. Infatti in
tal modo Kant ridusse la sua filosofia ad un formalismo assoluto che stabilisce
dogmaticamente la priorità della fede sulla ragione.
Il suo sragionamento è il seguente. Se un tallero vale trecento pfennige, per
cento talleri possibili occorre calcolare trecento pfennige per cento,
esattamente come avviene per cento talleri reali, dato che anche per cento
talleri reali si calcola il valore di trecento pfennige per cento! Cento talleri
possibili hanno dunque in sé tanto valore quanto cento talleri veri; né più, né
meno.
Dunque per Kant non vi è alcuna differenza fra cento talleri reali o cento
talleri pensati… A questo punto salta fuori Paperino e dice: "Bel colpo!"!
Qui vi è solo logica astratta, senza alcuna connessione con la vita concreta,
cioè non vi è logica di realtà. Se vai a comprare il pane con talleri pensati
te ne accorgi...
Insomma, è certamente ragionevole affermare che dal mero concetto di un essere
sommamente perfetto non è consentito dedurre l'esistenza di quell'essere solo in
base all'astrazione secondo la quale il mero pensiero di un Dio possibile
avrebbe le stesse qualità di un Dio reale.
Però dopo secoli di ingarbugliamenti nella "cosa in sé" irraggiungibile di Kant
e di relativi giochetti truffaldini sulla questione dei cento talleri possibili
e dei cento talleri reali, o meglio della moneta nominale stampata dal nulla,
rispetto a quella guadagnata col sudore della fronte, non sarebbe ora di
finirla?
Nella nostra vita pratica: possiamo kantianamente dire a noi stessi che cento
talleri possibili contengano quanto cento talleri reali? No. Nella vita concreta possiamo dire che cento talleri reali contengono precisamente
cento talleri IN PIÙ di cento talleri possibili, perché i cento talleri
possibili, in quanto possibili, NON sono reali: non esistono. NON CI SONO.
Dovrebbe essere ben chiaro: da una parte il pensiero di cento talleri possibili,
e dall'altra cento talleri reali; è una bella differenza! Da un lato della
bilancia non compare neanche un pfennige. Dall'altro: cento talleri.
Si metta pure l'euro al posto del
tallero, ed è chiaro che sono proprio i cento
euro reali a valere nella nostra vita, ovviamente se i fumi dell'alcool non
annebbiano questa chiarezza.
Ma tutta la questione ha un aspetto ancora più profondo. Si ponga ancora il
quesito: in cosa consiste la differenza fra cento euro possibili e cento euro
reali? Per chi può averli, vi è indubbiamente una seria differenza fra quei
cento euro possibili e quei cento euro reali. Se infatti si immagina di avere
bisogno di cento euro e che qualcuno ci offra la scelta fra cento euro possibili
e cento euro reali, bisogna davvero essere stupidi per non scegliere quelli
reali e preferire la scelta di quelli meramente possibili. Se ci è veramente
possibile averli, la differenza sembra avere un'importanza.
Ma supponiamo di trovarci nel caso di non poter realmente avere i cento
talleri, allora può darsi che sia per noi assolutamente indifferente, se
qualcuno non ci da' i cento talleri possibili o i cento talleri reali.
Se non ci è dato di poterli avere, cento talleri reali valgono proprio quanto
cento talleri possibili. Ma tutto ciò ha un significato. E il significato è
questo: che nel modo in cui Kant ha parlato di Dio, era possibile parlare
soltanto in un'epoca in cui, mediante esperienza dell'attività interiore umana,
non era più possibile avere in sé Dio (1). Dunque quando Dio non è più
accessibile come una realtà, il concetto del Dio possibile e il concetto del Dio
reale si equivalgono, così come si equivalgono cento euro reali e cento euro
possibili quando non si possono avere.
Se per l'attività interiore dell'uomo, detta "anima", non vi è una via che
conduca al Dio reale, di certo non vi condurrà neppure alcun ragionamento svolto
nello stile di Kant.
Da questo si vede che tutta la questione, al di là della sua tragicomicità, ha
anche un aspetto profondo. Ho voluto parlarne solo per chiarire tramite essa,
che quando si tratta del "pensare" occorre spingere l'indagine il più profondo
possibile. Mastodontici errori di pensiero s'insinuano infatti e si propagano
attraverso le menti più illuminate, così che per lungo tempo non si scorge in
cosa consista la falla del pensiero, come, per es., nel caso di Kant per i cento
talleri possibili e i cento talleri reali. In merito al pensare occorre sempre
tener conto della situazione in cui esso è concepito.
Dalla natura del pensare universale
(cfr.:
https://plus.google.com/u/0/+NereoVilla/posts/6vyL9R32egV), e dall'esistenza di un errore di pensiero come quello di Kant
qui esposto, si può dunque comprendere che le
vie del pensare non si possono esaminare giornalisticamente o semplicisticamente
in superficie senza un approfondimento delle cose. Perché ragionando per slogan
nello stile odierno dei politici e/o dei banchieri pigliatutto, si può arrivare solo ad aggiungere
errori ad altri, che devono ancora essere visti come tali.
Per esempio è un mastodontico errore tassare
il sudore della fronte, cioè il reddito da lavoro: la cosiddetta "tassa
reddituale", anche se concepita in modo progressivo (chi più guadagna più paga)
è un'aberrazione anti-evolutiva. Se proprio si vuole tassare bisognerebbe
tassare le
uscite, non
le entrate, e tanto meno sia le entrate che le uscite, come avviene
oggi.
NOTE
(1) L'epoca di Kant (1724-1804) o delle massime astrazioni, è quella che diede i
natali anche a Luigi XVI (1754-1793), a sua moglie Maria Teresa (1755-1793), a
Maximilien François Isidore Robespierre, e Georges-Jacques Danton (1759-1794),
personaggi che finiranno poi tutti ghigliottinati alla fine della rivoluzione
francese. Era l'epoca in cui filosofi, scrittori e giornalisti preparavano gli
animi degli intellettuali ad organizzare le rivoluzioni o le guerre. Di fatto,
in quegli anni il giornale "Eudaemonia" del 1795, recensendo la seconda edizione
di un libro scritto dall'imitatore di Kant Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) e
intitolato "Beitrag zur Berichtigung der Urteile über die Französische
Revolution" ("Contributi destinati a rettificare il giudizio del pubblico sulla
Rivoluzione francese"), aveva chiaramente paragonato Fichte a Robespierre,
definendolo "patriarca dei sanculotti tedeschi" e "vangelo dei decapitatori", e
lo aveva presentato come il difensore teorico, in area tedesca, della
ghigliottina francese! Se si cercano nel web i rapporti fra Fichte, Kant e la "Todesstrafe"
("pena di morte") si trovano tracce dell'ambiguità di entrambi in merito alla
pena capitale. Ambiguità che perdura fino ad oggi, dato che i kantiani odierni
e/o i sostenitori del comunismo giuridico di Fichte arrivano perfino a
manipolare la storia affermando che Fichte era contrario alla pena di morte. Il
clima di ipocrisia che si respirava in quell'epoca è infatti molto simile
all'attuale, dato che nell'art. 2267 dell'odierna dottrina cattolica ancora non
si esclude la pena di morte. In effetti nel 1797, Fichte aveva respinto la
dottrina penale kantiana ma solo "nella misura in cui" Kant la presentava "non
come mezzo, ma come fine", fondandola "in un imperscrutabile imperativo
categorico" (J. Gottlieb Fichte, "Fondamento del diritto naturale secondo i
princìpi della dottrina della scienza" a cura di L. Fonnesu, Bari, Laterza 1994,
pp. 229, 245 e sgg.). Quindi la respinse ma solo per riproporla con altra veste
formale, mostrandosi al pubblico come il perfezionatore di Kant, e facendosi
passare come suo discepolo! Fichte giustificava la pena di morte non come
kantiano imperativo categorico ma come sicurezza di Stato: "La pena è mezzo per
il fine ultimo dello Stato - la sicurezza pubblica - e l'unico scopo che con
essa ci si pone è impedire la trasgressione tramite la sua minaccia" (ibid., p.
229). Il massimo dell'ipocrisia di Fichte fu raggiunto con le seguenti sue
parole: "Se lo Stato uccide il criminale, non lo fa come Stato, ma come forza
fisica più grande, come mera forza naturale [...]. La morte del condannato non è
affatto una pena, ma soltanto una misura di sicurezza" (ibid. p. 243). Ciò ci
da' l'intera teoria della pena di morte: "lo Stato come tale, come giudice, non
uccide; esso, semplicemente dichiara nullo il contratto" (ibid.). Insomma per
questa genia di persone, l'esecuzione di un colpevole non era una pena di morte
ma "solo" un provvedimento statale di sicurezza per cui "la morte non deve nella
legislazione criminale assumere i caratteri di una pena. I tribunali si devono
limitare a sciogliere verso il malfattore il contratto sociale: costui resta per
conseguenza destituito di ogni diritto, e può essere consegnato alla polizia
perché ne faccia ciò che meglio le piace" (cfr. archive.org). Questo modo di
pensare, che generò il nazionalsocialismo, o nazismo, oggi continua nei
sostenitori del socialismo nazionale, i quali, per apparire e/o per arrivismo,
si professano addirittura filosofi del nulla dicendo che la filosofia è inutile
(http://youtu.be/m5wudwmJp8Y: parte
finale del video). Oggi dunque non abbiamo nemmeno più a che fare con errori di
Kant o di Fichte ma con ciò che le scuole di Stato e le università
dell'anti-universalità del pensare hanno generato: alienazione essenziale.
Questo è il clima spirituale dell'epoca odierna. Ecco perché noi andiamo ancora
a votare delle teste di tallero che saccheggiano ancora la nostra economia.