Giuseppe di Saverio

Matematica ed Arte

Fonte: matematicamente.it, N° 9, Maggio 2009

Si veda anche "Sul pensare matematico-immaginativo"

due conf. di R. Steiner in sintonia con "Matematica ed Arte"!

Presentazione

Nel seguente scritto del matematico Giuseppe Di Saverio, che reputo pensatore scientifico-spirituale, il passaggio dal pensare predialettico alla dialettica è avvertito come delicatissimo atto in cui il continuum del mondo delle idee può essere espresso come percezione sovrasensibile, facendosi necessariamente parola scritta e quindi discreta, evocante tuttavia quel mondo - questo è il mio parere - come mondo del Logos: «È come se, al matematico che cerca di capire come sono fatti gli oggetti che riesce ad intravedere, all'improvviso la "verità" si mostrasse chiara e distinta, senza più veli, in tutta la sua perfezione. Da questo momento in poi egli deve lavorare duramente per descrivere ciò che ha visto. Deve utilizzare il linguaggio in modo opportuno, oppure inventarne uno completamente nuovo, al fine di essere comprensibile agli altri.

Questo non è affatto facile».

Certo, non è facile. Però è possibile. Ed è emozionante come un dipinto di un bravo pittore.

L'essenza di ciò che vive (in quanto non è mosso, ma si muove) risiede nel movimento: cioè in una forza. Come posso pensare scientificamente questa forza? Si tratta di una forza continua o si tratta di una forza discreta (cioè non continua)? La forza elettromagnetica, ad esempio, non sarebbe - a detta di Planck - una forza continua, ma discreta, cioè composta di parti separate e distinte, cioè di fotoni o "quanti" di forza elettromagnetica; così come "discrete" sarebbero anche quella gravitazionale, composta di gravitoni, quella nucleare debole, composta di bosoni, e quella nucleare forte, composta di pioni. Se così fosse, però, anche l'unificazione di tutte queste forze sarebbe discreta. Allora però scomparirebbe tutta la forza della vita che si esplica nella continuità del movimento, del tempo, della memoria... Il movimento "continuo" o "fluido" di un arto, ad esempio, è cosa ben diversa da quello "discreto", causato da artrite. Allo stesso modo, l'avere una "discreta memoria" è cosa ben diversa dall'avere una "memoria discreta", vale a dire, delle amnesie. E così il tempo, pensato dalla fisica classica - per fare un altro esempio - è qualcosa di "continuo". Invece per la fisica moderna è "discreto" (cfr. Lucio Russo, "L'odore di violette", ospi.it). Qual è la verità? Per la matematica - anzi per la "màthesis" (termine greco da cui proviene etimologicamente "matematica") - e per l'arte, le cose non cambiano: la forza introspettiva attuata dal matematico, non dissimile da quella ispirativa dell'artista, o intuitiva del mistico tendente all'oggettività o all'universalità del pensare, è continua o discreta? "Màthesis" significa "dottrina", "oggetto di cognizione", "conoscenza". Da questo punto di vista, la mistica, la màthesis e la matematica sono una cosa sola. Ecco perché la màthesis di Giordano Bruno era "la miglior guida alla contemplazione del puro intelligibile" ("Opere latine di Giordano Bruno", a cura di C. Monti, Ed. UTET, Introduzione, p. 46). Lo stesso dicasi per la prospezione dialettica dell'idea proveniente dalla continuità di tale forza (del mondo delle idee) che deve farsi discreta per poter essere detta... (immagine in alto: "Giordano Bruno" pittura su ceramica; a destra: "Assolata", pittura su seta, autrice: Aurelia Pallastrelli; le evidenziazioni in grassetto del testo di Giuseppe di Saverio sono mie).

 

Nereo Villa, Castell'Arquato 21 gennaio 2018

 

Quando ho sostenuto l'Esame di Maturità Scientifica, nel 1996, una delle tracce del compito di italiano era sul rapporto tra la matematica e la poesia. Non ho svolto quel tema perché credevo di non esserne in grado (infatti non lo ero) e perché, nonostante avessi più volte sentito fare quell'accostamento, mi sembrava che tra le due discipline non vi fosse nessuna affinità.

 
Oggi so esprimere un'opinione precisa sull'argomento, che rimane, comunque, estremamente problematico e soggettivo. Infatti le convinzioni che si possono avere su questa questione discendono direttamente dalle definizioni che si assumono di "poesia", e più in generale di "arte", e di "matematica".


Come è noto, dire cos'è l'arte e dire cos'è la matematica costituiscono due millenari problemi (irrisolti…) della filosofia, in particolare dell'estetica e della filosofia matematica.
 

Espongo subito il mio punto di vista, per poi analizzare brevemente come i profondi e radicali sconvolgimenti della filosofia matematica nell'ultimo secolo e mezzo abbiano modificato la collocazione della matematica nella cultura, e quindi anche i suoi rapporti con le altre discipline, compresi quelli con l'arte. Non affronterò il problema simmetrico, cioè di come è variata la collocazione reciproca delle due discipline al variare del concetto di arte nella storia. La definizione di "arte" che assumerò deriva da una mia convinzione personale, ma credo che essa possa essere in buona misura condivisa da molti lettori, almeno se riferita all'arte contemporanea. Questo breve articolo, naturalmente, non aspira ad essere né organico né completo.

Io credo che la matematica e l'arte siano profondamente connesse poiché entrambe costituiscono un tentativo umano di esplorare, descrivere e comunicare, attraverso un linguaggio, delle realtà interiori universali (ovvero condivise da tutta l'umanità, indipendenti dallo spazio e dal tempo), magmatiche, insondabili e, io credo, per loro natura non completamente esprimibili. Quelle che io ho chiamato realtà interiori sono: nel caso della matematica, i concetti di quantità e di forma, ovvero di numero e di figura, e le corrispondenti capacità di contare e di misurare; nel caso dell'arte le emozioni, i sentimenti, gli ideali, i principi…


Prima di chiarire meglio questa affermazione vorrei mettere in evidenza che le differenze tra le due discipline risiedono, oltre che, come detto, nella specificità degli oggetti della loro speculazione, nel loro linguaggio e nella loro finalità. La matematica si propone di indagare, in modo razionale, sistematico e oggettivo, le innate intuizioni di quantità e forma e di esprimerle, con un linguaggio artificiale, freddo ed essenziale, all'interno di una rigida struttura organica e coerente, che ricostruisca nel modo più fedele possibile la struttura mentale in cui sono incastonate quelle intuizioni. L'arte, al contrario, si propone di indagare alcuni aspetti dell'animo umano in modo assolutamente frammentario e soggettivo. Essa vuol fornire, attraverso linguaggi sempre più nuovi ed originali, artificiali o naturali (come il linguaggio del corpo), solo delle "istantanee" particolari dell'interiorità umana, che la evochino appena; non cerca, anzi rifugge, una sua ricostruzione organica: quando fa questo l'arte sconfina nella filosofia.


È mia convinzione che le realtà interiori indagate dall'arte e dalla matematica non derivano dalla realtà materiale, anzi la precedono. Può succedere che alcune situazioni e oggetti materiali le evochino, non che le generino. Così, per esempio, può darsi che gli occhi di una donna evochino il nostro ideale di bellezza; un povero mendicante la nostra pietà; una interminabile fila di formiche l'infinito discreto; i binari di una ferrovia il parallelismo tra rette, ecc… Se non avessimo già dentro di noi le strutture capaci di farci recepire quelle cose in quel modo, noi avremmo solo una percezione materiale del mondo, e gli occhi della ragazza, il mendicante, le formiche, i binari… ci apparirebbero solo in quanto tali; rappresenterebbero per noi solo se stessi.

 
Dicevo sopra che gli oggetti della speculazione della matematica e dell'arte sono "universali" e "inesprimibili".

 
Cerco di chiarire queste affermazioni.
 

Sulla universalità degli oggetti matematici mi pare non ci siano troppi dubbi (dei pochi dubbi sollevati nel corso della storia parlerò nel seguito). Io credo che non dovrebbero essercene nemmeno su quella dei sentimenti, delle emozioni e degli ideali, comunicati dagli artisti. Come potrebbe un poeta aspirare ad emozionare un lettore comunicandogli un sentimento che non gli appartiene?


Perché mai ci si dovrebbe commuovere nel guardare un quadro se esso non ci comunicasse un tema a noi caro, se pur inconsciamente? Quale musica ci potrebbe estasiare se le sue note non toccassero qualche tasto sensibile della nostra anima?


In realtà l'opera d'arte è, aspira ad essere, per il suo fruitore, come i begli occhi della ragazza di prima: solo un segno per qualcos'altro, una incarnazione particolare di una cosa generale ed astratta.

 
Se l'artista è bravo, la sua opera svolgerà bene la sua funzione, ovvero comunicherà molto; se è meno bravo la sua opera sarà meno comunicativa.


Nel primo caso egli sarà considerato un artista maggiore, nel secondo caso un minore. Spesso si sbaglia credendo che gli artisti siano dotati di una sensibilità maggiore degli altri uomini. Essi non sentono di più, comunicano meglio. Chissà quanti uomini hanno provato lo stesso senso di vaghezza che Leopardi ha espresso nell'Infinito! Almeno tutti quelli che si emozionano leggendo quella poesia. Tuttavia solo Leopardi ha saputo scriverlo così bene.


Dunque le cose che l'arte esprime non sono soggettive. Potrebbero, semmai, essere soggettive le emozioni che quelle cose suscitano (legate a ricordi, visi, situazioni che appartengono solo al vissuto del singolo fruitore dell'opera d'arte). D'altra parte esse sono anche indipendenti dallo spazio e dal tempo. Un bravo artista di 1500 anni fa riuscirà a comunicare il suo messaggio anche agli uomini che tra mille anni vivranno dall'altra parte del mondo (se essi avranno decifrato il suo linguaggio). Se ciò non avvenisse, quello non andrebbe considerato un artista, per definizione, o, comunque, sarebbe un artista di basso livello. Ciò che rende possibile la comunicazione tra matematici ed artisti e i fruitori delle loro opere è l'umanità che li accomuna, oltre lo spazio e il tempo. I linguaggi utilizzati dalla matematica e dall'arte possono variare con i gusti del tempo e del luogo, ma la natura ultima della materia del loro interesse rimane la stessa. La matematica greca per noi è perfettamente comprensibile, poiché descrive qualcosa che noi continuiamo a "vedere" così come i greci vedevano. Euclide definisce la retta in un modo, noi in un altro che ci pare più preciso, ma la retta rimane la stessa. Possiamo ritenere poco efficace (rigorosa) la descrizione (definizione) che Euclide dà di questo oggetto e darne una che ci sembra migliore proprio perché sappiamo che l'oggetto di cui egli parlava è lo stesso di cui noi parliamo. Una cosa analoga avviene nell'arte. È più che probabile che molti artisti abbiano cercato di comunicare uno stesso sentimento, ma ognuno di loro l'ha fatto in modo diverso dagli altri. Sfumature diverse, diversi linguaggi e modalità espressive. Scatti diversi dello stesso soggetto.


Come ho detto, ritengo che gli oggetti indagati dalla matematica e dall'arte siano caratterizzati da una intrinseca inesprimibilità. Anzi, di più: mi pare che tale inesprimibilità sia l'unica vera ragione che rende possibile, opportuna, addirittura indispensabile la loro esistenza.


Gli stati d'animo, le sensazioni, le percezioni interiori che gli artisti cercano di comunicare sono talmente sfuggevoli da non lasciarsi rappresentare pienamente da nessun segno. Sono entità immateriali che non possono essere intrappolate nella materia, né in sue manipolazioni o emanazioni.

 
Pensateci. Se vi fosse un oggetto o una combinazione di segni materiali di qualsiasi genere (grafici, sonori, cinetici, elettromagnetici…) che potessero dirci esaurientemente e definitivamente cos'è l'amore, perché mai poeti, pittori, musicisti dovrebbero continuare ad affannarsi nella ricerca di "parole" nuove? Basterebbe prendere quell'oggetto, guardarlo, dire: "bene, è vero, l'amore è questo, lo riconosco", e nessuno più si azzarderebbe a toccare l'argomento. Le cose, per fortuna, non vanno così. Tutti lo sappiamo bene.

Non si può comunicare a pieno ciò che si prova. Ne sono testimonianza alcune espressioni usate nel linguaggio comune: "provo una gioia indicibile"; "il mio dolore è così grande che non si può dire"; "non so neanche dirti quanto ti amo"; "non ci sono parole per esprimere la mia riconoscenza"; ecc…


I poeti hanno spesso esplicitato nelle loro opere l'ineffabilità della materia in oggetto. Cito alcuni esempi famosi: "Ahi quanto a dir qual era è cosa dura…", Dante Alighieri; "Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco / lo dichiari e risplenda come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato. / Ah l'uomo che se ne va sicuro, / agli altri ed a se stesso amico, / e l'ombra sua non cura che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro! / Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sí qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo". Eugenio Montale.


Per la matematica le cose non vanno diversamente. Lo sforzo introspettivo compiuto dal matematico non è dissimile da quello compiuto dall'artista.

 
Così pure è simile lo sforzo descrittivo. L'immagine classica della lampadina che si accende in testa all'arrivo dell'idea descrive bene il momento della visione matematica, l'istante della rivelazione. È come se, al matematico che cerca di capire come sono fatti gli oggetti che riesce ad intravedere, all'improvviso la "verità" si mostrasse chiara e distinta, senza più veli, in tutta la sua perfezione. Da questo momento in poi egli deve lavorare duramente per descrivere ciò che ha visto. Deve utilizzare il linguaggio in modo opportuno, oppure inventarne uno completamente nuovo, al fine di essere comprensibile agli altri. Questo non è affatto facile. Per decifrare gli scritti di Evariste Galois ci sono voluti molti anni.


Naturalmente una stessa idea matematica, una stessa visione, può essere comunicata in modi e linguaggi diversi. La qualità del matematico si misura dall'efficacia della comunicazione. Cantor e Galileo hanno avuto la percezione dell'infinito discreto in modo molto simile, tuttavia solo Cantor è riuscito ad esprimerlo così genialmente. Potrebbe succedere che nel futuro qualcuno esporrà i concetti espressi da Cantor in un linguaggio ancora più chiaro, inquadrandoli in una struttura più ampia, così come è successo per la geometria di Euclide e per l'algebra di Cardano. Da circa 2500 anni l'umanità combatte con il concetto di infinito, eppure le pubblicazioni matematiche sull'infinito continuano ad aumentare. Se ci fosse un sistema per descrivere una volta per tutte lo spazio euclideo in modo esaustivo, non ci sarebbe più bisogno di ricercare oltre su quell'argomento. Basterebbe un manuale da consultare.


Gli oggetti matematici infiniti sono anche molto suggestivi in quanto sono affetti, per così dire, da una ineffabilità tecnica, all'interno dei linguaggi discreti finiti, cioè quelli in cui le "parole" sono stringhe finite di segni appartenenti ad un alfabeto finito. Per esempio, un qualsiasi numero irrazionale non può essere scritto nella notazione posizionale (qualsiasi sia la base), in quanto risulterebbe infinito e non periodico. Si sarebbe costretti dunque ad indicare quel numero con un nuovo simbolo. Tuttavia, di numeri irrazionali ce ne sono "troppi" per poter praticare questa via. Infatti essi sono una infinità più che numerabile, così che il numero di simboli da inventare sarebbe "troppo elevato": per quanto esso possa essere grande non sarebbe mai sufficiente; esso non sarebbe neppure ottenibile tramite un'infinità numerabile di combinazioni finite di un numero finito di simboli (cosa che invece è possibile per i razionali…). Anzi, peggio: con questo metodo non si riuscirebbe neppure solo a "nominare" tutti gli irrazionali compresi tra due qualsiasi di essi.

 
Questa situazione è, diciamo così, spiacevole ma abbastanza comprensibile: visto che i numeri irrazionali sono degli strani oggetti più attinenti alle grandezze continue, ovvero alla geometria, che non a quelle discrete, ovvero all'aritmetica, non stupisce che mal sopportino la combinatoria.

 
L'esistenza di coppie di segmenti incommensurabili (ovvero dei numeri irrazionali) è cosa nota dal V secolo a.c. Per più di due millenni la trattazione matematica di questi oggetti è rimasta quella greca, ma nel XIX secolo Dedekind, sulla scia di Cantor, ha sentito l'esigenza di ridefinirli in modo diverso, a partire dalla teoria degli insiemi. Egli deve aver avuto la convinzione che la matematica greca fosse troppo approssimativa su questo argomento, o troppo ridondante; deve cioè aver ritenuto necessaria la sua opera perché quelle entità immateriali, i numeri irrazionali, venissero comunicate all'umanità più dettagliatamente.


Come per Dedekind nella matematica, così deve essere stato per i cubisti nella pittura, per i poeti della Beat Generation nella poesia, per i Beatles nella musica.

 
Devo ammettere di avere l'assoluta convinzione, naturalmente non "dimostrabile", che le emozioni ed i sentimenti siano dotati di una natura magmatica, informe, cangiante e continua che è esattamente la stessa dei numeri irrazionali. Non mi stupirei se la medicina scoprisse che esiste uno stesso meccanismo cerebrale (o una stessa area ben nascosta del cervello), non ancora scoperto, attraverso il quale percepiamo queste cose. Se così fosse, la non esprimibilità attraverso linguaggi discreti sarebbe tecnicamente la stessa. Se i sentimenti fossero "oggetti continui" non potrebbero essere espressi con nessun oggetto materiale, che rimane pur sempre solo una disposizione nello spazio di un numero finito di particelle (naturalmente se si accetta l'"ipotesi atomica", ovvero che la materia sia costituita da singole particelle distinguibili l'una dall'altra).


Qui il discorso si potrebbe complicare molto. L'argomento è delicatissimo. Infatti, se pur è vero che un qualsiasi oggetto materiale è una combinazione di un certo numero di particelle, dunque un oggetto discreto, noi possiamo aver di esso un'immagine continua, se lo percepiamo in un unico istante. Un foglio di carta possiamo vederlo come un rettangolo sebbene esso sia un insieme abbastanza sparpagliato di punti (molecole).

 

È come se fossimo dotati di un software che, attraverso una provvidenziale "miopia", ci permette di non vedere a fondo nella materia e di interiorizzare in modo ordinato, secondo il nostro senso dello spazio ideale, ciò che è disordinato; di rendere unico ciò che è molteplice; di dare forma all'informe, di rendere perfetto ciò che è imperfetto.

 
D'altro canto, dello stesso oggetto potremmo avere anche una percezione discreta, se di esso cogliessimo solo alcune sue parti, ordinandole nel tempo. Lo stesso foglio di carta, oltre che il rettangolo, potrebbe rappresentare il numero 1, oppure il 4 se guardassimo ai suoi vertici uno per volta (uno, due, tre e quattro), oppure un numero enorme se ci prendessimo la briga di contare le sue molecole una ad una.

 

Tuttavia, tornando all'ipotesi atomica, se è vero che la materia è fatta di particelle, è evidente che, da un punto di vista tecnico, "per definizione" direi, si possono esprimere materialmente solo gli oggetti finiti (il numero naturale 3 è ben rappresentato da tre particelle), o infiniti discreti (nell'ipotesi inverosimile di avere infinite particelle a disposizione).
 

Come ho detto, l'affinità tra matematica e arte risiede nella loro natura ultima: entrambe sono una continua e infinita ricerca di segni che rappresentino ai nostri simili le nostre anime e le nostre menti; la differenza risiede nei linguaggi utilizzati, nelle finalità e nella diversa natura degli oggetti immateriali indagati. C'è, a tal proposito, da fare un'importante osservazione.


Può succedere che l'arte faccia oggetto della propria indagine anche alcuni temi che propriamente, e storicamente, appartengono all'ambito matematico, ma che pur sempre fanno parte dell'interiorità. Si riscontrano innumerevoli casi di tal genere soprattutto nelle arti figurative contemporanee.

 

In queste opere l'artista cerca di fornire delle istantanee del proprio senso interiore dello spazio. Così come in genere si occupa di emozioni e sentimenti intesi in senso più tradizionale (inquietudine, solitudine, gioia…), in queste opere l'artista elegge la propria intuizione spaziale a tema d'arte. La geometria, che è per il matematico tema da razionalizzare e ricostruire organicamente tramite un linguaggio, diviene per il pittore semplice visione da mostrare, come si mostra l'amore. Allora diviene emozione artistica e, dunque, nel linguaggio cifrato dell'arte diviene simbolo di "bellezza".


Recentemente capita spesso anche che alcuni artisti adoperino rappresentazioni grafiche (spesso ottenute al computer) di oggetti matematici complessi (come i frattali) per arricchire le loro opere. Essi sfruttano alcune caratteristiche di quegli oggetti (come le simmetrie, le colorazioni o l'autosimiglianza) in modo simbolico per esprimere altro. Ovvero utilizzano rappresentazioni di oggetti matematici come elementi di un linguaggio artistico.


La matematica, dunque, al servizio dell'arte. Questo utilizzo artistico della matematica viene spesso citato come prova del collegamento tra le due discipline. Io non credo che sia così. Il fatto che un artista utilizzi un frattale per esprimere le sue emozioni non ha nulla a che vedere con l'affinità che esiste tra matematica e arte. Gli artisti utilizzano molte cose, non solo frattali e oggetti simmetrici.

 
Le installazioni di arte contemporanea sono strutture stranissime e molto eterogenee. Vi si incontra di tutto. Non perché un artista adopera un particolare acido si sostiene un collegamento tra l'arte e la chimica. Il questi casi l'artista utilizza il frattale così come utilizza il marmo, il legno, la tempera: solo come strumento.


Naturalmente molte obiezioni, di ogni genere, potrebbero essere sollevate contro le mie argomentazioni.

 
Vorrei provare a controbattere almeno una di queste obiezioni, la più ovvia e, forse, la più acuta. Essa sarebbe la seguente: "Se la matematica e l'arte sono affini solo perché entrambe sono discipline umane che indagano alcuni aspetti interiori, allora tutte le discipline sono affini, persino matematica ed arboricoltura, poiché tutte sono attività umane".

 

Io rispondo che sì, l'essere attività umane accomuna tutte le discipline in questa minima misura. La matematica ha dunque il minimo grado di affinità anche con l'arboricoltura, ma con l'arte, come sto sostenendo, ha un'affinità maggiore.


Sarebbe allora interessante cercare di capire qual è la disciplina più affine alla matematica, e come si colloca l'arte in una sorta di classifica di "vicinanza".

 
Senza alcun dubbio è la filosofia la disciplina che più somiglia alla matematica, per la natura degli oggetti di indagine, per le sue finalità, per l'organicità delle costruzioni teoriche. Subito dopo, a mio parere, si collocano arte e scienze naturali (in particolare la fisica) a pari merito, ma per motivi diversi. La stretta relazione tra matematica e fisica sembra essere una cosa molto ovvia. In tutta la storia della scienza (specie in quella moderna e contemporanea) essa è evidentissima. Ma in cosa davvero la matematica e la fisica sono simili? La risposta più immediata sarebbe che entrambe hanno a che fare con numeri, figure, grafici, curve e altre "cosacce" del genere. Si sa: a scuola sono sempre le stesse persone ad essere brave in matematica e in fisica; sono quelli che sanno fare i "conti", i "problemi"… Insomma sono quelli, come dicono i professori, portati per le materie scientifiche.


Se per "fisica" si intende la scienza che cerca di prevedere qualitativamente e quantitativamente il comportamento della materia (evito di affrontare la distinzione tra fisica ed altre scienze naturali, come la chimica, la biologia…), mi pare evidente che essa sia assolutamente lontana dalla matematica per quel che riguarda l'oggetto di studio ed il suo fine ultimo. Io credo, infatti, che la forte affinità tra queste due discipline vada individuata esclusivamente nel fatto che la fisica adotta come suo unico linguaggio quello matematico.


Non mi soffermo sull'affascinante (ma difficile) tema di discussione riguardo alla "matematicità" della natura.


Come si diceva sopra, la matematica, la fisica, la chimica… sono classificate come "materie scientifiche", in contrapposizione alla letteratura, la storia, la filosofia, la storia dell'arte…, cioè le "materie umanistiche". Queste due famiglie in cui il sapere viene suddiviso sembrerebbero del tutto aliene l'una all'altra. In quasi tutte le città universitarie, addirittura, le facoltà scientifiche sono urbanisticamente lontane da quelle umanistiche.
 

Nell'antichità la figura del matematico era quella di un uomo dedito ad un'attività speculativa e contemplativa delle leggi dell'intelletto, che lo inserivano a pieno titolo in quell'ambito culturale che potremmo genericamente definire "umanistico", accanto al filosofo ed al letterato.

 

Già dall'inizio dell'epoca moderna la sua attività inizia a perdere l'antica purezza per asservirsi alla tecnica, al mercato ed alla politica: la matematica greca era pura; quella moderna rinasce per esigenze applicative. Nonostante ciò, almeno fino al XVIII secolo il matematico era un uomo di vasta cultura e pienamente inserito nel dibattito intellettuale del suo tempo. Con l'avvento delle rivoluzioni industriali e successivamente quelle tecnologiche, la matematica, come anche altre discipline, ha subito un processo di frammentazione ed iperspecializzazione, che ha definitivamente demolito l'unità culturale della matematica ed i suoi collegamenti con le altre branche del pensiero puro. Oggi, agli occhi dell'opinione pubblica un matematico è solo uno "scienziato" al servizio della tecnica. La sua funzione sociale non è più la ricerca della "verità", ma solo quella, pur utile, di fornire alla tecnica ed alla tecnologia strumenti di lavoro. Nelle scuole superiori si tende a privilegiare della matematica l'aspetto tecnico ed algoritmico, a discapito di quello epistemologico, storico, filosofico, umanistico. Figurarsi quello "artistico"!

 

Nella esposizione dei vari argomenti (sia alle scuole superiori che all'università), si perde completamente la percezione del suo sviluppo storico. Cose lontanissime si ritrovano fianco a fianco sullo stesso piano, quello manualistico. Il risultato è una catastrofe culturale. Agli occhi di uno studente di liceo, imparare a risolvere un'equazione deve sembrare come imparare ad usare il suo telefonino o la lavastoviglie di sua madre: un'attività mnemonica e meccanica, con l'aggravante dell'inutilità. Come ci si può stupire poi se le facoltà di matematica sono poco frequentate? Se la matematica è questo, si diranno, allora meglio fare l'ingegnere, si guadagna di più. Tutta la storia contemporanea, d'altra parte, ha glorificato le scienze fisiche e naturali, dimenticando completamente quelle matematiche. Tutti conoscono Einstein, Fermi, Volta, Marconi. Cantor, Hilbert, Peano, Dedekind sono, al contrario, perfetti sconosciuti per i non addetti ai lavori.


Per capire come mai la collocazione della matematica si sia spostata così evidentemente dall'ambito umanistico a quello scientifico-tecnologico, è forse utile ripercorrere brevemente le principali tappe dell'evoluzione del concetto di "matematica" nella storia occidentale.


Dall'antichità, fino al XVIII secolo, la filosofia comunemente accettata è stata il platonismo, ovvero il complesso dei principi di Platone riguardo alla matematica. In sintesi il platonismo consiste in un assoluto realismo: gli oggetti matematici sono dotati di un'esistenza (eterna e immutabile) immateriale, ma reale, del tutto indipendente dalla (natura della) mente di chi li pensa e li specula, dallo spazio e dal tempo. Essi sono collocati, insieme a tutte le idee perfette e immutabili, in un mondo intangibile (Iperuranio o Mondo delle Idee) raggiungibile solo dall'intelletto.


Nel XVIII secolo Immanuel Kant diede una nuova sistemazione filosofica ai fondamenti della matematica: il platonismo viene sostituito dal kantismo.

 
Kant ritiene che le proposizioni della matematica siano giudizi sintetici a priori (sintetico, in opposizione ad analitico, vuol dire che il predicato non è contenuto nell'oggetto, cioè aggiunge qualcosa all'oggetto stesso…; a priori, in opposizione ad a posteriori, vuol dire che non deriva dall'esperienza sensibile) relative alle intuizioni pure di spazio e di tempo. Spazio e tempo sono quadri mentali a priori entro cui connettiamo i dati fenomenici.

 
Lo spazio è la forma del senso esterno e si occupa dell'intuizione della sola disposizione delle cose esterne. Il tempo è la forma del senso interno e regola la successione delle cose esterne. Spazio e Tempo, non sono entità a sé stanti, ma sono quadri mentali, propri dell'uomo. Kant, dunque, riconosce come fondamenti della matematica le due intuizioni di spazio e tempo, le quali genererebbero nell'uomo i concetti di misura e quantità, che sono alla base, rispettivamente, della geometria e dell'aritmetica. Ovvero, la geometria usa intuitivamente il concetto di spazio e l'aritmetica fa lo stesso con il concetto di tempo, cioè di successione, senza ricavarli da altro.


Pur presentando differenze concettuali non trascurabili (Platone, a differenza di Kant, ritiene che gli oggetti matematici siano dotati di una esistenza propria, indipendente dall'uomo…) platonismo e kantismo sono accomunate da un assolutismo di fondo che li conduce ad una semplice sostanziale conseguenza: la matematica si scopre, non si inventa. L'attività del matematico, pertanto, si scomporrebbe, in linea con quanto ho sostenuto, nei due fondamentali momenti dell'osservazione e della descrizione, attraverso un linguaggio.


Proprio come l'arte.
 

Dalla metà del XIX secolo in poi, una serie di avvenimenti (la nascita dell'analisi moderna, l'introduzione di geometrie non euclidee, la matematizzazione della logica, l'aritmetizzazione dell'analisi, ovvero la riduzione del continuo al discreto, la nascita della teoria degli insiemi, la logicizzazione dell'aritmetica, la formalizzazione della geometria, l'insorgere di paradossi nell'insiemistica) portarono a profonde mutazioni concettuali riguardo alla matematica che condussero, all'inizio del XX secolo, alla crisi dei fondamenti, ovvero ad una importante disputa intellettuale sull'essenza degli oggetti matematici. Coloro che respinsero le filosofie di Platone e di Kant possono
essere, in linea di massima, raggruppati in tre scuole di pensiero: il logicismo, l'intuizionismo, il formalismo.
 

Il logicismo, i cui maggiori esponenti furono Russell e Frege, sosteneva che la matematica fosse completamente identificabile con la logica, e che questa fosse del tutto esprimibile attraverso sistemi assiomatici formalizzabili, i cui assiomi risultano dotati di una naturale autoevidenza.
 

L'intuizionismo di Brouwer respingeva con decisione le tesi logiciste e riaffermava il carattere puramente intuitivo dei concetti matematici. Riconosceva però come primario solo il concetto di quantità, escludendo quello di forma. Le limitazioni dell'intuizionismo riguardo alle grandezze continue portarono ad una serie di importanti restrizioni ai metodi dimostrativi (Non accettazione del principio del terzo escluso, dunque non accettazione delle dimostrazioni indirette), che condussero a una ricostruzione intuizionista di molte parti della matematica.
 

Il formalismo di Hilbert sosteneva che il corpo della matematica coincide con tutte le possibili espressioni dei sistemi assiomatici formali, ben costruiti ma arbitrari. Ovvero che la matematica sia un semplice gioco di segni che si combinano secondo delle precise regole, ai quali attribuire eventualmente un significato. Esso, per i formalisti, potrebbe anche essere del tutto lontano da quello classico. Precisò Hilbert: Si deve sempre poter dire al posto di "punti", "rette", "piani", "tavoli", "sedie", "boccali di birra". Per i formalisti, tuttavia, i sistemi assiomatici formali dovevano essere dotati di due caratteristiche precise, che ne avrebbero assicurato il buon funzionamento: la coerenza e la completezza, che, molto approssimativamente, consistono nella non contraddittorietà (ovvero la non dimostrabilità di una proposizione e della sua negazione) e nella decidibilità di ogni possibile proposizione (ovvero la sua dimostrabilità o la dimostrabilità della sua negazione). Poiché tutta la matematica era stata ridotta (con l'aritmetizzazione dell'analisi) all'aritmetica, e quest'ultima era stata espressa tramite un sistema assiomatico formale, per i formalisti era fondamentale riuscire a dimostrare la coerenza e la completezza di quest'ultimo.
 

Nel 1931, tuttavia, Kurt Gödel dimostrò che se un sistema assiomatico formale che esprima l'aritmetica fosse coerente, la sua coerenza non sarebbe dimostrabile nel suo linguaggio. Dimostrò inoltre che un tale sistema risulterebbe comunque incompleto. I teoremi di Gödel posero fine al programma formalista, e lasciarono tutta la comunità dei matematici in una nuova, surreale, tragica condizione di incertezza riguardo ai fondamenti della propria disciplina.

 
Nell'era post-gödeliana la filosofia matematica vincente (nella prassi matematica e nella didattica) è stata il bourbakismo (1), che si proponeva di riscrivere (riuscendoci per buona parte) tutta la matematica moderna in forma rigorosamente assiomatica, a partire dalla teoria degli insiemi. La parola chiave è struttura: all'occhio di Bourbaki la matematica è un insieme di strutture astratte.


Dunque il bourbakismo è una sorta di recupero postmoderno del formalismo hilbertiano, che conserva di quest'ultimo però solo l'aspetto più prosaico. Agli slanci ideali di Hilbert, Bourbaki sostituisce un sostanziale pragmatismo. Del vecchio "patriottismo matematico" (Hilbert ebbe a dire: Nessuno potrà scacciarci dal paradiso che Cantor ha costruito per noi), delle sfide intellettuali, non rimane molto. Bourbaki è più cinico di Hilbert.


Più che a convincere della sua filosofia, Bourbaki è portato ad imporre la sua filosofia alla società contemporanea, anche attraverso i libri di testo. Tale impresa è riuscita. La matematica che oggi si studia è bourbakista.
 

Come ho detto, sebbene la crisi vera e propria possa considerarsi chiusa nel 1931, le risposte (non) fornite dai teoremi di Gödel sono risultate insoddisfacenti sia per il matematico che per il filosofo. Una crisi attutita, latente, sotterranea, ha continuato a strisciare fino ai nostri giorni, e aspetta forse solo la scintilla che riaccenda la querelle. Fatto sta che oggi la domanda Cos'è la matematica è una delle più difficili a cui possa trovarsi a rispondere un matematico. Ognuno ha la sua idea. Ognuno la sua personale eresia. E, in fondo, a nessuno sembra interessare gran che questo argomento. Siamo nell'epoca del fare più che del pensare. Credo che più o meno la stessa sia la situazione degli artisti riguardo alla natura dell'arte. Ho sostenuto che la matematica studia i numeri e le figure, e che tali oggetti sono universali. Analizzando brevemente la posizione logicista ci si rendere subito conto che essa nega con decisione entrambe queste affermazioni. Per Russell l'oggetto di studio è solo la logica. Tutto il resto della matematica è solo applicazione di schemi logici ai concetti di quantità e di forma che tuttavia sono "a posteriori", cioè derivanti dall'esperienza sensibile, dunque relativi e soggettivi. Di universali rimangono forse solo gli assiomi. Russell tuttavia non è molto chiaro su questo punto. Per i formalisti non rimangono più neanche gli assiomi. Tutto è relativo, per Hilbert, già nel 1900. Non una ma tante geometrie sono possibili. Una "più vera" delle altre non c'è. È solo un accidente il fatto che noi vediamo il mondo in modo "euclideo". Solo una delle tante possibilità, uno dei tanti mondi possibili. Quella euclidea non è una geometria speciale, come la Terra non è un pianeta speciale. Si sa dai tempi di Galileo. Sono solo la nostra geometria ed il nostro pianeta. Ma noi non siamo esseri speciali, come Darwin ci ha spiegato.


Si capisce bene che tali concezioni fanno della matematica più una scienza normativa che una scienza descrittiva, in antitesi con le vecchie filosofie.

 
Per Hilbert la matematica non si scopre, si inventa, anzi, meno, "si costruisce". Cantor non ha "scoperto il Paradiso", ne ha "costruito uno". Uno dei tanti possibili paradisi artificiali. Il matematico non è più il contemplatore-descrittore, ma un "costruttore". Le sue "costruzioni", "strutture" direbbe Bourbaki, non sono "vere". Non debbono esserlo, non possono. Nessuno ha più l'ardire neppure di sperarlo. Non ha neanche più senso chiedersi se lo sono. La "verità" non esiste. Basterebbe, al ribasso, ma almeno questo sì, che fossero "dimostrabili". "Derivabili". Insomma che almeno fossero raggiungibili attraverso un labirinto grafico.


È evidente che se si aderisse a queste scuole di pensiero si avrebbe anche un'idea diversa sul rapporto tra matematica ed arte: se affinità ci fossero andrebbero cercate non nella sostanza, come ho fatto io, ma nella forma, ovvero nel linguaggio, dunque nelle immagini dei frattali, nelle simmetrie dei mosaici e via di seguito.


I teoremi di Gödel posero fine al sogno formalista ma non arrestarono il processo di delocalizzazione culturale in atto. Essi demolirono l'ultima grande filosofia organica della matematica e lasciarono il vuoto. Non riuscirono, e non vollero, restaurare l'assolutismo matematico. D'altra parte, come avrebbero potuto? Nessuna rivelazione passa per una dimostrazione. Nessuna fede può essere giustificata con il calcolo combinatorio.

 

Uno che ha smarrito la fede in Dio non la riacquisterà perché qualcuno ha dimostrato che la non esistenza di Dio non è dimostrabile. Magra consolazione che non potrà confortarlo. Gödel sconfisse un relativismo e ci lasciò il nichilismo!

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(1) Nicolas Bourbaki è lo pseudonimo di un gruppo di matematici, per lo più francesi, che tra il 1935 e il 1983 , ha pubblicato una serie di libri per l'esposizione sistematica di tutta la matematica moderna.