DAM, il sangue in ebraico

Presentazione

Questa pagina è la continuazione dell'unica nota presente nello scritto "Sul sangue sconosciuto"(http://digilander.libero.it/VNereo/sul-sangue-sconosciuto.htm). Può essere compresa da tutti, anche da coloro che non conoscono la lingua ebraica. Anzi, è stata scritta proprio per loro. Perché questa lingua è in fondo la lingua del nostro passato di discendenti da "Adamo", che in ebraico significa "uomo", ma che a guardar bene si tratta di un collettivo che indica l'"umanità", tanto è vero che - esattamente come in italiano - non ha plurale. Per dire "uomini", in ebraico si adopera infatti  il plurale irregolare di "ish", "maschio", dunque "anashìm", in contrapposizione all'irregolare "naschìm", "donne", come se in italiano vi fossero "uomi" e "uome". Non formalizzatevi su queste cose, dato che l'umanità dei figli di Adamo, o del FIGLI DELL'UOMO ha molte meraviglie in sé, ben più peculiari di questa distinzione. Buona lettura.

 

Nereo Villa, Castell'Arquato, 15 marzo 2018

"Cuore" e "sangue" si dicono in ebraico rispettivamente "dam" (דם, in numeri 4 e 40, somma 44), e "lev" (לב, in numeri 30 e 2, somma 32; la lettera "bet", ב, in fine di parola non si pronuncia "b" ma "v"). 

 

Secondo la lingua ebraica, il "sangue" non solo è un portatore di forza vitale ma è anche una "porta" attraverso la quale si entra nelle parole di vita degli antichi testi ebraici. Il Cristo era solito dire: "Io sono la porta" (Gv 10,7-9). Però per non cadere nel misticismo occorre fare un po' di conti...

 

Il sangue umano ha un rapporto col "Quattro", numero sul quale giuravano i pitagorici nel quinto secolo prima di Cristo (gli uomini videro sempre nei numeri dei Numi o divinità costituenti il linguaggio).

 

Come è noto, la lingua ebraica non ha lettere e numeri come hanno le altre lingue. Le lettere ebraiche SONO esse stesse numeri, e quindi Numi, secondo i quali sono possibili osservazioni numeriche, appartenenti alla grammatica ed alla gematria. Quest'ultima è un termine di origine greca, proveniente «non da geometria, come si dice il più delle volte, ma da grammateia e/o da "grammata", "lettere"» (R. Guénon, "Simboli della scienza sacra", Ed. Adelphi, pag. 54, n. 7).

 

I numeri erano solo nove, in quanto si sapeva che il dieci era la ripetizione dell'uno a un altro livello, quello delle decine, e così via per gli altri livelli, centinaia, migliaia, ecc. La struttura stessa dei valori numerici delle ventidue lettere dell'alfabeto ebraico è conformata secondo livelli che ripetono le unità aritmetiche fino al 9. Per esempio, per contenere in questa struttura tutta l'infinità dei numeri, il valore 44 del cuore ("dam", דם, valori numerici 4 e 40, somma 44) era sintetizzabile come 8 (4+4=8). Gli zeri alla destra dei numeri indicano infatti all'uomo antico i livelli di provenienza, come se fossero conteggi testuali già fatti, cioè libri contabili o "sefer", ספר, termine ebraico da cui proviene l'italiano "sfera" per indicare categorie di oggetti:

 

1 א alef            10 י iod                     100 ק qof

2 ב bet              20 כ caf                    200 ר resh

3 ג ghimel     30 ל lamed          300 ש scin

4 ד dalet          40 מ mem             400 ת tav

5 ה he                 50 נ nun

6 ו vav               60 ס samec

7 ז zain             70 ע ain

8 ח chet           80 פ pe

9ט  tet                90 צ tzade

 

[Nota: alla fine di parola le lettere caf, mem, nun, pe, tzade si scrivono in modo diverso, rispettivamente: ץ ,ף ,ן ,ם ,ך].

 

 

Ecco perché la forma sferoidale dello zero assomiglia a quella di un uovo, o di un ovulo, da cui proviene la vita. Ed ecco anche perché il NUOVO è espresso dal "nove", che in latino è un avverbio che significa "nuovamente". Nasceva così il "sistema decimale": quando l'uomo ascoltò il battito del suo cuore si accorse del ritmo generatore di unità aritmetiche, dalle quali congetturò poi le varie unità di misura.

 

Tutte le unità di misura erano, sono, e sempre saranno invenzioni umane, cioè "enti" artificiali non prodotti dalla natura.

 

Non così per le unità aritmetiche, le quali non sono artificiali ma presenti e percepibili nella natura, come ad esempio il ritorno giornaliero della luce del mattino, o del vespro, o delle primavere, stagioni, battiti cardiaci, appunto, e l'uomo stesso come essere unico, dopo nove mesi di gestazione nell'utero materno (in ebraico l'utero è tet, ט, valore numerico 9), ecc.

 

Oggi l'uomo è alienato nella misura in cui dimentica l'importanza scientifica di questa differenziazione tra unità aritmetiche, cioè ritmiche secondo natura, e unità di misura, artificialmente inventate dall'uomo (come ad esempio, la dozzina, il chilo, il metro, l'"anno-luce", e così via).

 

È pertanto ovvio che misurare le cose del mondo come se le unità di misura fossero enti realmente percepibili in natura fa sì che ogni misurazione non possa che risultare relativa all'unità di misura usata. Non è però altrettanto ovvio che in nome dell'ovvio si attribuisca realtà ad un ente solo per il fatto di averlo misurato o che si disconosca come reale tutto ciò che non si può misurare, oppure ancora che si introduca nel linguaggio concetti spuri per giustificare un relativismo assoluto di tutto il percepibile. Per esempio, l'esistenza dell'unità di misura detta "anno-luce" presume uno "spaziotempo", senza il quale essa non potrebbe sussistere. Di fatto, il cosiddetto "spaziotempo" è una superstizione scientifica, un'idea spuria concernente due concetti essenzialmente differenti: lo spazio e il tempo. Certamente per calcolare una velocità occorre usare misure spaziali e misure temporali, senza la cui distinzione, tale velocità non potrebbe essere calcolata. Allo stesso modo non si dovrebbe pretendere di calcolare il tempo fra un battito cardiaco e un altro misurando lo spazio di un ventricolo o l'estensione spaziale del cuore.

 

Bisognerebbe avere il coraggio di riconoscere che è impossibile misurare l'infinito, come invece si pretende oggi calcolando con lo "spazio-tempo" e con l'"anno-luce", perché così facendo si può arrivare solo alla totale incertezza di ogni cosa percepibile. Ripeto: accostando al misurabile l'immisurabile, si arriva solo a credere all'inesistenza del percepibile. Cioè in nome di fantomatiche misurazioni in "anni-luce" del tempo necessario all'immagine del percepibile per arrivare ad essere percepito dall'occhio umano, si è indotti a credere che, per esempio, il manto di stelle che si percepisce di notte non esista, in quanto la luce impiegherebbe anni-luce per giungere fino a noi, e che pertanto, nel frattempo, quelle stelle potrebbero essersi già spente! Questa opinione, diventata oramai un dogma, non sta però in piedi.

 

L'inconsistenza di questa opinione è facilmente verificabile, dato che, applicando al concetto di finito (mondo fisico-minerale misurabile mediante unità di misura) il concetto di infinito (immensità del cosmo), si ricavano sempre dati che possono essere letti come metà, doppi, tripli, ecc., in modo esponenziale: si provi a immaginare, ad es., la serie di numeri: 1, 2, 3, 4, ecc., all’infinito e, accanto a questa un’altra serie di numeri pari: 2, 4, 6, 8, ecc., altrettanto infinita. Si può già dire che la prima e la seconda serie, giocando fisicamente il proprio ruolo all'infinito, hanno il medesimo quantitativo di numeri perché l’infinito è infinito per entrambe le liste. Cioè l'infinito è uguale a se stesso. Eppure nella serie dei soli numeri pari, mancano i numeri dispari! Quindi pur avendo il medesimo quantitativo di numeri infiniti, essa ne ha la metà dell'altra! Si aggiungano poi altre liste, tipo tabelline, all'infinito (per esempio 3, 6, 9, 12, ecc., o 4, 8, 12, 16, o ancora 5, 10, 15, 20, ecc., e così via): ogni quantità seriale sarà identica pur essendo diversa.

 

Questo paradossale modo di calcolare poggia però NON su logica di realtà. E questo paradosso, che incominciò ad essere visto più di due millenni e mezzo fa col ragionamento eleatico - a cui, fra l'altro, si ispirò Einstein - NON FU MAI RISOLTO, dato che ancora oggi si accetta che Achille non raggiunga mai la tartaruga... Secondo logica di realtà invece Achille la raggiunge e come! Però si preferisce credere al paradosso in nome di una logica formale matematica priva di connessioni con la vita reale. In altre parole si preferisce la FEDE nel paradosso, o nella contraddizione, o nella vita anti-intuitiva del pensare, proprio perché con simili giochetti si arriva poi a CREDERE a cialtronerie come la materia oscura o l'energia oscura, che altro non sono se non neo-oscurantismo poggiante su superstizione creduta scienza.

 
Ciò premesso, si veda ora la parola ebraica "dam",
דם, il cui significato è "sangue".

 

Come ho prima accennato, il valore numerico della parola "dam", formato dalla somma delle sue lettere è 44.

 

Le lettere sono "dalet", ד, valore numerico 4, e "mem", ם, valore numerico 4. In "dam", דם, cioè nel sangue, vi è dunque in ebraico un Quattro ripetuto due volte, la prima volta ad espressione dell'unità aritmetica 4, e l'altra ad espressione di un'unità di misura, quello delle decine.

 

A questo punto occorre considerare la differenza fra la lettera e la parola che esprime il suo nome. In italiano il nome della lettera "d" è "di", che come parola non ha alcun significato. In ebraico invece ogni parola, così come ogni nome, ha un significato, anche quello delle lettere.

 

"Dalet" (ד), come parola o nome: דלת, significa "porta" e poiché è formata (da destra a sinistra come è proprio dell'ebraico) dalle lettere ד "dalet", ל "lamed", e ת "tav", cioè "d", "l", e "t", le quali sono in ebraico il 4, il 30 e il 400, ha come somma numerica 434

 

4 + 30 + 400 = 434.

 

Ora si apre un argomento di cui occorre rendersi letteralmente CONTO. Si parta di RESOCONTO biblico a proposito dei testi ebraici, proprio perché sono tutti formati da lettere che sono anche numeri.

 

Esistono due RACCONTI della manifestazione del mondo. Il primo (Gen 1,1 - Gen 2,4a) può essere, a buon diritto, considerato "porta" di tutta la Bibbia perché è formato da 434 parole ebraiche. Non 433 o 435 ma precisamente 434, che è il valore totale della PORTA e del QUATTRO

 

4 + 30 + 400 = 434.

 

Questa cosa così ammirabile non può essere vista nelle varie traduzioni dall'ebraico, perché in queste ultime il numero delle parole è differente da quello dell'originale. Chi legge la Bibbia tradotta, può dire solo: "io ci credo", oppure: "io non ci credo", però non può rendersi CONTO, cioè "sapere" che è così. Di conseguenza, dal punto di vista filologico dei vari traduttori, il resoconto biblico potrà contare ben poco e per esempio il rapporto esistente tra l'uno e il quattro non risulterà mai qualcosa di così importante come invece è per chi osserva il testo originale. Ciò non significa che bisogna essere ebrei per osservare realmente queste cose. Occorre solo osservarle come sono. E ciò è possibile ad ognuno. Dunque nel resoconto biblico della manifestazione cosmica, l'originale rapporto tra l'uno e il quattro appare invece qualcosa di straordinario nella misura in cui - ripeto - si impara semplicemente a contare le unità aritmetiche.

 

Come un ritornello costante, questo rapporto si manifesta in vari modi.

 

Il secondo racconto della manifestazione cosmica, detta "creazione", incomincia così: «Quando il Signore Dio fece la Terra e il Cielo nessun cespuglio campestre era sulla Terra, nessuna erba campestre era spuntata - perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla Terra e nessuno lavorava il suolo e faceva salire dalla Terra l'acqua dei canali per irrigare tutto il suolo...». È dunque annunciato che la prima apparizione di qualcosa di vivente sulla Terra era un elemento acqueo. In ebraico questo elemento acqueo è espresso dalla parola אד, "ed". Le varie traduzioni riportano "nebbia", "vapore", "acqua di fondo", "getto d'acqua", "umidità", "sorgente", "acqua dei canali", ecc... (le traduzioni citate sono rispettivamente di: Lutero, Bibbia Piscator di Berna, G. Von Rad, Bibbia di Zurigo, M. Buber, Bibbia Cattolica di Allioli, Bibbia di Gerusalemme della EDB). Sempre si tratta però di qualcosa di umido, acqueo: "un vapore saliva dalla Terra e inumidiva ogni contrada" (Gen 2,6). Quest'acqua vitale, אד, "ed", è formata dalle lettere alef e dalet (א e ד), vale a dire dall'1 e dal 4. Il rapporto 1:4, col quale ha inizio il secondo resoconto della manifestazione cosmica, comincia dunque nella struttura essenziale dell'elemento acqueo avente qui un ruolo principale.

 

Subito dopo (Gen 2,7) si parla di אדם, Adamo, scritto con le lettere א,"alef", ד,"dalet", e ם, "mem", in numeri: 1, 4, 40.

 

In Adamo, che significa "uomo", ritroviamo il rapporto 1:4. Il 40, come sopra accennato, non è altro che un 4 in posizione decimale superiore, su un altro piano, un differente livello. Rispetto a "ed", l'uomo è una ulteriore "elaborazione" verso una determinata direzione del rapporto tra 1 e 4. L'1-4 procede all'1-4-40:

 

1 - 4

1 - 4 - 40


Poi, nel versetto successivo alla collocazione di Adamo nel giardino (Gen 2,8), appaiono l'albero della vita e l'albero della conoscenza del bene e del male (Gen 2,9). In questi due alberi, che si stanno di fronte, il principio 1:4 viene ad esprimersi in modo nascosto. Ciò che è nascosto diventa manifesto se si contano i valori numerici delle loro rispettive lettere:

- l'albero della vita (ets hakaim, עץ חכיים) è formato dalle seguenti lettere: "ain"-"tzade", "he"-"chet"-"iod"-"iod"-"mem", in numeri 70-90, 5-8-10-10-40, somma totale 233;
- l'albero della conoscenza del bene e del male (ets hadat tov vara,
עץ הדעת טוב ורע) è formato da queste altre lettere: "ain"-tzade", "he"-"dalet"-"ain"-"tav", "tet"-"vav"-"bet", "vav"-"resh"-"ain", in numeri, 70-90, 5-4-70-400, 9-6-2, 6-200-70, somma totale 932.

Abbiamo dunque un 233 che sta di fronte a un 932, cioè un numero che sta di fronte al suo quadruplo:

 

233 x 4 = 932
 

Nel rapporto fra i due alberi è così rappresentato il rapporto 1:4. L'albero della vita rappresenta l'uno, l'albero della conoscenza, il quattro.


Che cosa significhi questo, lo si scopre proseguendo l'osservazione. Procedendo nel racconto, subito dopo l'accenno dei due alberi è detto: "Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi..." (Gen 2,10). Ancora abbiamo un uno e un quattro. Qui il rapporto 1:4 non è occulto, bensì subito evidente. È qualcosa di basilare, una specie di formula della vita, che viene data subito agli inizi della Bibbia. Se accanto a questa formula si pongono i valori numerici che formano la parola "uomo": 1-4 → 1-4-40 e si dilata per estensione questo rapporto tra "ed" e "Adam", abbiamo: 1-4 → 1-4-40 → 1-40-400: così come il quattro procede, entro la parola "Adam", verso il quaranta, così il quaranta procede nella sequenza "1-40-400", verso il quattrocento. La prima sequenza "1-4", la seconda sequenza "1-4-40" e la terza sequenza "1-40-400", mostrano così una parentela.

 

1 4
1 4 40
1 40 400

 

Che in questa parentela vi sia qualcosa che meraviglia, risulta quando si mette in lettere la terza sequenza. Infatti 1-40-400 sono rispettivamente i valori numerici delle lettere "alef"-"mem"-"tav", formatrici della parola "emet", אמת, il cui significato è "verità".

 

Secondo la scienza dei numeri che determina la lingua ebraica, l'essere umano vivente è imparentato con la verità, in quanto è inserito in questa logica di vita intuitiva del pensare, secondo un procedere su livelli differenti, a partire dal "rapporto-formula" 1:4 dell'acqua vitale, cioè a partire da "ed", אד, primordiale elemento acqueo della manifestazione vitale del cosmo. Ovviamente queste conoscenze, in quanto sovrasensibili, non sono alla portata della mera fisica della materia. Pertanto, non possono avere alcun rapporto di parentela con teorie come quella della relatività, anche se congetturate da ebrei che, come Albert Einstein, predicarono la Fisica come qualcosa da comprendere e non da intuire (1).

 

Senza l'intuire, l'uomo è solo una bestia, cioè è ancora meno di un animale. Lo si può dimostrare letteralmente con un esperimento. Se dalla struttura essenziale delle parole ebraiche per "uomo" ("adam", אדם), e "verità" ("emet", אמת) si tralascia l'uno (cioè l'"alef", א), rimangono rispettivamente le sequenze "4-40" e "40-400", relative alle parole "dam", דם, e "met" מת, che vogliono dire rispettivamente "sangue" e "morte".


Uomo senza l'Uno è solo sangue. Verità senza un punto base che è l'Uno è solo morte.


Si può dunque osservare una connessione fra "l'uomo-con-l'Uno" come vita e "l'uomo-senza-l'Uno" come morte.

 

Se l'Uno, א, è dunque un valore così importante, questa sua importanza dovrebbe poter essere vista anche in sé, cioè semplicemente in modo indipendente da qualsiasi altra considerazione che non sia numero o Nume. Ciò è possibile attraverso due osservazioni.

- 1ª osservazione: il valore della struttura geroglifica dell'Uno, א, è dato da una "iod" = י = 10, che si scrive a destra, una "vav" = ו = 6, inclinata tracciata al centro, ed un'altra "iod" = י = 10, a sinistra, tracciata specularmente alla prima. La somma dei valori numerici delle lettere strutturali dell'Uno è dunque 26 (10+6+10). L'Uno porta strutturalmente in sé il 26. Questa è la prima osservazione.

- 2ª osservazione: il valore della struttura dell'alef, א, è l'unico a coincidere con quello del Nome dei nomi יהוה, la cui pronuncia nessuno conosce, anche se fu traslitterato come "Iavé", o "Geova", "Ihvh", ecc., e tradotto generalmente come "Signore". Ebbene questo Nome dei nomi è formato dalle quattro lettere "iod" (י),"he" (ה), "vav" (ו),"he" (ה), in valori numerici: 10, 5, 6, 5, la cui somma è 26.

 

In questo modo diventa ancora più comprensibile il significato dell'Uno nella costruzione delle parole "uomo" e "verità", entro il contesto del racconto edenico. Infatti qui l'Uno esprime l'albero della vita, mentre il Quattro è espressione dell'altro albero, quello legato alla morte, che viene dal cibarsene e dal disubbidire così all'ordine del "Signore Dio" (Gen 2,16-17). Si noti altresì che nell'Uno, l'armonia strutturale comprende necessariamente i tre gesti della 1ª osservazione con la quale è possibile scriverlo in ebraico:

 

1° gesto: la "iod" a destra;

2° gesto: la "vav" trasversale al centro;

3° gesto: la seconda "iod" a sinistra.

 

Questi tre gesti che formano l'Uno non sono visti nemmeno dall'ebraismo come tri-unitari, dato che il monoteismo ebraico non contempla la Trinità. Eppure questa tri-unità è presente perfino nel nome dell'"alef", formato dalle lettere "alef", "lamed", "pe" (in fine di parola la "pe" suona come "ph", cioè come la nostra "effe"): אלף, in valori numerici 1, 30, 80, somma totale 111. Anche per scrivere la cifra 111 occorrono tre movimenti: uno per il livello delle centinaia, uno per quello delle decine e uno per quello delle unità aritmetiche.

 

In questa tri-unità, l'uomo ha dunque in sé sia l'Uno che il Quattro in un rapporto di armonia, cioè di logica di realtà. Non gli è vietata, pertanto, la vita conoscitiva nella via della verità secondo logica di realtà. Però il non curarsi dell'Uno in base a logica meramente formale fino al punto di vietarsi di intuire le sovrasensibili qualità di ciò che l'Uno comporta, e di prendere dal Quattro come mera quantità, cioè dagli elementi condensati e resi visibili spazialmente e temporalmente (aria, acqua, fuoco, terra, stagioni, ecc....), distrugge quella armonia. Questo era ed è ancora il senso del disobbedire alle leggi occulte del cielo, occulte in quanto celate al mero sguardo di superficie. Disobbedire non è altro che assumere principi inventati anziché scoperti. Il mangiare il frutto proibito significa pertanto il dover morire, per aver reso relativa la conoscenza dell'eternità ciclica di tutte le cose. L'odierna credenza scientifica, subordinata ai sensi fisici, non è più in grado per esempio di risalire a questa conoscenza. Ma potrebbe farlo. Basterebbe studiare la precessione solare rilevabile a partire dall'anno zero, cioè dal periodo in cui la posizione delle dodici costellazioni della fascia zodiacale coincideva con quella dei dodici segni astrologici del circolo zodiacale! Basterebbe accorgersi della durata di tale ciclicità: 25.920 anni, che l'astronomia arrotonda a 26 mila anni. Il massimo esempio di tale ciclicità è dunque scritto anch'esso nel cielo. Basta saperlo leggere. Allo stesso modo si può leggere un'altra importante connessione nella storia biblica: i patriarchi di cui parla la Bibbia, sono: Adam, Set, Enos, Kenan, Mahaleel, Jared, Henoch, Methusalach, Lamech, Noè, Sem, Arpachsad, Salah, Eber, Peleg, Regu, Serug, Nahor, Tharah, Abraham, Jizchak, Jacob, Levi, Kahat, Amram e Moshè. In tutto proprio 26. E ancora si può stabilire una relazione fra questo numero, il corpo umano ed il cosmo: entro 24 ore abbiamo approssimativamente 26 mila respiri, e questo - come ho accennato - è anche il numero degli anni (26 mila) che il punto di primavera percorre per attraversare un intero cerchio zodiacale. Perciò l'anno platonico era detto anche "anno cosmico". Il 26 dunque appare come una misura che va oltre la terra, il tempo e lo spazio.

Il Nome dei nomi, יהוה, è stato studiato per secoli nella sua composizione numerica, ed è stato sperimentato perfino dall'alto al basso, articolando le lettere, in modo che la "iod" sia il capo, cui sottostà la prima "he" come elemento corporeo delle spalle e delle braccia, la seconda del bacino e delle gambe, connesse alla prima tramite la "vav", che potrebbe rappresentare il tronco. In tal modo si ottiene la rappresentazione grafica del corpo umano secondo le lettere del Nome dei nomi.

Eravamo partiti da "dam", דם, il "sangue" in ebraico, e siamo arrivati, attraverso i 26 mila respiri giornalieri, al cuore. L'uomo ha un solo cuore. Il cuore ha quattro cavità (i due atri e i due ventricoli). Anche nel cuore è pertanto espresso il rapporto 1:4, ben conosciuto dagli antichi anche se gli antichi non si servivano ancora di microscopi o di telescopi.

 

Oggi la "scienza" afferma da un lato che la creazione dal nulla è durata miliardi di anni di evoluzione, ma da un altro, veltronianamente, anche un istante, detto big bang. Anche la Bibbia si è formata attraverso una selezione o un'evoluzione durata miliardi di anni ma anche attraverso un istante? E se le cose non stanno così, come si è formata allora la sua straordinaria struttura? Quale scrittore poté congetturare parole, comporre frasi e inventare un resoconto confacente, in modo che "vapore" sia proprio 1-4, "uomo" 1-4-40, e che la parola ebraica per "albero della vita" abbia esattamente quel valore numerico che sta in rapporto 1:4 con quello "dell'albero della conoscenza"? Se si realizza questo si comprende che la Bibbia (la Torà, almeno) è un libro del tutto speciale. Allora però diventa anche evidente il motivo per cui del testo originario non poteva essere modificato neppure una "iod" ("iota" in greco: Mt 5,18): perché modificandolo sarebbe stata modificata anche l'intera struttura. E ciò dimostra che qualsiasi sua traduzione è tradimento dei veri resoconti, la cui semantica, in quanto discorsivismo, sarà sempre un non senso. Il discorsivismo, avendo perduto la coscienza dell'intima sostanza del pensare (vita intuitiva), crede di provvedere con la filologia a ricostituire per sé dall'esterno un senso interno ("quello di cui invece continua ad essere inevitabilmente espressione e della cui immediata presenza, senza saperlo, si giova per il proprio processo presumente ricostituire tale presenza per imitazione, dall'esteriore", M. Scaligero, "La logica contro l'uomo. Il mito della scienza e la via del pensiero", Ed. Tilopa, Roma 1967, p. 92). Crede cioè di prendere per sé dal solo albero della conoscenza mortificando quello della vita... intuitiva. Nessuno infatti può sapere cosa sia un concetto, dato che la sua essenziale sostanza è immateriale, cioè sovrasensibile. Il senso delle parole e delle cose del mondo non può provenire da fuori ma solo da dentro. Così come non si può apprendere il significato del teorema di Pitagora studiando filologicamente eventuali frammenti originali scritti da Pitagora senza sperimentarlo interiormente, cioè sovrasensibilmente, allo stesso modo è impossibile la traduzione del testo dell'ebraico senza l'esperienza ritmica dell'aritmetica che il testo comporta. Un simile processo è impossibile proprio perché, mirando da fuori a fornire significato a ciò che come forma è già significato, si procede ogni volta da un'interiore vita intuitiva che si ignora o che si nega (Einstein), e che si ritiene avere davanti a sé nelle parole, mentre lo si ha "inevitabilmente non solo interno a sé, ma antecedente" ("La logica contro l'uomo", op. cit.).

 

Ecco perché la conoscenza del rapporto 1:4 era così importante da diventare poi la CONOSCENZA DELLA "QUATERNITÀ" DELLA CROCE, osservabile anche nella forma stessa con cui si scrive il quattro come cifra:

La quaternità della croce insegnava infatti, fra l'altro, anche la veggenza: l'evento del Golgota (che in ebraico significa "cranio"). "Gògota", in ebraico "gulgolét", גלגלת, era il nome del monte in cui fu infisso il palo della croce per assassinare Gesù di Nazaret, detto il Cristo. Perciò l'evento fu anche detto "evento del Cranio" (Mt 27,33; Mc 15,22; Lc 23,33; la latinizzazione "calvaria", per "calvario", "Monte Calvario", proviene dal termine "calva", che significa "cranio"). L'antico segno astrologico dell'Ariete, corrispondeva, nella fisiologia umana (ed ancora corrisponde nell'astrologia medica), alla testa, al cranio. Nella ritualità ebraica, sulla fronte del capo del sommo sacerdote veniva disegnata una "tav", ת, per significare il prendere su di sé la sofferenza di questo mondo, come anche la prese su di sé l'"Io sono" che è il Cristo. Da questo punto di vista la lettera "he", ה, detta zodiacale dell'Ariete, non è altro che il risultato della "tav", ת, e ciò può essere "visto" dal confronto della forma delle due lettere:

תה

"he" "tav"


Il terzo occhio, l'occhio della veggenza sovrasensibile o spirituale, abbisogna dunque dell'esperienza della "croce" (segno della "tav") capace di "aprire" la mente (apertura della "he").

 

Queste cose vanno dette perché il non senso della semantica ha invaso tutto lo scibile umano fino ai vari discorsivismi a partire dall'economicismo fino al giuridismo. Stiamo infatti assistendo al ritorno degli scribi e dei farisei, detti dal Cristo "razza di vipere" (Mt 3,7; 12,34; 23,33; Lc 3,7), i quali continuano a proclamare insensatezze, quali ad es.: "Far ripartire il lavoro". Quale lavoro? Il lavoro di chi? Delle macchine? Il lavoro riparte come un treno? L'unica cosa che lo Stato, la politica, i governi, e in genere tutti i discorsivisti, possono fare per "far ripartire il lavoro" è astenersi da ogni fare, perché ogni loro fare non può che distruggere qualsiasi iniziativa.

 

 

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(1) Nel 1920 a Bad Nauheim, in occasione del locale congresso di ricercatori scientifici, ebbe luogo il famoso dibattito fra Lenard ed Einstein. In quel dibattito Einstein paragonò il proprio lavoro a quello di Galilei al punto che quando Lenard si appellò al sano pensare intuitivo nonché interpretativo della ragione umana, Einstein ebbe ad obiettare che "è pericoloso in Fisica usare la sana ragione umana, dato che la Fisica va compresa e non intuita" (B. Thüring, "Albert Einsteins Umsturzversuch der Physik und seine inneren Möglichkeiten und Ursachen", Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg 1940; in it.: "Einstein e il Talmud. Il tentativo einsteniano di scardinare la fisica", Ed. Ar). Riporto da altra fonte: "[...] Ciò che l'uomo considera intuitivo o non intuitivo è cambiato! La concezione di ciò che è intuitivo è in certa misura una funzione del tempo. Intendo dire che la Fisica è comprensibile e non intuitiva. Quale esempio sulla mutevole opinione su ciò che è intuitivo, vorrei ricordarle la comprensione di ciò che fu intuitivo della meccanica galileiana nelle diverse epoche" ("Physikalische Zeitschrift", Vol. 21: "Allgemeine Diskussion ueber Relativitaetstheorie bei Versammlung deutscher Naturforscher und Aerzte", Bad Nauheim, September 1920). Questa argomentazione di Einstein ebbe una tale progressiva eco nella letteratura di divulgazione scientifica e nei Media, che continua ancora oggi a generare attivisti non pensanti in ogni campo (della cultura, dell'economia e del diritto). Nella dinamica delle parole di Einstein finalizzate a togliere realtà all'intuire vi è solo un gioco di parole, dato che "ciò che è intuitivo" ha bisogno del "tempo" per intuire, ESATTAMENTE come ogni "comprensione" ha bisogno del "tempo" per comprendere. Insomma Einstein crede che basti battezzare una certa funzione cervellotica col nome di "tempo", così che poi questo tempo (ma lo si potrebbe fare con qualsiasi altro concetto o idea) possa avere un'origine e una fine, e quant'altro si voglia calcolare matematicamente. Con ciò, egli porta ogni cosa verso la misurazione in un regno della quantità o della pura forma in cui la matematica fatta di mere unità di misura, cioè di convenzioni, appare come il cappello di un prestigiatore, da cui può uscire fuori tutto e il contrario di tutto! Per esempio, in "Symmetries and Asymmetries in Classical and Relativistic", "Foundations of Physics", 21, 7, 1991, di U. Bartocci e M. M. Capria, si dimostra che il fenomeno dell'induzione assunto da Einstein a fondamento paradigmatico per la sua proposta di estensione del principio di relatività all'elettromagnetismo di Maxwell è in realtà soltanto frutto di una mera coincidenza di calcolo. Infatti la pretesa simmetria in tanti altri casi teoricamente prevedibili NON si verifica. In altre parole, l'elettromagnetismo di Maxwell non è "relativistico" come i fisici oggi insegnano, ma lo diventa soltanto quando i suoi parametri essenziali sono definiti in modo relativistico, il che però rimuove allora ogni possibilità di confronto tra DUE teorie che sono invece essenzialmente diverse. La comprensione di questo fatto permette la contestazione - fino a prova contraria dei supporters di Einstein - di ogni previsione relativistica almeno in ambito elettromagnetico. Oggi si crede ad Einstein prendendo la bomba atomica a riprova della sua Genialità" ma l'attribuzione ad Einstein del "merito scientifico" della costruzione dell'ordigno termonucleare è comunque stato sfatata o almeno è ancora molto controversa. La misura di "c" (velocità della luce nel "vuoto") è arbitraria: non solo perché non supportata da prove sperimentali reali, dato che la velocità "c" è una mera astrazione priva di connessioni con la vita reale, ma anche in quanto basa su una convenzionale unità di misura, assolutizzata come immutabile, incontrovertibile. Dunque anche se «l'ordigno termonucleare, tragicamente reale, è spesso citato come prova empirica della validità dell'einsteinismo. In realtà, semmai, dovrebbe essere al rovescio. Qualcosa di assolutamente reale qual'è l'ordigno termonucleare ben difficilmente potrebbe basarsi su fatti fantasmatici quali sono i coacervi algebrici einsteniani/relativistici» (S. Lorenzoni, "Come si rende miracolosa qualsiasi velocità" in "Contro l'einsteinismo", Libreria Editrice Primordia, pp. 27-27, Milano 2013).