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Altro annottare,
altro buttar d'ancore.
Dormiamo in gommone
contro un'insensata costa che sale con ripide balze alla cima
di un vulcano grigio, immobile, sornione: un animale cattivo
che nel 1800 ha fatto oltre 600 morti vomitando lava e lapilli
incandescenti.
Il trascorrere delle
giornate è ormai segnato solo dalle carte nautiche ripiegate,
dallo sfogliare del log-book. Il monsone, però, è garbato,
alza un po' di maretta per far sentire la sua presenza, poi
si appisola pigramente fino a sera.
Scivoliamo per ore sull'acqua
senza intendere altro che i toni diversi del rombare del Johnson;
tagliamo diritta la vasta Gili Lawa Bay e penetriamo in un
angusto passaggio che, di colpo si apre ai nostri occhi increduli
tra una miriade d'isolotti bruni. Stiamo contornando l'isola
di Komodo. Sette miglia in direzione sud e decidiamo di passare
al largo dell'isola di Punja: ne scorgiamo la sagoma, nell'oscurità,
solo quando le siamo addosso. Abbiamo perso la preziosa mezz'ora
dell'imbrunire perché Michel si è dovuto arrestare spesso
per problemi di carburazione. Credo che la colpa sia della
benzina, non certo di prima qualità, che intasa i filtri e
sporca candele e carburatore.
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La natura in questa
isola è di colpo cambiata, è brulla, deserta; mi ricorda alcune
delle Cicladi. Komodo, nella luce infuocata del tramonto,
mi appare bellissima: un'immane iguana addormentata contro
un cielo di freddo cobalto e d'oro. C'è un unico villaggio
di capanne a Komodo, che conta 500 abitanti, in fondo alla
Slawi Bay. Lo raggiungiamo a notte fonda.
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Veniamo amabilmente
ospitati dal capo villaggio, che riassume in sé tutta l'autorità
e la saggezza del giudice, del sahbandar e della polizia.
Da lui abita un giovane
insegnante di Flores, che mastica un discreto inglese.
« Komodo è nota per
essere l'ultimo luogo ove esistono i varani, i dragons. Ce
ne sono 5000 di queste bestiacce lunghe oltre tre metri che
si cibano di maiali selvatici e di piccole antilopi. Riempitosi
il ventre, possono restare a digiuno per un mese in un semiletargo.
Corrono veloci come il vento questi mostri. Due anni fa uno
svizzero ci ha lasciato le piume tra queste montagne, là dove
i varani sono più selvaggi, grossi e affamati », ci spiega.
Un mese dopo il nostro passaggio sull'isola, leggerò sui giornali
che un francese seguirà la stessa sorte. Divorato.
Il maestro di Flores
continua. « Il pericolo reale di Komodo, però, sono i serpenti:
velenosissimi, sono sovente la causa della morte di qualche
imprudente viaggiatore. I varani, poi, si occupano di far
scomparire tutto: rimane spesso una macchina fotografica unica
testimone della tragedia ». Di varani, pochi lo sanno, ce
ne sono anche nella non lontana isola di Rinja e sulle montagne
della costa ovest di Flores.
L'ospitalità, a pagamento,
del capo-villaggio consiste soprattutto nell'obbligo di consumare
i pasti nella sua capanna. Riso scotto con pescetti e calamari
seccati al sole, salatissimi e pieni di sabbia: un bicchiere
di tè è il gran finale del pasto.
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Il 26 agosto sveglia
alle cinque e mezza per fotografare le "rosee dita" dell'alba.
Prima che sorga il sole mi arrampico affannosamente su di
un pendio con gli occhi cuciti dal sonno e « maledizione,
ho dimenticato le pellicole ».
Per non perdere l'attimo
della nascita dell'astro mi precipito giù dalla scarpata:
precipito letteralmente, grazie al fatto di aver dimenticato
di allacciare le stringhe delle scarpe da tennis. Volo interminabile,
capriole e salti mortali tra gli apparecchi foto e gli obiettivi
che, obiettivamente, si spandono intorno.
Gran colare di sangue
ai ginocchi e schienata paurosa che non dimenticherò per due
settimane.
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Alle nove si va a vedere
i varani, dopo una discussione ecologica se sia giusto o meno
il necessario sacrificio della capra.
Prevale la linea pro-varano,
il clan dei falchi, e dopo due ore di marcia giungiamo ad
un canyon profondo 15 metri, in fondo al quale il becco viene
immolato.
C'impiega un bel po'
il piccolo dragone ad arrivare, sospettoso e affamato: si
guarda attorno, poi si butta sulla capra con violenza terribile
strappando brani di carne con morsi feroci.
I varani grossi arriveranno
soltanto domani, quando l'odore della carne decomposta li
risveglierà nelle loro caverne tenebrose.
Il giorno seguente ce
ne andiamo da Komodo. « Andate a salutare i pescatori di perle,
un isolotto verso settentrione », suggerisce il maestro di
scuola. Va bene, ci andiamo.
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Sono lì, in dieci o
dodici, su di una lingua di sabbia larga 50 metri e lunga
cento, un capanno, bombole, una barca a motore. Raccolgono
in prevalenza le madreperle che vendono a 100 rupie il chilo
brut, duecento lire appena! Bruni, muscolosi, resistono a
un isolamento di mesi e mesi. Non apprezzano di certo la poesia
delle albe incolori, il luccichio degli abbacinanti controluci.
Lavoro, dannato lavoro e basta. La navigazione per Labuan
Baju, sull'isola di Flores non pone problemi, la distanza
non è grande. Dobbiamo passarci perché a Komodo ci avevano
detto di avvisare del nostro breve soggiorno all'isola dei
varani. Di fatto, è proibito andarvi senza una speciale autorizzazione.
Gaspar, boss del paese e incaricato della protezione dei varani
riesce a spillarci un bel po' di rupie: questa è la legge.
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Ripartiamo per Maumere.
In breve doppiamo l'insidioso capo di Wadu Ramba lasciando
a destra i reefs, a sinistra il meraviglioso isolotto di Seraya
Besar. Avanti a 15 nodi, quando: poff! La mia chiglia si appiattisce
all'istante. L'elica in questa situazione cavita, la planata
non è più possibile, anche con il mare piatto. Un atterraggio
di fortuna sulla costa, nei pressi della punta Boleh, è respinto
da una complessa barriera corallina, che si protende verso
il largo e rende vano ogni sforzo d'approdo. Mogi mogi ritorniamo
a cinque nodi per Labuan Baju. A Labuan Baju siamo ospiti
d'onore di una festa di matrimonio che meriterebbe una lunga
descrizione.
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Il mattino dopo constatiamo
che la chiglia del Selamat è irriparabile, la parte posteriore
è letteralmente "scoppiata": uno sfacelo. Altre toppe messe
in precedenza si scollano, probabilmente a causa dell'induritore
che ha sofferto il caldo. Michel, affranto, si prende la testa
fra le mani, poi ordina una generale bevuta di birra, per
il morale. Proviamo a incollare all'interno il fondo della
chiglia, piatto, lo avvolgiamo poi su di sé come uno strudel
perché l'aria non esca: la funzione di reggere l'ultimo pagliolo
e tenere il fondo del gommone è affidata a un blocco di gomma
dura, incollato sul pagliolo stesso.
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Passo una brutta notte.
Prima, mi sveglio di colpo, con un gattuccio puzzolente che
dorme sul mio cuscino; poi, un lungo angosciante sogno d'aver
perduto valigie, documenti e macchine foto. Per guadagnare
tempo Michel e Francine partono per Reo a cercare benzina,
noi restiamo a rimontare il Selamat. Lo raggiungeremo la mattina
dopo: appuntamento in mezzo al mare al largo di Capo Toro
Lubu.
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30 agosto.
Strappiamo ben 150 miglia
per arrivare a Maumere, il paese più importante della costa
nord di Flores. Ci arriveremo nella notte, molto stanchi.
Ogni mezz'ora devo gonfiare
la chiglia che, nonostante la riparazione, continua a perdere
un poco. Il blocco di caucciù, invece, fa il suo dovere e
l'elica non cavita sotto i 4000 giri. Il mare continua ad
esserci favorevole per la maggior parte del percorso. Il Tg.
Batu Manuk viene doppiato al buio. Adesso navighiamo estremamente
tesi, per paura di uno sgradito incontro con gli isolotti
o scogli affioranti di Unjuram che si trovano sulla nostra
rotta. Conduciamo a turno, con gli occhi spalancati, pronti
ad un tremendo, finale botto.
Solo quando le luci
di Maumere ci indicano che abbiamo superato la zona pericolosa
la tensione si allenta- L'attracco e il successivo ormeggio
sono allucinanti: nell'acqua fino al collo, tesiamo cime,
incastriamo ancore, urtiamo i piedi contro rocce appuntite,
dolore, freddo, buio. Altro cinese, altro losmen dove sbattiamo
le ossa rotte.
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A mezzanotte c'è ancora una
ragazza ospitale che ci dà un piatto di riso con un mazzo di satè.
Sono spiedini cotti sulla brace, ricoperti da una salsa di arachidi
e peperoncini. E birra, fiumi di birra per dimenticare le troppe
miglia che dobbiamo ancora percorrere. Vagabondi perduti nell'Indonesia
orientale, su gommoni rabberciati come vecchie valigie di emigranti,
in un'assurda, folle corsa, divenuta ormai un trascinarci d'isola
in isola, di scoglio in scoglio. Lasciando dietro a noi una visibile
traccia di arnesi rotti, cose perdute, viti, lattine vuote, odore
di benzina. Sentiamo di essere complici di quel mostruoso ingranaggio
che è l'inquinamento delle culture.
Testo
e foto by Massimo Maggia - 1977 - |