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Singapore, Sumatra.
Giava, Bali: il raid sui due gommoni Selamat e Berani continua
con questa quarta parte del viaggio.
Le avventure
non mancano, forse sono anche troppe. Tanto da sentirsi scoraggiati.
Siamo in giro ormai
da un mese e, dopo mille peripezie, dopo aver toccato le isole
di Sunmatra e Giava, siamo giunti a Bali, dove abbiamo buttato
l'ancora nella Gili Manuk Bay, all'estrema punta ovest dell'isola.
Seduto su un tubolare del Selamat, i piedi dondolanti nell'acqua,
affetto un mango
profumato.
La tranquillità
del momento viene disturbata da un'imprecazione di Bernhard.
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« Una
maschera s'è rotta: a prua ci sono vetri dappertutto». Nel
grande sacco sub la cintura con i piombi ha combinato il disastro.
Controllo
la chiglia: piatta, probabilmente si è forata negli ultimi
minuti di navigazione.
Continuare
fino a Benoa è troppo rischioso, il fondo del battello diverrebbe
un colabrodo.
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Ricordo,
con un moto di stizza, le parole a Giakarta di Ciccio, furioso
col neo-arrivato John. « Quel bischero ha la mania di riordinare
tutto a bordo, ma non capisce un belin di mare e fa solo casini
». E
adesso ci accorgiamo che l'amico belga aveva infilato i piombi
(che erano a poppa, vicino alle ancore) nella sacca di pinne
e maschere, stivando il tutto a prua, sotto i giubbotti salvagente.
Di fronte
c'è il villaggio di Pemikiran, posto di sbarco del traghetto
che collega l'isola con la vicina Giava, andremo lì.
Mettiamo
lo Zodiac in secco, smontiamo tutto e ripariamo ben 9 fori.
Quindi ci dedichiamo a una lunga e minuziosa ricerca di ogni
frammento di vetro, che sarebbe fonte d'infiniti guai. Poco
distante dal mare c'è un tempietto induista con un quadrato
coperto e un po' sopraelevato, ove si svolgono le cerimonie.
Perfetto per trascorrervi la notte. Non accendo il lume per
timore d'essere scoperto e cacciato. Mi distendo sotto gli
occhi imperscrutabili di Shiva e di Ganesha e sprofondo con
i miei pensieri e i miei sogni nell'oscurità ventosa.
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La navigazione
del sei agosto è caratterizzata da violente correnti e controcorrenti
che fanno ribollire il mare. La costa sabbiosa è piuttosto
bassa e dietro s'intravedono i fumanti picchi dei vulcani
dove dimorano dei ed eroi.
E' un
susseguirsi di cime annuvolate, Grogak. Abang, Batur, che
raggiungono l'estrema perfezione negli oltre diecimila piedi
del Gunung Agung, il Tetto del Mondo, la Montagna Sacra.
Fu
creato dalle divinità Hindù, quando vi si rifugiarono dopo
il disperato abbandono dell'ormai maomettana isola di Giava.
Raggiungere
la punta rocciosa sud di Bali è un'impresa durissima a causa
del mare incrociato.
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Tutto,
sul gommone, si sta disgregando.
La pompa
di gonfiaggio si sfascia per il troppo uso. Un serbatoio di
gomma si squarcia e spande quaranta litri di miscela sul pagliolato.
Un altro, vuoto e sistemato a poppa, è trafitto da una marra
dell'ancora, che va a piantarsi, in un sobbalzo, nello specchio
di poppa. Più grave è il problema della grossa "consolle"
di legno che si sta aprendo da ogni
parte. Le viti non tengono più e fuoriescono: guai se dovesse
caderne una sotto i paglioli.
Comunico melanconicamente
a John che non ritengo di avere più del 50 per cento di probabilità
di arrivare in Australia. Poco
prima di Tg. Mebulu la cassa posta a centrobarca, per contenere
tutte le attrezzature, è in agonia. La imprigioniamo con numerosi
giri di cima, perché non vada in pezzi proprio ora.
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Contro una
vasta spiaggia, sovrastata dagli strapiombi del sinistro promontorio
di Tafelhoek, onde pazzesche si rincorrono spumeggiando. Mi
tengo molto al largo, ho paura. Vedo il fumo dell'acqua frangente,
che il vento alza per decine di metri. Proprio oggi, su questo
litorale, annegherà un uomo. Al largo, invece, il mare è divenuto
un saliscendi di lisci dorsi d'onde che ci fa guadagnare in
velocità e in piacere d'andare. Più tardi, cerco con attenzione
il passaggio tra i reefs per raggiungere il porto di Benoa,
l'unico buon ridosso di tutta Bali. Inizialmente ci perdiamo
tra i pericolosi bassifondi, ma poi alcune rassicuranti boe
ci conducono nel riparato specchio d'acqua dove stanno alla
fonda diverse barche a vela e dove dovremmo trovare Ciccio,
arrivato dall'Italia con le chiglie nuove per i due gommoni.
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Mi affianco ad uno yacht
neozelandese di 15 metri. Salta fuori un sessantenne asciutto
e vigoroso che ci invita a bordo per un drink. Non ce lo facciamo
ripetere due volte: il Berani, l'altro gommone, non c'è ancora
e aspetteremo Michel e Frantine bevendo con Alex (così si
chiama) e sua moglie. E' da sette anni che girano a vela per
il mondo. La loro barca è di Logan, un eccezionale architetto
della Nuova Zelanda, ormai morto. Fu costruita 41 anni fa,
ma sorprende per l'attualità del disegno e la robustezza della
costruzione. Una barca di Logan è un capolavoro riservato
agli amatori: introvabile, chi ce l'ha se la tiene ben stretta.
Ora vogliono risalire verso Sumatra per visitare le isole
di Nios e Siberut, due perle per l'appassionato di etnologia.
Arriva finalmente Michel.
Continuiamo a bere e a discorrere animatamente, poi scendo
barcollando sul Selemat.
Sto tesando, nel buio,
un'ancora a prua e una cima a poppa, quando appare Bernhard.
« Ciccio è arrivato da due giorni, è a Kuta, però non ha le
chiglie nuove ».
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La notizia è una doccia
fredda, soprattutto per Michel, che, pieno di whisky com'è,
si lascia andare ad una pazzesca crisi di nervi.
Incomincia a urlare
che sono
due anni che prepara questa fottuta spedizione, che tutte
le responsabilità verso gli sponsor ricadranno su di lui,
che non arriveremo mai in Australia, che quando tornerà avrà
perso il suo lavoro, che dovrà pagare tutto lui. Corre poi
sul gommone, butta a mare qualcosa, tempesta di pugni tubolari
e consolle.
Tutti
gli equipaggi delle barche alla ruota seguono la scena, preoccupati
e divertiti.
Lasciamo
che si sfoghi.
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Trovo Ciccio a Kuta
nel Losmen Wirtha di Sudi, un giovane induista sempre sorridente,
clic mi viene incontro con un grande abbraccio. Mi tiene una
mano sulle spalle. mi offre tè caldo, riso nero e banane.
Qui i ristorantini abbondano, con spreco di bistecchine di
tartaruga, aragoste, crépes squisite (qui le chiamano pankakes),
frutta tropicale. Per non parlare di certi frullati cremosi
di papaya e passion-fruit.
Ciccio mi spiega che
non è riuscito ad andare a Parigi, ma ha parlato via telefono
con il direttore della Zodiac che gli ha confermato d'avere
già inviato chiglie e gonfleurs a Giakarta. Lì, però, le pratiche
burocratiche per lo sdoganamento saranno lunghe.
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Ciccio, poi, per le
sue faccende astronautiche, dovrà tornare definitivamente
in Italia tra un paio di settimane: non viaggerà più molto.
Spiego al preoccupato
amico che la sua schiodata consolle, sul Selamat, sta andando
e pezzi e ci mettiamo subito al lavoro per ripararla. E' un
ininterrotto andirivieni tra Kuta. Benoa e Denpasar, per risolvere
definitivamente il problema. Angolari di alluminio sproporzionati,
spessi 5 mm, fasceranno tutta la cassa e saranno fissati con
grossi vitoni passanti: un lavoretto che la trasforma in una
specie di cassaforte.
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I giorni volano, il
riposo balinese sta diventando un soggiorno forzato. Ne
approfittiamo per visitare l'isola in motocicletta. Sarebbe
troppo lungo descrivere i meravigliosi paesaggi di Bali, le
risaie disposte in lucenti gradoni, gli estatici laghi, i
templi nella foresta.
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A Ubud conosciamo la
magica policromia dei pittori naif, verso Kintamani l'arte
degli scultori del legno.
Pagaiando e sgottando
in continuazione su di un rudere di canoa attraversiamo imprecando
il lago Batur per dare un sguardo al villaggio di Trunyam,
dove sopravvivono credenze animistiche e usanze che impongono
di non seppellire i morti, ma di lasciarli a decomporsi sotto
piccoli capanni di frasche.
Assisto a un impressionante
combattimento di galli (questo sport viene praticato in tutta
Bali, con un tumultuoso fiorire di scommesse) al termine del
quale il padrone del gallo vincente strappa all'animale che
ha perduto, ancora vivo, il ciuffo di penne della coda e ne
mozza le gambe con un coltellaccio.
A Klungkung partecipiamo
a una faraonica festa in un tempio formato da numerosi "Meru",
le Torri dai molti tetti; vicino a Denpasar ci mischiamo alla
folla colorata di una "ngaben", la cerimonia della cremazione.
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Per non parlare delle musiche
e delle danze, il Barong, il Ketijak, la Ramayana che sono un po'
il simbolo del folklore di Bali.
Siamo al 14 agosto e non ci
sono novità per le chiglie. Ciccio
decide di anticipare di una settimana il suo rientro obbligato,
per cercare di sdoganarle personalmente e spedircele da Giakarta.
E' triste come un segugio
in pensione, gli spiace abbandonare. Anche a me spiace che
l'amico migliore parta. Ha curato la preparazione del Selamat,
ne è lo skipper e si sente in dovere di darmi gli ultimi consigli.
« Fa' filare l'equipaggio. Cerca di portarmi l'adorato Selamat
fino in Australia ».
Finiamo di eseguire
piccole riparazioni a bordo, poi filiamo a Denpasar a prendere
i "ricordini" del genovese, un monumentale gamelan e altri
monumentali strumenti musicali e via all'aeroporto.
In due sulla 125 Honda
con sacchi da montagna stracolmi, una spaventosa valigia,
una cassa di 15 chili di macchine foto, statue lignee, maschere
di Giava, antiche armi da taglio. Con grave ritardo, serpeggiando
per il carico, non riusciamo a superare i 40 all'ora. Fino
al momento in cui un cane s'infila sotto le ruote. Frenata
bloccaruota, ululi di bestia ferita, sfacelo di caduta. Atterriamo
sui jeans sparpagliati, per poco un kriss malese non m'infila:
un gong suona a morte e rotola via sull'asfalto. Non è niente,
non è niente, svelto che l'aereo parte.
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Ma arrivati all'aeroporto
il Boeing è già partito. Ciccio dormirà sulle poltrone: c'è
un DC 9 per Giakarta alle quattro della mattina successiva.
Ferragosto.
Sono stato su un catamarano
d'inglesi in giro per il mondo a tappe. Tanto Pacifico, l'Australia.
Sono stato su una barca
d'italiani, lui di Roma, ma da dieci anni oceanografo a S.
Francisco, lei di Torino. Hanno venduto un appartamento, comprato
un ketch di 15 metri: 2 anni e mezzo in giro per la Polinesia.
Adesso tornano, vendono la barca, comprano un alloggio, non
ne possono più di mare.
Bali, sempre bloccati
a Bali.
Stasera andiamo al Garden,
l'unico luogo dove si mangiano le vere special omelettes con
i magie mush-rooms, i rinomati funghi allucinogeni.
Diamo un'occhiata in
cucina: sono piccoli, neri, un po' ammuffiti. Spiamo i primi
sintomi: uno ha crisi di riso, l'altro si sente stanco, l'altro
ancora melanconico. Come al solito, mangiando riso e kebab.
Per me i funghi sono falsi, oppure, come qualcuno suggerisce,
bisogna ingoiarli la mattina a digiuno. Nessuna visione mistica,
appare solo il conto.
In compenso una strana
orticaria ci prende alla schiena: eritemi, mal di fegato?
Sono le sedie di giunco di fratello Sudi che incorporano il
tremendo male: ci strofiniamo per una settimana come orsi
in calore.
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Il 16 agosto decidiamo
di partire. Michel resta a Benoa ad aspettare le chiglie:
ci raggiungerà poi ad Ampenan sull'isola di Lombok.
Il mare non è favorevole,
ma non importa; prendiamo con gioia i primi spruzzi in faccia.
Poi, la traversata diventa allucinante per il vento in prua.
Mi butto sullo stretto canale che separa le isolette di Lembongan
e Nusa Bèxar: una grande idea, sette miglia di mare piatto
ridossato.
Poi l'inferno.
Il Lombok strait è famoso
per le sue correnti che passano i sette nodi, per i colpi
di vento improvvisi, per il mare incrociato. È tutto vero:
uno dei peggiori mari incontrati, con frangenti traditori
che si riversano a bordo allagando tutto. In un salto, il
maledetto pagliolo di prua esce dai longheroni. Qui si va
di male in peggio.
Ne sono sicuro, sono
Kalas e Butas, i demoni che vivono nel profondo degli abissi,
che vogliono mandarci a fondo.
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Non sanno che abbiamo
cinque scomparti separati (viva Zodiac!) e un motorino di
scorta.
Non posso più tenere
la velocità necessaria per evitare le ondate, per timore di
lacerare il neoprene, e gli ombrinali non riescono più a scaricare
i torrenti d'acqua che sono a bordo.
Ripetendo con monotone
voci gli esorcismi suggeriti da Indra, arriviamo a quel porto
di Ampenan che non è un porto, ma un molo in ferro distrutto
contro il quale le onde frangono violente.
I1 peggiore ormeggio
di tutto il viaggio. Dobbiamo ancorare il Selamat al largo
con tutte le ancore e le cime che abbiamo, poi nuotare fino
a riva, per ficcarci nel losmen Phabean ad asciugarci le ossa.
Purtroppo ho dimenticato
a bordo la pipa, altra nuotatina. Diavolo, ho dimenticato
nella consolle i traveller's cheques: altro crawl con il sac-boulle
appeso al collo. Siamo morti di sonno e di stanchezza.
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17 agosto.
Giornata nera, anzi
nerissima. La cima di ormeggio di prua, annodata ad un palo
di ferro coperto di ruggine e di conchiglie, si è slacciata.
Ora il Selamat galleggia tranquillo attaccato alle ancore
di poppa. Mi isso a bordo, per spostare a prua le cime d'ormeggio
e mi accorgo che hanno rubato il borsone con tutti i miei
averi, farmacia e sacco a pelo compresi. Torno nuotando alla
spiaggia dove ho lasciato scarpe e maglietta: rubati. Meno
male che nel sacco da montagna m'ero portato appresso soldi,
apparecchi fotografici, arnesi da fumo, libri, lettere, log-book:
le cose preziose.
Quasi mi viene voglia
di piangere.
Questi indonesiani quasi
non li posso più vedere. Uno del posto, probabilmente il ladro,
si offre di dormire a bordo, come sorvegliante: 300 rupie.
A Cakranegara mi compro scarpe da tennis, una copertaccia
che cucio uso sacco, tiger balm, al posto delle medicine.
Michel non arriva ancora.
Partiamo in moto per
l'interno: Mataram, le montagne di Téte Batu, le polverose
strade dell'est, un paesaggio brullo tipo afgano, battuto
da un vento desolato. Scasso la Yamaha, trascorro un pomeriggio
da un meccanico arrangiatutto. Mi
dice che le isole Sulawesi, Halmadira e West Irian sono meravigliose.
Dovremo andarci un giorno.
18 agosto.
Un terremoto spaventoso,
65 morti a Sumbawa, 2 a Lombok. Non me ne sono neppure accorto,
ero in giro in moto con Bernhard: salto più, salto meno. John,
invece, al losmen è schizzato in strada verde di paura: le
case sono basse, scricchiolano, ondeggiano, ma non crollano.
Saprò che in Italia, parenti e amici, che chiedevano notizie
precise all'ambasciata indonesiana a Roma, hanno ricevuto
una confortante risposta: Ma come ci dispiace, proprio un
vostro parente, che fatalità!
È sorto un vulcano dal
mare a ovest di Sumba, è esploso, un'ondata alta 20 metri
ha sommerso la costa sud dell'arcipelago indonesiano. Che
disgrazia! ».
Michel è ancora a Benoa,
attende pazientemente che Ciccio gli spedisca le chiglie,
seduto sulla panchetta del Berani. Guarda i pescatori che
scaricano le tartarughe giganti che arrivano dall'isola di
Serengan, i nidi di rondine di Nusa Penida. Ci racconterà
che, d'improvviso, ha visto tutta la grande baia svuotarsi
dalle acque, poi riempirsi e così via in inspiegabili, violente
ondate di marea. Per un pelo il Berani, con Francine addormentata
a prua, veniva scaraventato contro le rocce.
I giorni passano in
vagabondaggi alla easy rider. Acquistiamo due "piedi di porco"
giganteschi per rimettere a posto il planchet del Selamat
senza doverlo smontare: geniale, l'operazione riesce perfettamente.
Incontriamo il nostro guardiano da 300 rupie, ci dice che
nella notte ha dovuto lottare con due "orang" che volevano
fregare il motore da 9.9 cv. Bah!
La notte seguente il
tizio ha già delegato un amico a dormire in barca. Alle otto
di mattina il gommone non c'è più: impossibile, era ancorato
con due cime e due ferri.
È laggiù, trecento metri
a dritta: l'amico ha messo giù il nove cavalli e si diverte
come un matto. Infuriati, lo raggiungiamo' sulla riva, sbatacchiato
dalle onde, il motore che non riparte: non c'è cosa a bordo
che non abbia toccato e smontato. Ha pure forzato la serratura
dell'avviamento del motore principale, sigarette e oggetti
minori sono spariti. Minacciamo di andare dalla polizia e
ci incamminiamo insieme: tre secondi dopo il tipo se la dà
a gambe con uno scatto degno di un'olimpionico.
Michel arriva il 21
sera con le chiglie, che sono una sola: l'entusiasmo ci sta
abbandonando.
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Domattina partiremo
a velocità ridotta da Ampenan per trovare una spiaggia ridossata
dove smontare tutto il Berani e piazzare la chiglia nuova;
sul Selamat si andrà avanti a pompare ogni tanto.
Navighiamo con mare
buono dalle 9 alle 15, poi alle tre di notte con l'alta marea
spingiamo in secco il gommone per averlo all'asciutto di buon
mattino. La sostituzione viene effettuata lasciando al suo
posto la vecchia chiglia e infilandoci dentro la nuova, dopo
averne tagliato le estremità: così per quasi tutta la lunghezza
il tessuto sarà doppio e avrà una maggior resistenza.
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Ripartiamo. Sembra che
in questo tratto di mare il monsone abbia allentato il suo
crudele soffiare: l'acqua è levigata a specchio, limpida,
traspaiono coralli e gorgonie, un invito a nuotate che non
troviamo il tempo di fare. Sumbawa è situata in fondo a una
grande insenatura dell'isola omonima, la città è parecchi
chilometri all'interno, qui c'è solo una grande spiaggia,
poche case, numerosi sampan a bilanciere. Ora ci vogliono
più di 150 miglia per raggiungere Komodo.
Il mattino è perduto
in faticosi andirivieni per trasportare a bordo 12 serbatoi
da 70 litri. In navigazione il mare continua a regalarci il
suo migliore aspetto. Con il primo scurirsi del cielo, arrivano
lucidi e allegri i delfini; poi, Michel urta contro un grosso
oggetto biancastro semisommerso: alla sinistra fuoriesce dalla
superficie una pinna, l'estremità di un'ala spiegata.
La manta, la manta gigante!
Possente, come un grande uccello ferito si tuffa, riemerge,
ci avviciniamo piano, si rituffa. Piano, piano, spegni , il
motore! È una bestia immensa, dalle forme purissime. Un volo
librato, una picchiata veloce, un'improvvisa cabrata.
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Testo
e foto by Massimo Maggia - 1977 -
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