| Maumere, sull'isola
di Flores, non è una cittadina molto attraente e l'abbandoniamo senza rimpianto,
per affrontare l'ultima parte del viaggio, che ci porterà in Australia. La
costa, che verso est sfocia nella Pedang Bay, si fa invece bella e, dopo poche
miglia, ci arrestiamo un poco presso Waiparc, ad un villaggio club tenuto da italiani,
un gruppo di pochi bungalows nascosti tra le palme. Gentile
e raffinata, la "Manager", Alessandra Ambrisini, ci racconta le difficoltà
avute per avviare il complesso turistico; l'iniziativa aveva trovato sostanziali
ed entusiastici appoggi nel governo indonesiano, ma ha avuto un inizio difficile
a causa della guerriglia della vicina Timor, dalla cui capitale, Kupang, dipende
amministrativamente l'isola di Flores. E' impressionata dal vedere le ulcere tropicali
di Michel e Francine, che non riescono a guarire, e consiglia loro una polvere
sulfamidica particolarmente efficace.
| Si
riparte. Abbiamo fretta di giungere all'isola di Lomblen, forse riusciamo a racimolare
un paio di giorni per vedere, a sud, il villaggio di pescatori di balene. A Larantuka,
sulla punta est di Flores, c'è addirittura una scuola di pesca, che cerca d'insegnare
metodi più moderni della caccia all'arpione, ancora praticata. |
Dopo un'ora e mezza di navigazione,
segno d'alt di Michel: un longherone gli è saltato fuori. Dopo un infruttuoso
tentativo di riparazione in mare, con i palanchini comprati ad Ampenan, ci dirigiamo
in fondo alla baia di Pedang. Poco distante, c'è una missione cattolica: chiederemo
ospitalità. Insieme
con la marea scende la sera: ci avvolge in una cappa. dorata, poi rosso viva,
alla fine violetta. Il golfo è bellissimo e isolato, sebbene Maumere sia a poche
decine di chilometri. Attraversiamo un villaggio di "gubuk", le tipiche capanne
di bambù e foglie di palma, immerso nella foresta tropicale grondante d'umido,
e ci avviamo alla missione. Padre Otto Bauer è svizzero, di S. Gallo, grande e
ridente come devono essere tutti i missionari, senza barba però. Da 15 anni vive
in Indonesia, è un etnologo appassionato. A
Flores l'85% della popolazione è cattolica, solo il 50% parla l'indonesiano perché,
specie all'interno, sopravvivono gli antichi dialetti. Tutta la vita della gente
è però profondamente impregnata da salde credenze animistiche: credono nel Sole
e nella Luna, di cui siamo figli, ed hanno un autentico terrore degli antenati.
« I vecchi trapassati - ci spiega padre Bauer - vanno a risiedere tutti qui di
fronte, sull'alta montagna dell'isola di Mangkure: di lassù controllano se figli
e nipoti si comportano bene e, se qualcuno trasgredisce alle regole millenarie,
la punizione colpisce senza pietà ».
Il simpatico missionario cerca da anni, tra molte difficoltà, di trasformare in
cul ti di gioia le paurose credenze che colpe volizzano e intristiscono la gente.
Con
noi, è di una ospitalità commovente. Birra,
come aperitivo, con piccoli wiirstel e senape.
« La prima volta che gli abitanti di Talibura mi hanno visto mangiare questi salsicciotti
- dice - sono scappati urlando: il Padre divora dita umane! ».. Segue
personalmente una quarantina di villaggi che si estendono fino alla costa bagnata
dall'oceano, oltre 10.000 persone: « f3 difficile entrare in confidenza con loro,
i differenti dialetti sono d'ostacolo, ma ci sono soprattutto magia, tanta magia,
sospetti, paure. I
riti sono del tutto esoterici, ogni patto viene suggellato col sangue di un animale
sacrificato». | |
Dormo in una
linda cameretta con acqua corrente (magnifico) e zanzariera: la malaria qui è
molto diffusa, c'è ne di un tipo che porta febbri altissime. All'alba,
mentre i primi raggi filtrano tra le larghe foglie degli alberi, scendo sulla
spiaggia. Sgonfiamo i tubolari del Berani e, senza smontarlo, inseriamo un blocco
di gomma dura contro il longherone, perché resti ben incastrato nei paglioli:
una riparazione provvisoria e non molto convincente. Lontani, i rintocchi della
campana della missione ci chiamano al pranzo d'addio, su di una vera tavola apparecchiata.
Lasciamo a Otto Bauer un pacco di medicine, ci ricambia con una bottiglia di snaps
che è una panacea per tutti i malanni, malaria compresa. Partiamo
verso il largo su un mare piatto, superiamo facilmente il Pangh Batang Strait,
l'isola dei Morti, l'isolotto Babi. Per la notte scegliamo una piccola spiaggia
di madrepore, sbiancata dal sole, nei pressi di Capo Gedong. Accendiamo un fuoco,
grigliamo del pane, del formaggio, qualche banana. Michel mi chiama sul Berani,
restiamo per due ore a discutere sui programmi, sulle possibilità di riuscita
della spedizione, che diventano sempre più rosee mano a mano che scende il livello
dello snaps nella bottiglia. Fin quando la luna si fa più grande, le stelle sfumano,
il fuoco è un anello rosso di brace. All'albeggiare
i battelli volano sulla liscia superficie dell'acqua, con tiepidi spruzzi sul
volto. Ci teniamo al largo dei reefs di Serbete, all'uscita dello stretto di Flores.
Già la sagoma dell'isola di Adunara è riflessa alle nostre spalle nelle increspature
del mare. Attraversando lo sbocco del Boling Strait le onde danno molto fastidio,
poi, oltrepassata la punta Wai Au, si spianano di nuovo. Non abbiamo il tempo
di esplorare l'amplissima baia di Wai Hinga che, per otto miglia, diventa una
specie di lago interno. Il
bell'andare finisce con un grido di Michel. Ha acqua a bordo, una spaventosa falla,
sta andando ai pesci. |
Altro che scegliere l'approdo, viriamo
di 900 e dirigiamo sulla costa, che raggiungiamo con difficoltà, superando una
complessa serie di barriere coralline. Sul costone dell'isola, in alto, occhieggiano
numerosi tetti di capanne, sotto c'è una spiaggia di sabbia e d'alghe. Gli
isolani si affollano intorno e decine di braccia robuste, con grandi "hoop" di
incoraggiamento, trascinano a secco il Berani per parecchi metri. Smontiamo rapidi
e silenziosi: una catena di mani scure ammassa la roba contro le rocce, al riparo
dall'alta marea. |
Lo Zodiac viene messo a nudo come un grande ferito, è sufficiente un primo esame
per rendersi conto che il male è grave. Michel si sdraia sotto, i capelli nella
sabbia, le mani frugano sul fondo del gommone. Si
rialza terreo in volto, lo vedo improvvisamente magro, assai magro e invecchiato
d'anni. « C'est la catastrophe - gli trema la voce - il
Berani è irreparabile, il fondo si è scollato tutto contro i tubolari. È una barca
finita ». Segue
il nostro silenzio, avviliti, sporchi d'olio e di sabbia. Michel fa uno sforzo
per mantenersi calmo ma gli luccicano gli occhi.Dice: « Continuerò per l'Australia
insieme a Massimo sul Selamat », poi si butta a terra e rimane fermo a lungo,
faccia in giù nella sabbia. Hanno
inizio due giorni di lavoro disumano, dalle prime luci a notte fonda; tutti e
due i gommoni vengono smontati, la chiglia buona trasferita sul Selamat. Sette
ore occorrono per rimontare e fissare provvisoriamente i paglioli del Berani che
giace curvo e storto. A sera ci ritroviamo lerci, sfiniti e abbacchiati. In
riva al mare c'è un capanno di paglia con un focolare di pietre accatastate. Una
donna si offre di prepararci la cena: sgozza il gallo più bello e lo arrostisce
in pezzi minuti. Si beve uno strano intruglio caldo e piccante, pare tè fatto
con ginger aromatico. Sono brava gente gli abitanti di Lomblen, non rompono neppure
troppo. A tre chilometri
c'è un villaggio più importante con un negozio-bazaar: per sollevare il morale
del gruppo la "cassa comune" offre a tutti una ciucca di birra.
Non appena l'imbiancare del cielo ci sveglia partiamo a rimorchio, quattro nodi.
Sessanta miglia al traino. Sono con john e Bernhard sul Selamat, il Berani segue
a venti metri di cima. È diventato un goffo salsiccione umiliato, privo di vita;
talvolta, urtato da un'onda, cerca di mettersi di sghembo. Michel
è seduto su di un tubolare, di lato alla consolle, i capelli arruffati negli occhi.
È distrutto. I1 suo Berani, il coraggioso, è stato il primo dei due gommoni che
ha ceduto. Francine
sbocconcella una banana e dice una stanca battuta di spirito. Nel primissimo pomeriggio
del 5 settembre raggiungiamo Kalabahi, situato in fondo ad un fiordo profondo
rivolto a ovest: è l'unico villaggio importante di Alor, e l'ultimo che incontreremo
navigando verso est. La decisione è presa: bisogna abbandonare il Berani. lo e
Michel continueremo sul Selamat. Il distacco è breve e un po' brusco. John, è
il più dispiaciuto di non arrivare alla fine del viaggio. Francine è indifferente
come al solito. «Ciao, vi aspetterò a Darwin. Se non arrivate in Australia per
il 15 settembre, darò l'allarme. In bocca al lupo ». Appena
sono partiti, Michel ed io ci rendiamo conto che un nuovo capitolo del cammino
è iniziato. Ne siamo quasi sollevati: era impossibile andare avanti come in quésti
ultimi giorni, facendo medie di percorso estremamente basse, sempre fermi ad aspettarsi
l'uno con l'altro. Diamdci da fare: adesso bisogna partire al più presto. Raccogliamo
le nostre ultime briciole di energia. Per
prima cosa occorre la benzina. Trovare 500 litri non è così difficile a Kalabahi,
ma siamo avvertiti che d'ora innanzi i problemi di rifornimento si faranno quanto
mai seri. D'altronde non possiamo aumentare maggiormente il carico del Selamat
che rischia già in sicurezza di navigazione, con più di 800 litri stivati a bordo.
Siamo a corto di soldi: per 15000 rupie vendiamo 20 chili di olio del Berani che
non ci saranno più necessari. Cerchiamo ogni possibile informazione sui posti
di rifornimento nell'estremo est dell'Indonesia. « All'isola di Kisar - dice un
cinese - c'è un mio lontano parente: troverete benzina ».
« No - replica un altro - l'isola di Babar è il solo posto dove c'è qualche fusto;
sia a Wetar che a Kisar sono a secco ». « Neanche per sogno - contesta un grosso
indonesiano con la faccia da papua - a Tepa, l'unico villaggio di Babar, ce n'è
solo qualche litro. Se ne volete a sufficienza dovete andare a Tanimbar ». Tanimbar!
Oltre 450 miglia ancora verso est. No, punteremo sull'isola di Kisar, gli dei
degli errabondi, se esistono, ci saranpo propizi. Nel pomeriggio del 6 settembre
ci dedichiamo al disarmo del Berani. Diverso materiale viene imbarcato sull'altro
gommone, anche la ruota di legno della timoneria a cui Michel tiene moltissimo,
essendo stata sua compagna di avventure gommonautiche per anni. Bussola, pannello
degli strumenti, carte nautiche, oggetti personali.
Il motore Johnson
da 9,9 Hp lo diamo in consegna al sabhandar, il capo del porto, insieme a quanto
potrebbe venire rubato. Prima o poi da Giakarta verrà qualcuno a ritirare tutto
per conto della Zodiac o della Johnson. NDR:
In realtà non verrà mai nessuno a ritirare il relitto del Berani,
, e quando parecchi anni dopo Michel, impegnato in un giro del mondo con il veliero
"Berani II" farà nuovamente tappa sull'isola, verrà riconosciuto
e portato al cospetto di quel che resta del suo gommone, conservato da chi l'aveva
avuto in consegna. |
Il
7 settembre mattina siamo pronti per partire, quando l'Harbour Master ci viene
incontro con la notizia certa che a Kisar non c'è benzina, e men che meno a Babar.
L'ha avvertito il capitano di un barcone da trasporto, una di quelle carrette
del mare che collegano le isole più sperdute facendo un modesto traffico di beni
di prima necessità. | |
Questo almeno in apparenza,
perché nessuno riesce mai a sapere cosa nascondono nella stiva. L'uomo però è
cordiale e, su pressione del Harbour Master, acconsente a trasportare a Kisar,
ove sta proprio andando, 300 litri supplementari di benzina per nostro conto.
Allo sconforto subentra
la felicità del casuale aiuto: trecento litri in più significano avere, "al pelo",
l'autonomia necessaria per raggiungere le coste australiane. Ci diamo appuntamento
col Budi Manis, questo è il nome della barcaccia, a Kisar tra due giorni. Abbiamo
dovuto pagare anticipatamente 1500 rupie per il trasporto, ma l'Harbour Master
ci ha garantito l'operazione togliendoci ogni perplessità. è ora di dare
l'addio a Kalabahi. Mezzo paese accorre sul pontile con allegria e vociare. Avviamo
il motore. Michel rivolge ancora uno sguardo al Berani che giace semisgonfio sotto
un grande albero di sandalo. Oggi
non abbiamo più molto tempo per navigare, dobbiamo sbrigarci. Con 840 litri di
benzina caricati sul gommone, non riusciamo però a planare; cinque o sei nodi
di velocità con un consumo di due litri ogni miglio. Disastroso! Uscendo dalla
profonda Kebala Bay, ci destreggiamo tra gli isolotti di Kumba e di Reta, doppiamo
capo Matari. II mare
non è particolarmente cattivo, ma imbarchiamo molta acqua per la velocità ridotta
e il basso bordo libero. A sera, le miglia percorse sono veramente poche: ci ancoriamo
sotto le rocce strapiombanti di Tgabi, in una caletta dalle acque scure e profonde.
C'è una fortissima corrente, pare un fiume sottomarino, che per due volte fa arare
l'ancora e ci obbliga a rifare l'ormeggio, adoperando tutta la cima disponibile.
Ceniamo con due scatolette di carne cinese bisunta, qualche biscotto, un po`di
latte. 8 settembre. All'alba
ingurgito una buona dose di enterovioformio per combattere la dissenteria che
mi tormenta da una settimana, mentre Michel si medica il piede piagato da un'infetta
ulcera tropicale. Alle sei si parte. Fino a punta Manamoni mare di sogno, ma quando
ci discostiamo dall'isola di Alor per traversare su Wetar, il monsone ci piomba
addosso con la consueta violenza. Attraversando lo stretto formato dalle isole
di Liran e Kambung il vento accresce la sua forza e imbianca il mare di frangenti.
Il Selamat avanza con una velocità quasi nulla, subisce colpi sordi e continui
scrosci d'acqua c'inondano. « Sovente, nel pomeriggio, il monsone cala - urla
Michel semiaccecato dagli spruzzi - poggiamo su Kambung e aspettiamo qualche ora
in un ridosso. Potrebbe essere solo un breve groppo di vento ». In
venti minuti approdiamo alla piccola isola. Riprendiamo forza e calore distesi
su di mia spiaggia d'un biancore abba-' gliante disseminata di meravigliose conchiglie
colorate. Poi ci ributtiamo nuovamente in quell'inferno. Il vento non è diminuito,
le raffiche, anzi, col calare della notte, si fanno più rabbiose. Un sole rosso-viola
sbava alle nostre spalle fiocchi di nuvole opalescenti. Onde di due metri, talune
di tre, frangono dritte contro la prua. Acqua che invade il goithmone con scrosci
di schiuma, tutto viene bagnato inesorabilmente. La notte è nerissima. Un po'
di paura quando un'onda non vista alza pericolosamente il muso dello Zodiac verso
l'alto: dopo un attimo di suspence ricadiamo pesantemente nella giusta posizione.
Un'altra cresta ci scaraventa addosso mezza tonnellata d'acqua. « Stiamo facendo
un'imprudenza a continuare - dico a Michel - nel buio non riusciamo a distinguere
le onde pericolose che c'investono. Cosa ne dici se ci rifugiamo a Wetar? ». Michel
è d'accordo, stava per farmi la stessa proposta. Poco
distante da capo Daielin, un anfratto di roccia ci protegge dalla buriana. Mentre
stiamo cenando una canoa si avvicina silenziosamente. Il linguaggio è più che
altro gestuale, ma riusciamo a capire qualcosa. Pare sia stato un colpo di vento
occasionale di particolare violenza. Domani il tempo sarà migliore. 9 settembre.
Navighiamo lisci come su di un lago fino a capo Eden, volando in un saliscendi
dolce di onda lunga, unico ricordo del brutto mare di ieri. Quando scorgiamo il
profilo scuro di Kisar il mare incomincia a incresparsi e si rileva in mille piccole
onde verticali. Approdiamo
sull'isola in un posto chiamato Pantai Wanreli. Il Budi Manis non ci ha tradito:
è là che ci aspetta con i provvidenziali serbatoi di benzina. Rifacciamo i conti
dei consumi, che hanno avuto un andamento crescente per le condizioni di mare
incontrate, e giungiamo alla sconsolata conclusione che ci occorrono almeno altri
due "reservoir souple" di carburante: 140 litri da trovare su un'isola semideserta.
I trasporti a Kisar sono effettuati tutti a spalla o a dorso d'asino; chiedo un
passaggio e mi aggrappo al. sellino dell'unica motocicletta che esiste sull'isola.
Il paese si trova diversi
chilometri all'interno. Quando vi giungo vengo sequestrato da cinque brutti ceffi
in borghese con facce da ergastolani che mi sottopongono a uno stringente interrogatorio.
Non riesco ad appurare se si tratta della polizia, della mafia locale o di semplici
contrabbandieri. In queste isole d'altra parte la linea di demarcazione tra guardie
e ladri non è sempre ben definita ... Testo
e foto by Massimo Maggia - 1977 - |