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| La
prima notte a Dabo Sing-kep, Bernhard ed io troviamo rifugio in una capanna in
riva al mare, gli altri dormono nei gommoni. E'
una notte d'inferno, scossa da un susseguirsi di violenti temporali. Il cielo
è squarciato dalla livida luce dei fulmini, il rombo del tuono si mescola
al crepitio assordante della pioggia sul tetto di foglie secche. Il
vento fa ondeggiare le pareti di canne, l'acqua gocciola sul sacco a pelo. Il
giorno seguente, siamo presto in piedi, per far benzina e per visitare l'interno
dell'isola, ricco di miniere di zinco che viene estratto con sistemi piuttosto
primitivi. | Siamo
perennemente seguiti da una turba di ragazzini, che ci pare abiano sui 12-13 anni,
mentre la loro età si avvicina ai venti. Le ragazze, timide e ridenti,
si spingono una con l'altra verso di noi; le più intraprendenti ci fanno
capire che vorrebbero essere portate lontano, in Europa o in America. 17
luglio, sveglia alle 4. ancora buio quando prendiamo il largo e i primi spruzzi
sulle facce assonnate. In programma e e una lunga traversata fino all'isola di
Bang- ka, un centinaio di miglia. Il vento soffia sui 15 nodi, esattamente di
prua, e sta rinforzando, il mare è rotto e scomposto. Dopo
tre ore di durissimo andare prendo un paio di rilevamenti e comunico a Ciccio
lo sconfortante risultato: abbiamo percorso, sì e no, venti miglia. A questa media
siamo certi che la benzina non è sufficiente per arrivare. Ciccio,
che ha curato la preparazione del Selamat e ne è il "capitano" ufficiale, si sbraccia
verso Michel perché si arresti. Le
urla si confondono col rumore del vento, del mare e dei motori accesi. "Non facciamo
più di sei nodi, la miscela non basta, bisogna tornare! ". "Al mio log abbiamo
fatto più di trenta miglia, io vado avanti!" grida Michel. Gli animi si accendono,
le parole rasentano l'insulto. Siamo
veramente furiosi per questo superficiale comportamento di Michel, se la "broda"
ci manca chissà dove andiamo alla deriva e la spedizione verrebbe compromessa.
Alla fine concordiamo di poggiare a dritta sulla vicina Sumatra pcr risalire il
fiume Hari fino a Djambi, dove troveremo il carburante necessario. Venti miglia
al traverso, si può navigare velocemente in planata pur continuando a imbarcar
acqua da ogni parte. Maledetto monsone!
Incrociamo
una bella nave che trasporta legname con le vele verdi-azzurre spiegate, poi ci
appare la costa sabbiosa del Tandjung Djabung.
lì fiume che dobbiamo risalire si divide in due branche che sfociano nel mare
a venti miglia una dall'altra. Ci
dirigiamo verso la foce della prima, che ci hanno detto navigabile, quasi 10 miglia
a Ovest da Capo Djabung.
Non passa molto tempo che siamo alle prese con nuove difficoltà: mancano tre o
quattro miglia all'imboccatura dell'Rari e il 70 Cv macina già sabbia e melma
in bassifondi da cui affiorano grovigli di rami e pali piegati dalla corrente.
Solleviamo
il motore principale e abbassiamo nell'acqua giallastra il 9,9 Cv che ha un pescaggio
inferiore. Mezzora dopo siamo nuovamente arenati e ci tocca tirare le imbarcazioni
affondando nel fango fino al ginocchio. lì caldo soffocante riduce a poca cosa
le nostre forze, l'allegria se n'è andata con le precedenti discussioni. | |
Ci rendiamo
conto, senza una carta dettagliata, dell'impossibilità di trovare il "corridoio"
d'ingresso al fiume, se pure esiste, così trasciniamo faticosamente i gommoni
verso il largo, per trovare quei venti centimetri di fondo in più. Navighiamo
poi a 10 miglia dalla costa e, finalmente, raggiungiamo la boa e la serie di bricolle
che indicano la rotta d'ingresso al secondo ramo del fiume Hari. Attracchiamo
alle palafitte di Tandjung Solok, un villaggio sporco e affollata. Michel è d'umore
nero, e ci comunica le ultime novità: « È il disastro, il pagliolo davanti è uscito
dai longheroni, la chiglia è bucata, bisogna smontare tutto». E'sera, siamo stanchi
e abbacchiati. I
serbatoi sono a zero, ma il capo villaggio ci promette di trovare tutta la benzina
che vogliamo. E un tipo che non mi piace punto, subdolo e furbastro, tocca tutto
e vuole farsi regalare tutto, anche gli indumenti che indossiamo. Tenta di metterci
la benzina al doppio del suo prezzo, ma non essendo molto ferrato nei calcoli
accetta il nostro imbroglio di cifre e ci accordiamo su di un totale litri/rupie
che non ci potrebbe essere più favorevole. Non sono state vane le "lezioni" dei
cinesi di Singapore! La
cena, se così si può chiamare, avviene in un lercio "warung": scampi pestilenziali,
coscia di gallina paleolitica, riso orribilmente colloso. Stendo il sacco a pelo
nell'ufficio di polizia e mi addormento contornato da macabre fotografie di persone
assassinate. Cadaveri dagli occhi sbarrati, visi gonfi di affogati, pozze di sangue.
La figlia del capo di polizia, belloccia e leggermente arrogante, nella mattina
successiva ci vuole a casa sua per una "festicciola" in nostro onore a base di
canti, danze e banane fritte. Ho così modo di visitare meglio il villaggio, uno
dei più poveri incontrati, E zeppo di gente malata, butterata dal vaiolo, poveracci
semiparalizzati che si trascinano carponi o giacciono in mucchi di stracci sulla
soglia delle loro capanne.
| I
bambini sono centinaia, insopportabili dopo la prima mezzora. Le donne hanno il
viso tinto di un maquillage curativo bianco, le labbra rosso acceso, paiono maschere
di un triste carnevale. Abbiamo
deciso di proseguire per Djambi, oltre sessanta miglia di fiume, per trovare una
gru che ci consenta di sollevare i 1.500 chili del Berani ed effettuare la riparazione.
| Risaliamo
a velocità ridutta le grandi anse dell'flari, sulle rive sbuca ogni tanto qualche
capanna, tra la folta vegetazione. C'è molto traffico, i grandi velieri scendono
pigramente spinti da rimorchiatori e appesantiti dal carico di legni preziosi;
barche minori sono stracolme di banane e ananas, altre di fusti di carburante,
cipolle, pesce secco. Il fiume è ancora l'unica e più economica strada per raggiungere
i villaggi spersi nelle foreste di Sumatra. Qui soggiornò per lunghi mesi Marco
Polo, che descrisse l'isola divisa in diversi regni, dove succedevano cose misteriose
e terribili. Nel regno di Basman abbondano i mostruosi liocorni che, per attaccare,
si servono delle ginocchia con cui calcano le vittime a terra, ferendole poi con
la lingua armata di robusti e pungenti aculei. Nel
regno di Samatra ci sono indigeni bestiali ghiotti di carne umana. Nel regno di
Dagojan la gente è ancora più selvaggia e sconcia, uccidono i malati e ne divorano
anche il midollo delle ossa. E nel Lambri gli uomini hanno la coda: e priva di
peli e grossa come quella di un cane: non hanno villaggi ma vivono sugli alberi
delle foreste. Ad
un tratto, scorgiamo dietro a un meandro del fiume, sulla riva destra, una piattaforma
di legno, sulla quale un camion- gru ammucchia enormi tronchi d'albero. È la nostra
salvezza: pare la materializzazione dei nostri desideri. Sono tagliaboschi di
Formosa, di squisita ospitalità, e che si dicono onorati d'issare il gommone gratuitamente
ed ospitarci nel loro villaggio di baracche, per il tempo necessario alla riparazione. | Il
problema si rivela subito molto serio. Nella chiglia pneumatica ci sono otto,
microscopici, inspiegabili fori che vanno ri parati alla perfezione. Il
pagliolo è però uscito dai longheroni non solo a causa della chiglia sgonfia ma
anche perché dev'essere di qualche millimetro troppo stretto rispetto alla larghezza
del fondo dello Zodiac, dove va incastrato. Incollate
le toppe sui buchi dopo un lungo lavoro di ricerca con acqua-sapone a chiglie
gonfia (ogni sibilo un'imprecazione) e un'attenta carteggiatura, prepariamo due
tavole di legno di cm 40x 10. Le
imbulloniamo di traverso ai due pezzi del pagliolo che hanno tendenza a sovrapporsi.
La sera ci raduniamo intorno al tavolo dei nostri amici taiwanesi, in una specie
di pensione di famiglia, per gustare ghiottonerie orientali innaffiate da buona
birra e tè di fiori profumati. Sono
in 28, ed hanno reclutato 250 lavoratori indonesiani che ci dicono pigri e inetti.
La loro ditta ha stipulato con il governo indonesiano un contratto per tagliare
alberi " da macero" su 9.000 ettari di foresta per 2 dollari USA al mq. Due volte
al mese inviano i carichi alla foce del fiume ove una nave riempie le sue stive
di 4.000 tonnellate di tronchi. |
Ma
è il ricordo della loro isola lontana che fa brillare gli occhi e animare i racconti.
Ouyang mi dice:
e Taiwan è meravìgliosa, ha montagne altissime che strapiombano sul mare, stiade
intagliate nella roccia, canyons profondi e verdi vallate. Shin Jen-Rong estrae
una preziosa bottiglia di Courvoisier e ne offre a tutti. Shin Jen Rong è molto
ricco, ha fabbriche a Formosa, due mogli e gira in Mercedes. Ma è venuto qui per
sei mesi, perché può e sa anche lavorare come tutti gli altri. È cintura nera
di judo. Ci dà una dimostrazione della forza che possiede "sulla punta delle dita"
appallottolando con una mano una lattina di birra: può inferire colpi mortali
con una rapidità che spaventa. Adesso Liow intona una canzone di Taiwan, le note
si levano suggestive e melanconiche. Fuori dalla capanna è notte fonda e s'odono
i mille segreti rumori della giungla: fruscii, crak di rami spezzati, grida d'uccelli
feriti. Col tempo mi abituerò, ma questa prima volta avverto una concreta, minacciosa,
presenza di sconosciuti animali.
È
trascorso un altro giorno. Tra un'incollatura e l'altra, approfitto dell'invito
che Ouyang mi rivolge per farmi conoscere il suo lavoro nel bosco. Seguiamo faticosamente
per un chilometro le rotaie che s'inoltrano nella folta vegetazione, poi ci dirigiamo
verso una zona da cui provengono rumori di motoseghe e tremendi tonfi d'albero.
Il caldo è
umìdo e opprimente, l'aria quasi irrespirabile, il terreno sovente fangoso, percorso
da piccoli ruscelli. | |
Quando mi trovo
nella radura ove gli uonìini lavorano, sono stupefatto della forza e dell'abilità
del taglialegna a manovrare la pesante motosega. Un albero gigantesco viene sfrondato
e ripulito alla base da due indonesiani armati di parang, quindi subentra il piccolo
taiwanese che taglia il tronco ad altezza d'uomo con la giusta inclinazione. Ai
primi crepitii e schianti una certa paura ci salta addosso: dove andrà a cadere
il colosso vacillante? Ora cade sul serio, tutti scappano indietro, decine di
alberi minori sono spezzati come fuscelli e, infine, il botta sordo del tronco
sul terreno rimbomba sotto i piedi. I
lavori sul gommone intanto proseguono e, all'alba del 10 luglio, iniziamo il rimontaggio
del Berani. Inserisco anche della gomma sotto alla cassa del Selamat per ammortizzarne
i colpi e un filtro supplementare per la benzina, sovente piena di residui e impurità.
Se le barche sono rimesse ormai in sesto, la salute dell'equipaggio ci preoccupa
alquanto. Michel non si è ancora rimesso dall'esaurimento, sottre di bassa pressione
e di gastrite, è debole, il viso terreo. Una caviglia di Francine si è infettata
in seguito a una puntura d'insetto e il piede le si è gonfiato. Incautamente,
ricorre alle cure di una vecchia megera indonesiana che non risulteranno molto
efficaci. Nel pomeriggio scambiamo gli ultimi doni: sigarette, monete e indirizzi
con i nostri amabili ospiti di Taiwan, poi ci lasciamo per scendere il fiume prima
di sera. Solamente
alla mattina usciamo dalle foci dell'Hari. Arrivati in prossimità di Capo Djabung
si riaprono le discussioni tra Michel e Ciccio. Quest'ultimo, col mio pieno accordo,
vuole seguire la costa di Sumatra sperando di trovare un mare migliore, e per
poter prendere le onde al mascone e così riuscire a tenere un'andatura di "mezza
planata". Si
navigherebbe più velocemente e con meno scosse. Michel, invece, vuole abbreviare
il percorso al massimo puntando dritto sull'isola di Bangka, mare in faccia al
cento per cento. Il
dialogare non è molto sereno e, non riuscendo a trovare una soluzione, ognuno
se ne parte per la propria rotta con un: "Ci rivedremo a Bangka!".
| La
navigazione è già durissima per noi, chissà per Michel, pensiamo, mentre si allontana
lentamente alla nostra sinistra. Dopo
un'ora lo vediamo però riaccostare leggermente, noi ci portiamo un po' più verso
il largo per fare pace , venti minuti dopo navighiamo uno dietro all'altro. La
giornata, però, è cominciata male. Michel si ferma e non riesce più ad avviare
il motore, tutto l'impianto elettrico è in blocco. Un dado svitato della batteria
e un filo fuori posto, che ci fanno perdere tempo prezioso. Ora
è la volta di Bernhard che mi sta di fianco. Un sobbalzo più violento degli altri
alza la cassa di due centimetri che, ricadendo, pizzica l'alluce del poveraccio
tagliandolo fino all'osso. Gli facciamo una medicazione di fortuna, è pallido
in volto per lo choc cd ha una forte nausea. Ciccio
intanto viene preso da un tremendo mal di mare a causa del fastidioso ondeggiare
del gommone a motore fermo. Altre ore ed ore d'improbo navigare saltanto d'onda
in onda e il sole tramonta rapidamente. | Alla
nostra destra sfila la costa paludosa di Sumatra, brilla qualche rara luce, il
mare migliora decisamente. M'arresta, con segnali di proiettore, Michel, che appena
sopraggiungo sbotta "la mia chiglia è rotta nom de dieu, il pagliolo è saltato
di nuovo!". Questa è rogna nera! È nel buio pesto, pure la luna è assente, che
annodo una cima a poppa per trainare il Berani. Non vogliamo provocare, usando
il motore, ulteriori lacerazioni nel tessuto del fondo del gommone. Dopo tre ore
a velocità da lumaca arriviamo davanti a quello che stimiamo sia il porto di Muntok.
Sono le 22. Sciogliamo i due gommoni per poter manovrare nell'atterraggio, Michel
avvia il Johnson. L'imboccatura del porto non è segnalata, per poco il buio pesto
non ci fa sbattere contro alcuni relitti semisommersi di navi giapponesi, il vento
ci fa deri- vare contro la costa. Michel fa un tentativo sulla sinistra ma s'incaglia
con l'elica in un banco di sabbia mentre piccole onde rabbiose si rovesciano a
bordo. Grida allarmate di Francine, Ciccio si butta in acqua, raggiunge il Berani
e lo trascina verso il largo. Poi partono in direzione di alcune luci gialle ad
un paio di miglia, forse credendo sia il vero porto. Io cerco di orientarmi tra
i relitti mentre Bernhard, a prua, illumina col proiettore, quando una lucina
rosso-verde esce dal porticciolo e quindi rientra mostrandomi il canale d'ingresso
oltre una zona di pericolosi bassifondi. E' una barca della Capitaneria, messa
in allarme dall'infernale casino che abbiamo fatto. Dieci minuti dopo il Selamat
è al sicuro nel porto tranquillo.
Scendo
a terra per cercare gli altri lungo la costa ma, solo mezz'ora dopo, incontro
Ciccio che sta cercando "a piedi" il porto, è furioso. «Le luci gialle sono un
portaccio per traffico di petrolio, impraticabile, poi ci siamo incastrati tentando
di risalire un fiumiciattolo. E' uno schifo, ho dovuto tirare il gommone nell'acqua
che è piena di merda! Galleggia tutta intorno, uno schifo! ». Così
dicendo torna tristemente al. suo ormeggio-fogna, per raggiungerci via mare con
Michel e Francine. All'una
ci sbattiamo a dormire spossati sul pancone della dogana in mezzo a un corri-corri
di scarafaggi. Nisidina a Bernhard per il piede dolorante, antibiotici a Francine
la cui gamba è gonfiata fino al ginocchio: sono tutti e due febbricitanti. Del
morale, meglio non parlarne. | |
Restiamo
bloccati tre giorni a Muntok per riparare il Berani issato in banchina per 5.000
rupie (circa 10.000 lire, un prezzo elevato per questi luoghi), dopo una feroce
contrattazione. Il buco nella chiglia si rivela più grave del previsto: si è infatti
scollata completamente la parte terminale cilindrica. Dentro ad essa c'è anche
un "tappo" ovoidale di gomma dura che ha anche la funzione di sostenere l'ultimo
pagliolo che va ad incastrarsi sotto ad un listello fissato sullo specchio di
poppa. Il tutto
viene incollato e rinforzato con strati successivi di neoprene. Il primo fa da
calotta terminale, gli altri sono strisce incrociate, che avvolgono e fasciano
l'insieme. Occorre perderci molto tempo, perché ogni incollaggio deve essicare
perfettamente prima del successivo: verso sera, poi, l'eccessiva umidità dell'aria
bagna tutto, e bisogna sospendere le operazioni fino allo spuntare del sole. Altri
problemi ci arrivano dalla mancanza di soldi cash (la banca locale non cambia
traveller's cheques, si deve andare a Bangka città, sei ore di bus). Il "ras"
del posto, un oriundo arabo, furbo e gentile, ci anticipa un po' di contante.
Le condizioni di Francine intanto si stanno aggravando, nonostante le iniezioni
di pennicillana a dosi da cavallo, unica cura praticata nel povero ospedale del
paese. La gamba è gonfiata fino all'inguine, l'infezione si è propagata con rapidità
impressionante e già le dolgono le ghiandole ascellari e del collo, ha febbre
alta e non si regge in piedi. Bisogna far presto.
Michel va a Bangka Pulau e spedisce l'ammalata all'ospedale di Giacarta in aereo.
A lei si unisce Bernhard, che ha ancora il piede dolente, e non vuole sorbirsi
varie centinaia di miglia lungo la desolata costa di Sumatra, priva di approdi
e di villaggi importanti. A
Muntok la cordialità della gente ci aiuta a sopportarne l'opprimente curiosità.
Troviamo un "losmen" dal solito cinese, alloggiamo finalmente in capaci letti
con zanzariera, possiamo lavarci e disinfettare le piccole ferite che sovente
si trasformano in ulcere tropicali che non si rimarginano. Terminiamo
i lavori sul gommone il 14 sera, sostituendo le due traverse di legno messe sul
fiume Hari con due piastre d'acciaio imbullonate, che non dovrebbero più spezzarsi.
In una piccola
trattoria, davanti a una montagna di gamberi al cùrry, facciamo il punto della
situazione: ci sentiamo molto "armata Brancaleone" in procinto di suonare la ritirata.
Il tema della discussione lo pongo io, questa volta: finiamola di prendere rotte
diverse, perder tempo, perderci di vista. Abbiamo già troppi problemi, non cerchiamone
altri. | |
Michel e Ciccio
si scannano in dialoghi violenti e reciproche accuse. « Pianto tutto e torno a
casa », è il motivo dominante che vola da un capo all'altro del tavolo. Avevamo
delegato a Ciccio i problemi di navigazione in questa prima parte del viaggio,
bene, sia lui a scegliere la rotta, il Berani segua. Fortunatamente, gli anni
di reciproca conoscenza, le vacanze fatte insieme e il buon carattere di tutti,
gettano acqua sul fuoco, e nessuno se la prende troppo sul serio.
Il 15 luglio mattina, riempiti al massimo i serbatoi di benzina (dovremo fare
una tirata fino a Giacarta senza rifornimenti possibili), partiamo ormai solo
in tre. Vento forte di prua, navigazione spaccaossa. Doppiata la Derde Punt (questi
nomi evocano la lunga dominazione olandese), i' acqua si fa torbida di fango portato
dai numerosi fiumi di Sumatra. Ogni tanto Ciccio va sul Berani a dare il cambio
alla barra a Michel, siamo bagnati fradici per gli spruzzi. Le chiglie, anche
quella del Selamat adesso, non tengono bene la pressione, ogni mezz'ora dobbiamo
fermarci a pompare; è stressante e avvilente. Cerchiamo
di attraccare per la notte a un piccolo villaggio su palafitte ma un indigeno,
credo sia il capo, ci scaccia con gesti minacciosi, forse ha paura di queste strane,
veloci barche. Il colmo sarebbe proprio essere scambiati per pirati! Proseguiamo,
delusi, per tre o quattro miglia, troviamo al largo una baracca da pesca disabitata
e ci ormeggiamo al volo. Michel ronfa sul gommone con due sonniferi. Ciccio ed
io passiamo una notte infame, facendo turni di guardia ogni due ore: temiamo visite
di birbanti, anche solo di ladri che taglino le cime d'ormeggio degli Zodiac.
A tratti, una
lucina si avvicina silenziosamente, un piccolo sampan a vela, poi se ne va, ma
l'allarme è dato e siamo svegli come grilli pronti ad una precipitosa fuga.
Alle cinque di mattina vogliamo partire, ma la marea scende troppo in fretta,
pochi minuti e i gommoni restano incastrati nel fango. In questi casi non c'è
altro da fare che prendersela con filosofia, per non farsi venire il mal di fegato
dalla rabbia. Siamo a un paio di miglia dalla piatta, boscosa, costa di Sumatra,
il fango attorno a noi è a perdita d'occhio. La melma pullula di straordinarie
forme di vita. Migliaia di conchiglie strisciano lasciando dietro a sé preziosi
grafismì, granchi bruni e rossi emergono dal limo e compiono inverosimili danze
su due gambe, le chele in alto, rivoltanti pesci- anfibio con gli occhi a palla
che fuoriescono dal capo, guizzano all'asciutto e compiono balzi nervosi in aria.
Da lontano arriva qualcuno. E' un ragazzo del luogo che riesce ad avanzare sulle
sabbie mobili, utilizzando una specie di vassoio di legno, "galleggiante" su cui
è inginocchiato, spingendosi con un piede. Il più impensato mezzo di locomozione,
un meraviglioso slittino da fango quanto mai efficace. Resta in silenzio, attonito,
a guardarci, poi riparte in cerca di conchiglie e molluschi da mangiare, seguito
da qualche grande uccello bianco che non fatica a riempirsi lo stomaco.
L'aria
è immobile e rovente, alzo il tendalino con una pagaia per cercare un po' d'ombra.
Mangio un biscotto, scrivo una lettera, fumo. Verso le 14 un lieve fruscio d'acqua
ci avverte che la marea incomincia a salire: tanti rigagnoli d'acqua che riempiono
le pozze di fanghiglia, ingrossano, all'orizzonte si nota il bianco delle onde,
che arrivano frangendosi. In
queste zone e in questo periodo c'è solo un massimo e un minimo di marea importanti
nel corso della giornata, sarebbe utile avere le tavole di marea. Sta per aver
fine la nostra prigionia. Un'ora
dopo ce ne andiamo. Le poche ore di luce disponibili non ci consentono una lunga
navigazione. | |
Seconda notte
presso Sumatra, altra baracca-palafitta sperduta. Arrivano da non so dove centinaia
di enormi pipistrelli neri, volteggiano a lungo sopra a noi, finalmente ripartono:
una scena da incubo. Michel oggi compie 47 anni. Festeggiamo "il vecchio" con
birra e whisky. 17 luglio. Dobbiamo
recuperare il tempo perduto. Partenza alle 2,30, con continui spruzzi a bordo
e un freddo cane. Spunta l'alba che ci propone un cielo livido e nuvoloni neri.
Il mare si gonfia, non riusciamo ad oltrepassare i 3.000 giri di motore. 6/7 nodi
di velocità. La pioggia è incessante e gli scrosci violenti ci infradiciano fino
al midollo. All'uscita dello stretto di Bang- ka allarghiamo per prendere lo Stanton
Passage, perché il Lucipara Passage ci sembra più difficile da trovare tra i banchi
di sabbia. Doppiamo Tandjung Men- djangan, la costa è un monotono susseguirsi
di ampie insenature appena accennate, larghe una trentina di miglia da un capo
all'altro. All'imbrunire siamo alle prese con bassifondi che si estendono a dodici
miglia dalla riva, cosparsi da innumerevoli palafitte disabitate e utilizzate
solo saltuariamente per la pesca. Ne scegliamo una, più al largo possibile, per
andarvi a dormire, così avremo innanzi il mare franco e aperto quando ripartiremo
prima dell'alba. Siamo stanchi e intirizziti dal freddo, gli occhi infiammati
per gli spruzzi, il viso coperto da salsedine. Anche i sacchi a pelo sono bagnati.
Michel non ha voluto il cambio alla barra per oltre quindici ore, ha detto che
voleva "provare se stesso". Nella notte un colpo di vento violento e improvviso
da Nord, frequenti rovesci d'acqua, sono i "sumatra", piccole buriane che prendono
nome dall'isola ove provengono. 18 luglio alle 5, partiamo. Ci
lasciamo alle spalle Tg. Kenam e la sconfortante costa sumatrese, rotta 150" per
Kepulauan Seribu, le Mille Isole. Mare formato con onde incrociate, durissimo,
sovente non riusciamo a planare. Sono un po' deluso di aver dovuto abbandonare
l'idea di continuare lungo Sumatra per raggiungere il Selat Sunda, lo stretto
che separa quest' isola con quella di Giava, dove Rakata e altri isolotti testimoniano
la tremenda esplosione del vulcano Krakatau. Dopo
aver superato due piattaforme per l'estrazione del petrolio, raggiungiamo le Pantjalirang
e le Sebaru, che sono quelle più a Nord delle Mille Isole. Sono stupito di quanto
la natura sia cambiata in una cinquantina di miglia. L'acqua è traspa rente e
lascia intravedere splendidi coralli e madrepore, non vediamo più i frequenti
serpenti di mare, gialli e neri, velenosissimi, che avevamo notato discendendo
le coste di Sumatra. |
Le isole sono piccole,
bianche, ricoperte di palme, mi ricordano le Maldive viste in fotografia. Sbarchiamo
su di una a caso, sono investito dal profumo dolce e penetrante dei fiori, incantato
dai loro colori, è il paradiso. Le isole settentrionali del piccolo arcipelago
sono più selvagge, sovente disabitate, più a Sud è invece penetrata la cosiddetta
civiltà: a Putri, in particolare, dove ha sede un villaggio-club tedesco. Ciccio
ed io avremmo in animo di fermarci qui per una notte rimandando al giorno dopo
la discesa su Giacarta, ma ci perdiamo con Michel nel dedalo d'isole, e inutilmente
lo attendiamo, a Putri, non riuscirà a identificarla. Col pianto nel cuore abbandoniamo
le prospettive di una ghiotta cena (sono diversi giorni che andiamo avanti a scatolette)
e di una notte comoda. | Via
a tutto gas, il mare ora è buono, la navigazione dev'es- sere però attenta perché
ci sono reefs dappertutto. La notte ci coglie a un'ora dalla capitale indonesiana,
l'oscurità ci rende impossibile evitare l'incontro-choc con un tronco flottante
che per un pelo non ci rovina il piede del motore. Entriamo
nel vasto porto, lo percorriamo tutto palmo a palmo, troviamo infine (sembra una
caccia al tesoro) lo yacht club, la capitaneria e pure un messaggio di John giunto
da Bruxelles da qualche giorno. Un sonno consolatore, a lungo desiderato, ci attende
al Losmen di K.A. Colondam (Jln. Ma- traman, Raya 113, Giacarta, tel. 81881) economico
ritrovo dei più disparati gira- mondo. Per arrivarci dalla sede del club (Tg.
Priok, Bakhtera Jaya, tel 290491) bisogna prendere un ridicolo taxi-bicicletta
(sul portapacchi posteriore), poi un taxi- motoretta (più confortevole, veloce
e pericoloso), quindi mezz'ora come acciughe in un bus d'anteguerra. è questa
l'Indonesia, per conoscerla e apprezzarla ci vuole tempo, tanto spirito d'adattamento
e un pizzico d'umorismo. Testi
& foto di Massimo Maggia - 1977 |