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Singapore/Australia - Da Dabo a Giacarta
 

La prima notte a Dabo Sing-kep, Bernhard ed io troviamo rifugio in una capanna in riva al mare, gli altri dormono nei gommoni.

E' una notte d'inferno, scossa da un susseguirsi di violenti temporali. Il cielo è squarciato dalla livida luce dei fulmini, il rombo del tuono si mescola al crepitio assordante della pioggia sul tetto di foglie secche.

Il vento fa ondeggiare le pareti di canne, l'acqua gocciola sul sacco a pelo.

Il giorno seguente, siamo presto in piedi, per far benzina e per visitare l'interno dell'isola, ricco di miniere di zinco che viene estratto con sistemi piuttosto primitivi.

Siamo perennemente seguiti da una turba di ragazzini, che ci pare abiano sui 12-13 anni, mentre la loro età si avvicina ai venti. Le ragazze, timide e ridenti, si spingono una con l'altra verso di noi; le più intraprendenti ci fanno capire che vorrebbero essere portate lontano, in Europa o in America.

17 luglio, sveglia alle 4. ancora buio quando prendiamo il largo e i primi spruzzi sulle facce assonnate. In programma e e una lunga traversata fino all'isola di Bang- ka, un centinaio di miglia. Il vento soffia sui 15 nodi, esattamente di prua, e sta rinforzando, il mare è rotto e scomposto.

Dopo tre ore di durissimo andare prendo un paio di rilevamenti e comunico a Ciccio lo sconfortante risultato: abbiamo percorso, sì e no, venti miglia. A questa media siamo certi che la benzina non è sufficiente per arrivare.

Ciccio, che ha curato la preparazione del Selamat e ne è il "capitano" ufficiale, si sbraccia verso Michel perché si arresti.

Le urla si confondono col rumore del vento, del mare e dei motori accesi. "Non facciamo più di sei nodi, la miscela non basta, bisogna tornare! ". "Al mio log abbiamo fatto più di trenta miglia, io vado avanti!" grida Michel. Gli animi si accendono, le parole rasentano l'insulto.

Siamo veramente furiosi per questo superficiale comportamento di Michel, se la "broda" ci manca chissà dove andiamo alla deriva e la spedizione verrebbe compromessa. Alla fine concordiamo di poggiare a dritta sulla vicina Sumatra pcr risalire il fiume Hari fino a Djambi, dove troveremo il carburante necessario. Venti miglia al traverso, si può navigare velocemente in planata pur continuando a imbarcar acqua da ogni parte. Maledetto monsone!

 

Incrociamo una bella nave che trasporta legname con le vele verdi-azzurre spiegate, poi ci appare la costa sabbiosa del Tandjung Djabung.

lì fiume che dobbiamo risalire si divide in due branche che sfociano nel mare a venti miglia una dall'altra.

Ci dirigiamo verso la foce della prima, che ci hanno detto navigabile, quasi 10 miglia a Ovest da Capo Djabung.

Non passa molto tempo che siamo alle prese con nuove difficoltà: mancano tre o quattro miglia all'imboccatura dell'Rari e il 70 Cv macina già sabbia e melma in bassifondi da cui affiorano grovigli di rami e pali piegati dalla corrente.

Solleviamo il motore principale e abbassiamo nell'acqua giallastra il 9,9 Cv che ha un pescaggio inferiore. Mezzora dopo siamo nuovamente arenati e ci tocca tirare le imbarcazioni affondando nel fango fino al ginocchio. lì caldo soffocante riduce a poca cosa le nostre forze, l'allegria se n'è andata con le precedenti discussioni.

 

Ci rendiamo conto, senza una carta dettagliata, dell'impossibilità di trovare il "corridoio" d'ingresso al fiume, se pure esiste, così trasciniamo faticosamente i gommoni verso il largo, per trovare quei venti centimetri di fondo in più. Navighiamo poi a 10 miglia dalla costa e, finalmente, raggiungiamo la boa e la serie di bricolle che indicano la rotta d'ingresso al secondo ramo del fiume Hari. Attracchiamo alle palafitte di Tandjung Solok, un villaggio sporco e affollata. Michel è d'umore nero, e ci comunica le ultime novità: « È il disastro, il pagliolo davanti è uscito dai longheroni, la chiglia è bucata, bisogna smontare tutto». E'sera, siamo stanchi e abbacchiati.

I serbatoi sono a zero, ma il capo villaggio ci promette di trovare tutta la benzina che vogliamo. E un tipo che non mi piace punto, subdolo e furbastro, tocca tutto e vuole farsi regalare tutto, anche gli indumenti che indossiamo. Tenta di metterci la benzina al doppio del suo prezzo, ma non essendo molto ferrato nei calcoli accetta il nostro imbroglio di cifre e ci accordiamo su di un totale litri/rupie che non ci potrebbe essere più favorevole. Non sono state vane le "lezioni" dei cinesi di Singapore!

La cena, se così si può chiamare, avviene in un lercio "warung": scampi pestilenziali, coscia di gallina paleolitica, riso orribilmente colloso. Stendo il sacco a pelo nell'ufficio di polizia e mi addormento contornato da macabre fotografie di persone assassinate. Cadaveri dagli occhi sbarrati, visi gonfi di affogati, pozze di sangue. La figlia del capo di polizia, belloccia e leggermente arrogante, nella mattina successiva ci vuole a casa sua per una "festicciola" in nostro onore a base di canti, danze e banane fritte. Ho così modo di visitare meglio il villaggio, uno dei più poveri incontrati, E zeppo di gente malata, butterata dal vaiolo, poveracci semiparalizzati che si trascinano carponi o giacciono in mucchi di stracci sulla soglia delle loro capanne.

I bambini sono centinaia, insopportabili dopo la prima mezzora. Le donne hanno il viso tinto di un maquillage curativo bianco, le labbra rosso acceso, paiono maschere di un triste carnevale.

Abbiamo deciso di proseguire per Djambi, oltre sessanta miglia di fiume, per trovare una gru che ci consenta di sollevare i 1.500 chili del Berani ed effettuare la riparazione.

Risaliamo a velocità ridutta le grandi anse dell'flari, sulle rive sbuca ogni tanto qualche capanna, tra la folta vegetazione. C'è molto traffico, i grandi velieri scendono pigramente spinti da rimorchiatori e appesantiti dal carico di legni preziosi; barche minori sono stracolme di banane e ananas, altre di fusti di carburante, cipolle, pesce secco. Il fiume è ancora l'unica e più economica strada per raggiungere i villaggi spersi nelle foreste di Sumatra. Qui soggiornò per lunghi mesi Marco Polo, che descrisse l'isola divisa in diversi regni, dove succedevano cose misteriose e terribili. Nel regno di Basman abbondano i mostruosi liocorni che, per attaccare, si servono delle ginocchia con cui calcano le vittime a terra, ferendole poi con la lingua armata di robusti e pungenti aculei.

Nel regno di Samatra ci sono indigeni bestiali ghiotti di carne umana. Nel regno di Dagojan la gente è ancora più selvaggia e sconcia, uccidono i malati e ne divorano anche il midollo delle ossa. E nel Lambri gli uomini hanno la coda: e priva di peli e grossa come quella di un cane: non hanno villaggi ma vivono sugli alberi delle foreste.

Ad un tratto, scorgiamo dietro a un meandro del fiume, sulla riva destra, una piattaforma di legno, sulla quale un camion- gru ammucchia enormi tronchi d'albero. È la nostra salvezza: pare la materializzazione dei nostri desideri. Sono tagliaboschi di Formosa, di squisita ospitalità, e che si dicono onorati d'issare il gommone gratuitamente ed ospitarci nel loro villaggio di baracche, per il tempo necessario alla riparazione.

Il problema si rivela subito molto serio. Nella chiglia pneumatica ci sono otto, microscopici, inspiegabili fori che vanno ri parati alla perfezione.

Il pagliolo è però uscito dai longheroni non solo a causa della chiglia sgonfia ma anche perché dev'essere di qualche millimetro troppo stretto rispetto alla larghezza del fondo dello Zodiac, dove va incastrato.

Incollate le toppe sui buchi dopo un lungo lavoro di ricerca con acqua-sapone a chiglie gonfia (ogni sibilo un'imprecazione) e un'attenta carteggiatura, prepariamo due tavole di legno di cm 40x 10.

Le imbulloniamo di traverso ai due pezzi del pagliolo che hanno tendenza a sovrapporsi. La sera ci raduniamo intorno al tavolo dei nostri amici taiwanesi, in una specie di pensione di famiglia, per gustare ghiottonerie orientali innaffiate da buona birra e tè di fiori profumati.

Sono in 28, ed hanno reclutato 250 lavoratori indonesiani che ci dicono pigri e inetti. La loro ditta ha stipulato con il governo indonesiano un contratto per tagliare alberi " da macero" su 9.000 ettari di foresta per 2 dollari USA al mq. Due volte al mese inviano i carichi alla foce del fiume ove una nave riempie le sue stive di 4.000 tonnellate di tronchi.

Ma è il ricordo della loro isola lontana che fa brillare gli occhi e animare i racconti.

Ouyang mi dice: e Taiwan è meravìgliosa, ha montagne altissime che strapiombano sul mare, stiade intagliate nella roccia, canyons profondi e verdi vallate. Shin Jen-Rong estrae una preziosa bottiglia di Courvoisier e ne offre a tutti. Shin Jen Rong è molto ricco, ha fabbriche a Formosa, due mogli e gira in Mercedes. Ma è venuto qui per sei mesi, perché può e sa anche lavorare come tutti gli altri. È cintura nera di judo. Ci dà una dimostrazione della forza che possiede "sulla punta delle dita" appallottolando con una mano una lattina di birra: può inferire colpi mortali con una rapidità che spaventa. Adesso Liow intona una canzone di Taiwan, le note si levano suggestive e melanconiche. Fuori dalla capanna è notte fonda e s'odono i mille segreti rumori della giungla: fruscii, crak di rami spezzati, grida d'uccelli feriti. Col tempo mi abituerò, ma questa prima volta avverto una concreta, minacciosa, presenza di sconosciuti animali.

 

È trascorso un altro giorno. Tra un'incollatura e l'altra, approfitto dell'invito che Ouyang mi rivolge per farmi conoscere il suo lavoro nel bosco. Seguiamo faticosamente per un chilometro le rotaie che s'inoltrano nella folta vegetazione, poi ci dirigiamo verso una zona da cui provengono rumori di motoseghe e tremendi tonfi d'albero.

Il caldo è umìdo e opprimente, l'aria quasi irrespirabile, il terreno sovente fangoso, percorso da piccoli ruscelli.

Quando mi trovo nella radura ove gli uonìini lavorano, sono stupefatto della forza e dell'abilità del taglialegna a manovrare la pesante motosega. Un albero gigantesco viene sfrondato e ripulito alla base da due indonesiani armati di parang, quindi subentra il piccolo taiwanese che taglia il tronco ad altezza d'uomo con la giusta inclinazione. Ai primi crepitii e schianti una certa paura ci salta addosso: dove andrà a cadere il colosso vacillante? Ora cade sul serio, tutti scappano indietro, decine di alberi minori sono spezzati come fuscelli e, infine, il botta sordo del tronco sul terreno rimbomba sotto i piedi.

I lavori sul gommone intanto proseguono e, all'alba del 10 luglio, iniziamo il rimontaggio del Berani. Inserisco anche della gomma sotto alla cassa del Selamat per ammortizzarne i colpi e un filtro supplementare per la benzina, sovente piena di residui e impurità. Se le barche sono rimesse ormai in sesto, la salute dell'equipaggio ci preoccupa alquanto. Michel non si è ancora rimesso dall'esaurimento, sottre di bassa pressione e di gastrite, è debole, il viso terreo. Una caviglia di Francine si è infettata in seguito a una puntura d'insetto e il piede le si è gonfiato. Incautamente, ricorre alle cure di una vecchia megera indonesiana che non risulteranno molto efficaci. Nel pomeriggio scambiamo gli ultimi doni: sigarette, monete e indirizzi con i nostri amabili ospiti di Taiwan, poi ci lasciamo per scendere il fiume prima di sera.

Solamente alla mattina usciamo dalle foci dell'Hari. Arrivati in prossimità di Capo Djabung si riaprono le discussioni tra Michel e Ciccio. Quest'ultimo, col mio pieno accordo, vuole seguire la costa di Sumatra sperando di trovare un mare migliore, e per poter prendere le onde al mascone e così riuscire a tenere un'andatura di "mezza planata".

Si navigherebbe più velocemente e con meno scosse. Michel, invece, vuole abbreviare il percorso al massimo puntando dritto sull'isola di Bangka, mare in faccia al cento per cento.

Il dialogare non è molto sereno e, non riuscendo a trovare una soluzione, ognuno se ne parte per la propria rotta con un: "Ci rivedremo a Bangka!".

La navigazione è già durissima per noi, chissà per Michel, pensiamo, mentre si allontana lentamente alla nostra sinistra.

Dopo un'ora lo vediamo però riaccostare leggermente, noi ci portiamo un po' più verso il largo per fare pace , venti minuti dopo navighiamo uno dietro all'altro.

La giornata, però, è cominciata male. Michel si ferma e non riesce più ad avviare il motore, tutto l'impianto elettrico è in blocco. Un dado svitato della batteria e un filo fuori posto, che ci fanno perdere tempo prezioso.

Ora è la volta di Bernhard che mi sta di fianco. Un sobbalzo più violento degli altri alza la cassa di due centimetri che, ricadendo, pizzica l'alluce del poveraccio tagliandolo fino all'osso. Gli facciamo una medicazione di fortuna, è pallido in volto per lo choc cd ha una forte nausea.

Ciccio intanto viene preso da un tremendo mal di mare a causa del fastidioso ondeggiare del gommone a motore fermo. Altre ore ed ore d'improbo navigare saltanto d'onda in onda e il sole tramonta rapidamente.

Alla nostra destra sfila la costa paludosa di Sumatra, brilla qualche rara luce, il mare migliora decisamente. M'arresta, con segnali di proiettore, Michel, che appena sopraggiungo sbotta "la mia chiglia è rotta nom de dieu, il pagliolo è saltato di nuovo!". Questa è rogna nera! È nel buio pesto, pure la luna è assente, che annodo una cima a poppa per trainare il Berani. Non vogliamo provocare, usando il motore, ulteriori lacerazioni nel tessuto del fondo del gommone. Dopo tre ore a velocità da lumaca arriviamo davanti a quello che stimiamo sia il porto di Muntok. Sono le 22. Sciogliamo i due gommoni per poter manovrare nell'atterraggio, Michel avvia il Johnson. L'imboccatura del porto non è segnalata, per poco il buio pesto non ci fa sbattere contro alcuni relitti semisommersi di navi giapponesi, il vento ci fa deri- vare contro la costa. Michel fa un tentativo sulla sinistra ma s'incaglia con l'elica in un banco di sabbia mentre piccole onde rabbiose si rovesciano a bordo. Grida allarmate di Francine, Ciccio si butta in acqua, raggiunge il Berani e lo trascina verso il largo. Poi partono in direzione di alcune luci gialle ad un paio di miglia, forse credendo sia il vero porto. Io cerco di orientarmi tra i relitti mentre Bernhard, a prua, illumina col proiettore, quando una lucina rosso-verde esce dal porticciolo e quindi rientra mostrandomi il canale d'ingresso oltre una zona di pericolosi bassifondi. E' una barca della Capitaneria, messa in allarme dall'infernale casino che abbiamo fatto. Dieci minuti dopo il Selamat è al sicuro nel porto tranquillo.

 

Scendo a terra per cercare gli altri lungo la costa ma, solo mezz'ora dopo, incontro Ciccio che sta cercando "a piedi" il porto, è furioso. «Le luci gialle sono un portaccio per traffico di petrolio, impraticabile, poi ci siamo incastrati tentando di risalire un fiumiciattolo. E' uno schifo, ho dovuto tirare il gommone nell'acqua che è piena di merda! Galleggia tutta intorno, uno schifo! ».

Così dicendo torna tristemente al. suo ormeggio-fogna, per raggiungerci via mare con Michel e Francine.

All'una ci sbattiamo a dormire spossati sul pancone della dogana in mezzo a un corri-corri di scarafaggi. Nisidina a Bernhard per il piede dolorante, antibiotici a Francine la cui gamba è gonfiata fino al ginocchio: sono tutti e due febbricitanti. Del morale, meglio non parlarne.

 

Restiamo bloccati tre giorni a Muntok per riparare il Berani issato in banchina per 5.000 rupie (circa 10.000 lire, un prezzo elevato per questi luoghi), dopo una feroce contrattazione. Il buco nella chiglia si rivela più grave del previsto: si è infatti scollata completamente la parte terminale cilindrica. Dentro ad essa c'è anche un "tappo" ovoidale di gomma dura che ha anche la funzione di sostenere l'ultimo pagliolo che va ad incastrarsi sotto ad un listello fissato sullo specchio di poppa.

Il tutto viene incollato e rinforzato con strati successivi di neoprene. Il primo fa da calotta terminale, gli altri sono strisce incrociate, che avvolgono e fasciano l'insieme. Occorre perderci molto tempo, perché ogni incollaggio deve essicare perfettamente prima del successivo: verso sera, poi, l'eccessiva umidità dell'aria bagna tutto, e bisogna sospendere le operazioni fino allo spuntare del sole.

Altri problemi ci arrivano dalla mancanza di soldi cash (la banca locale non cambia traveller's cheques, si deve andare a Bangka città, sei ore di bus). Il "ras" del posto, un oriundo arabo, furbo e gentile, ci anticipa un po' di contante. Le condizioni di Francine intanto si stanno aggravando, nonostante le iniezioni di pennicillana a dosi da cavallo, unica cura praticata nel povero ospedale del paese. La gamba è gonfiata fino all'inguine, l'infezione si è propagata con rapidità impressionante e già le dolgono le ghiandole ascellari e del collo, ha febbre alta e non si regge in piedi. Bisogna far presto.

Michel va a Bangka Pulau e spedisce l'ammalata all'ospedale di Giacarta in aereo. A lei si unisce Bernhard, che ha ancora il piede dolente, e non vuole sorbirsi varie centinaia di miglia lungo la desolata costa di Sumatra, priva di approdi e di villaggi importanti.

A Muntok la cordialità della gente ci aiuta a sopportarne l'opprimente curiosità. Troviamo un "losmen" dal solito cinese, alloggiamo finalmente in capaci letti con zanzariera, possiamo lavarci e disinfettare le piccole ferite che sovente si trasformano in ulcere tropicali che non si rimarginano.

Terminiamo i lavori sul gommone il 14 sera, sostituendo le due traverse di legno messe sul fiume Hari con due piastre d'acciaio imbullonate, che non dovrebbero più spezzarsi.

In una piccola trattoria, davanti a una montagna di gamberi al cùrry, facciamo il punto della situazione: ci sentiamo molto "armata Brancaleone" in procinto di suonare la ritirata.

Il tema della discussione lo pongo io, questa volta: finiamola di prendere rotte diverse, perder tempo, perderci di vista. Abbiamo già troppi problemi, non cerchiamone altri.

Michel e Ciccio si scannano in dialoghi violenti e reciproche accuse. « Pianto tutto e torno a casa », è il motivo dominante che vola da un capo all'altro del tavolo. Avevamo delegato a Ciccio i problemi di navigazione in questa prima parte del viaggio, bene, sia lui a scegliere la rotta, il Berani segua. Fortunatamente, gli anni di reciproca conoscenza, le vacanze fatte insieme e il buon carattere di tutti, gettano acqua sul fuoco, e nessuno se la prende troppo sul serio.

Il 15 luglio mattina, riempiti al massimo i serbatoi di benzina (dovremo fare una tirata fino a Giacarta senza rifornimenti possibili), partiamo ormai solo in tre. Vento forte di prua, navigazione spaccaossa. Doppiata la Derde Punt (questi nomi evocano la lunga dominazione olandese), i' acqua si fa torbida di fango portato dai numerosi fiumi di Sumatra. Ogni tanto Ciccio va sul Berani a dare il cambio alla barra a Michel, siamo bagnati fradici per gli spruzzi. Le chiglie, anche quella del Selamat adesso, non tengono bene la pressione, ogni mezz'ora dobbiamo fermarci a pompare; è stressante e avvilente.

Cerchiamo di attraccare per la notte a un piccolo villaggio su palafitte ma un indigeno, credo sia il capo, ci scaccia con gesti minacciosi, forse ha paura di queste strane, veloci barche. Il colmo sarebbe proprio essere scambiati per pirati! Proseguiamo, delusi, per tre o quattro miglia, troviamo al largo una baracca da pesca disabitata e ci ormeggiamo al volo. Michel ronfa sul gommone con due sonniferi. Ciccio ed io passiamo una notte infame, facendo turni di guardia ogni due ore: temiamo visite di birbanti, anche solo di ladri che taglino le cime d'ormeggio degli Zodiac.

A tratti, una lucina si avvicina silenziosamente, un piccolo sampan a vela, poi se ne va, ma l'allarme è dato e siamo svegli come grilli pronti ad una precipitosa fuga.

Alle cinque di mattina vogliamo partire, ma la marea scende troppo in fretta, pochi minuti e i gommoni restano incastrati nel fango. In questi casi non c'è altro da fare che prendersela con filosofia, per non farsi venire il mal di fegato dalla rabbia. Siamo a un paio di miglia dalla piatta, boscosa, costa di Sumatra, il fango attorno a noi è a perdita d'occhio. La melma pullula di straordinarie forme di vita. Migliaia di conchiglie strisciano lasciando dietro a sé preziosi grafismì, granchi bruni e rossi emergono dal limo e compiono inverosimili danze su due gambe, le chele in alto, rivoltanti pesci- anfibio con gli occhi a palla che fuoriescono dal capo, guizzano all'asciutto e compiono balzi nervosi in aria. Da lontano arriva qualcuno. E' un ragazzo del luogo che riesce ad avanzare sulle sabbie mobili, utilizzando una specie di vassoio di legno, "galleggiante" su cui è inginocchiato, spingendosi con un piede. Il più impensato mezzo di locomozione, un meraviglioso slittino da fango quanto mai efficace. Resta in silenzio, attonito, a guardarci, poi riparte in cerca di conchiglie e molluschi da mangiare, seguito da qualche grande uccello bianco che non fatica a riempirsi lo stomaco.

L'aria è immobile e rovente, alzo il tendalino con una pagaia per cercare un po' d'ombra. Mangio un biscotto, scrivo una lettera, fumo. Verso le 14 un lieve fruscio d'acqua ci avverte che la marea incomincia a salire: tanti rigagnoli d'acqua che riempiono le pozze di fanghiglia, ingrossano, all'orizzonte si nota il bianco delle onde, che arrivano frangendosi.

In queste zone e in questo periodo c'è solo un massimo e un minimo di marea importanti nel corso della giornata, sarebbe utile avere le tavole di marea. Sta per aver fine la nostra prigionia.

Un'ora dopo ce ne andiamo. Le poche ore di luce disponibili non ci consentono una lunga navigazione.

Seconda notte presso Sumatra, altra baracca-palafitta sperduta. Arrivano da non so dove centinaia di enormi pipistrelli neri, volteggiano a lungo sopra a noi, finalmente ripartono: una scena da incubo. Michel oggi compie 47 anni. Festeggiamo "il vecchio" con birra e whisky. 17 luglio.

Dobbiamo recuperare il tempo perduto. Partenza alle 2,30, con continui spruzzi a bordo e un freddo cane. Spunta l'alba che ci propone un cielo livido e nuvoloni neri. Il mare si gonfia, non riusciamo ad oltrepassare i 3.000 giri di motore. 6/7 nodi di velocità. La pioggia è incessante e gli scrosci violenti ci infradiciano fino al midollo. All'uscita dello stretto di Bang- ka allarghiamo per prendere lo Stanton Passage, perché il Lucipara Passage ci sembra più difficile da trovare tra i banchi di sabbia. Doppiamo Tandjung Men- djangan, la costa è un monotono susseguirsi di ampie insenature appena accennate, larghe una trentina di miglia da un capo all'altro. All'imbrunire siamo alle prese con bassifondi che si estendono a dodici miglia dalla riva, cosparsi da innumerevoli palafitte disabitate e utilizzate solo saltuariamente per la pesca. Ne scegliamo una, più al largo possibile, per andarvi a dormire, così avremo innanzi il mare franco e aperto quando ripartiremo prima dell'alba. Siamo stanchi e intirizziti dal freddo, gli occhi infiammati per gli spruzzi, il viso coperto da salsedine. Anche i sacchi a pelo sono bagnati. Michel non ha voluto il cambio alla barra per oltre quindici ore, ha detto che voleva "provare se stesso". Nella notte un colpo di vento violento e improvviso da Nord, frequenti rovesci d'acqua, sono i "sumatra", piccole buriane che prendono nome dall'isola ove provengono. 18 luglio alle 5, partiamo.

Ci lasciamo alle spalle Tg. Kenam e la sconfortante costa sumatrese, rotta 150" per Kepulauan Seribu, le Mille Isole. Mare formato con onde incrociate, durissimo, sovente non riusciamo a planare. Sono un po' deluso di aver dovuto abbandonare l'idea di continuare lungo Sumatra per raggiungere il Selat Sunda, lo stretto che separa quest' isola con quella di Giava, dove Rakata e altri isolotti testimoniano la tremenda esplosione del vulcano Krakatau.

Dopo aver superato due piattaforme per l'estrazione del petrolio, raggiungiamo le Pantjalirang e le Sebaru, che sono quelle più a Nord delle Mille Isole. Sono stupito di quanto la natura sia cambiata in una cinquantina di miglia. L'acqua è traspa rente e lascia intravedere splendidi coralli e madrepore, non vediamo più i frequenti serpenti di mare, gialli e neri, velenosissimi, che avevamo notato discendendo le coste di Sumatra.

Le isole sono piccole, bianche, ricoperte di palme, mi ricordano le Maldive viste in fotografia. Sbarchiamo su di una a caso, sono investito dal profumo dolce e penetrante dei fiori, incantato dai loro colori, è il paradiso. Le isole settentrionali del piccolo arcipelago sono più selvagge, sovente disabitate, più a Sud è invece penetrata la cosiddetta civiltà: a Putri, in particolare, dove ha sede un villaggio-club tedesco.

Ciccio ed io avremmo in animo di fermarci qui per una notte rimandando al giorno dopo la discesa su Giacarta, ma ci perdiamo con Michel nel dedalo d'isole, e inutilmente lo attendiamo, a Putri, non riuscirà a identificarla. Col pianto nel cuore abbandoniamo le prospettive di una ghiotta cena (sono diversi giorni che andiamo avanti a scatolette) e di una notte comoda.

Via a tutto gas, il mare ora è buono, la navigazione dev'es- sere però attenta perché ci sono reefs dappertutto. La notte ci coglie a un'ora dalla capitale indonesiana, l'oscurità ci rende impossibile evitare l'incontro-choc con un tronco flottante che per un pelo non ci rovina il piede del motore.

Entriamo nel vasto porto, lo percorriamo tutto palmo a palmo, troviamo infine (sembra una caccia al tesoro) lo yacht club, la capitaneria e pure un messaggio di John giunto da Bruxelles da qualche giorno. Un sonno consolatore, a lungo desiderato, ci attende al Losmen di K.A. Colondam (Jln. Ma- traman, Raya 113, Giacarta, tel. 81881) economico ritrovo dei più disparati gira- mondo. Per arrivarci dalla sede del club (Tg. Priok, Bakhtera Jaya, tel 290491) bisogna prendere un ridicolo taxi-bicicletta (sul portapacchi posteriore), poi un taxi- motoretta (più confortevole, veloce e pericoloso), quindi mezz'ora come acciughe in un bus d'anteguerra. è questa l'Indonesia, per conoscerla e apprezzarla ci vuole tempo, tanto spirito d'adattamento e un pizzico d'umorismo.

Testi & foto di Massimo Maggia - 1977

 

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