IL PENDOLO
di

Lorenzo De Marco

 

   
  Era quanto di meglio Edward potesse aspettarsi da una vacanza. Lontano da una moglie odiosa e indisponente, solo come non avrebbe mai sperato di essere, in un paese di sogno: il Kenja.

  Eccitato dalla prospettiva di passare due intere settimane lontano da tutto e da tutti, premette l’acceleratore a tavoletta e la jeep volò libera come il guidatore sul terreno non ancora contaminato dall’asfalto. Un branco di giraffe, incuriosite dal rombo del motore lo seguirono a distanza per un certo tratto poi, stanche di quel gioco si allontanarono in un’altra direzione. La vegetazione si faceva sempre più fitta, segno che si stava avvicinando alla meta. Secondo le carte, il lago Vittoria doveva distare ancora pochi chilometri.

  Forse faceva male a muoversi da solo in quel paese, ma aveva rifiutato una guida perché avrebbe  tradito il suo desiderio di isolarsi completamente, almeno per quei pochi giorni, dal resto del mondo. D’altronde, riteneva di non averne bisogno. Aveva un ottimo senso dell’orientamento e con una bussola e una buona mappa, si era sempre vantato di poter andare ovunque.

  Poche ore dopo infatti, la distesa bianco azzurra del lago apparve all’orizzonte. Grande come un mare, non riusciva a vederne la riva opposta. Un fremito gli percorse il corpo per la piacevole sensazione di trovarsi finalmente a tu per tu col suo elemento favorito.

  Il sole, ormai basso, combatté e perse la sua battaglia contro le tenebre incombenti, macchiando il cielo di sangue e i monti, le acque, il cielo e le piante furono ben presto preda del buio. Edward scese dall’auto e si mise a raccogliere rami secchi. Poco dopo, alte lingue di fuoco lanciarono una nuova sfida alla notte.

  Cenò con della carne salata e col whisky, cosa che non gli mancava mai. Alla fine, seduto accanto al fuoco, la schiena appoggiata ad un tronco caduto, si accese una sigaretta e così se ne rimase ad ascoltare il respiro leggero del vento, le carezze dell’acqua sulla riva e il crepitio dei rami accesi. Tutt’intorno gli animali notturni lanciavano i loro versi. Si trovava in paradiso.

  Quando fu stanco di stare in quella posizione, si preparò per la notte. Ravvivò il fuoco con altra legna, caricò il fucile e si avvolse in una coperta stendendosi accanto al fuoco. Un ruggito lontano lo fece sorridere compiaciuto. Ancora una volta avvertiva il fascino della solitudine: un uomo, solo. Uomo e Natura, l’eterna simbiosi in quell’equilibrio ristabilito.

  La notte passò in fretta e anche se dormì poco, quasi non se ne accorse, troppo eccitato da quel luogo e dal fatto che lui si trovasse lì. Così, prima che le luci dell’alba rischiarassero il cielo si diede da fare. Estrasse dalla jeep una muta e l’intero equipaggiamento da sub. Controllò che tutto fosse a posto, poi indossò la tuta e tutto l’equipaggiamento, appese al collo la maschera, fissò alla gamba il pugnale e ai polsi gli indicatori di pressione e di profondità, si assicurò che la lampada funzionasse e si caricò sulle spalle le bombole, assicurandole alla vita con robuste cinghie di cuoio. Calzò le pinne, prese infine la speciale videocamera e se la sistemò come un terzo occhio sulla fronte. Era pronto.

  L’acqua del lago era tiepida ma avvertì lo stesso un piacevole brivido corrergli lungo tutto il corpo. Il sole ormai stava facendo capolino all’orizzonte. Si tuffò goffamente, impedito dalle pesanti attrezzature e di colpo il familiare mondo marino gli apparve dinanzi in tutto il suo splendore. I raggi del sole mattutino filtravano attraverso la superficie dell’acqua e illuminavano il fondale, ancora basso,  creando un fantasmagorico gioco di luci e ombre. Con un colpo di reni si dette la spinta verso il basso e incominciò la discesa.

  Pesci striati gli guizzarono intorno incuriositi. Alcuni, i più avventurosi, gli si paravano davanti fermandosi con il muso e i piccoli occhi sulla maschera, dando l’impressione che vi volessero sbirciare dentro. Li scostò delicatamente e proseguì verso il fondo. La cintura di profondità gli facilitava il compito ma per naturale prudenza si spostava lentamente.

  A una certa profondità la luce del sole non riuscì più a illuminare il fondale. Edward accese la lampada. Un bagliore attirò la sua attenzione. Sotto una grande roccia sporgente ai fianchi di una specie di collina sottomarina, aveva visto o pensava di aver visto un riflesso come di qualcosa di metallico. Ed si spostò per vedere meglio verso destra puntando nuovamente la torcia nella stessa direzione ma senza risultato. Cercò allora di andare a ritroso, con la luce della lampada sempre orientata nella stessa direzione. Niente. Soltanto rocce e anfratti. Le pareti della collina erano  letteralmente costituite da quelle rocce che sembravano tutte uguali.

  Escluse l’ipotesi che si fosse trattato di un’allucinazione e cercando di non  spostarsi da quel punto cominciò a muoversi compiendo cerchi concentrici sempre più stretti. Stava quasi per lasciar perdere quando il raggio di luce illuminò nuovamente la superficie riflettente. Dunque non si era sbagliato. Rimase immobile per non perdere di vista il bagliore poi, lentamente, si mosse verso quella direzione.

  Avvicinandosi, si accorse che quel bagliore era causato da un qualcosa di metallico che, constatò con stupore, costituiva un’apertura nel fianco della collina. Una sensazione di gelo lo assalì toccando il metallo. Era scavato nella roccia stessa. Si domandò se tutto il fondale altro non fosse che una vena metallifera di inverosimili proporzioni. Immediatamente pensò alla immensa ricchezza che quella scoperta gli poteva procurare. Cercò di indovinare che metallo fosse ma non vi riuscì, non se ne intendeva.

  Rivolse allora la sua attenzione all’interno. La lampada illuminò un corridoio che scendeva verso il basso. Edward non capiva. Tutto gli sembrava assurdo. Un corridoio scavato in una gigantesca vena metallifera, a quella profondità, gli mise addosso la paura dell’ignoto. Ma il desiderio di sapere fu più forte di lui. Esitò solo un attimo prima di entrare nel corridoio. Diede un’occhiata all’orologio e al manometro delle bombole e oltrepassò la soglia.

  Nuotò e strisciò cautamente, cercando di evitare gli spuntoni del metallo, simili a denti di squalo e altrettanto pericolosi. Il cunicolo continuava a scendere come una scala a chiocciola di grandi dimensioni. Controllò nuovamente l’indicatore della riserva d’aria. Era in immersione da quindici minuti, gli restava meno di un’ora ma buona parte di questa doveva impiegarla a risalire lentamente in superficie se non voleva correre il rischio di un’embolia.

  Si domandò quando sarebbe terminato quel girotondo.

  Una decina di minuti dopo arrivò alla fine del tunnel. Il corridoio si allargava in una specie di stanzone e di lì non si vedevano altre uscite. Cercò tuttavia di risalire la parete nel caso rivelasse una sacca d’aria. Non si sbagliò. Il fondo saliva gradatamente fino a che Edward non emerse alla superficie di una grandiosa, inconcepibile caverna. Immediatamente si tolse il bocchettone chiudendo le valvole delle bombole. Controllò il manometro. Aveva trenta minuti di ossigeno. Appena il tempo sufficiente per ritornare in superficie. Messo in difficoltà dalle pinne strisciò fino a riva. Lì si tolse la maschera e guardò meglio.

  Rivolse il raggio della lampada in alto. Il soffitto fu illuminato da una luce tenue. La volta doveva essere alta centinaia di metri. Tutta la caverna, per quello che riusciva ad illuminare la luce della torcia, doveva essere grande forse un chilometro. Roba da non crederci.

  Un’unica, grande colonna, pressappoco al centro della caverna univa la volta al suolo. Edward ebbe una tremenda paura che quell’immane soffitto potesse cascare da un momento all’altro. Quasi senza pensare camminò sulla sabbia finissima lasciando impronte marcate dei suoi piedi nudi. Aveva lasciato vicino alla riva le pinne e le bombole.

  “Le prime orme lasciate su questo suolo sono quelle di un uomo. Le mie.” Pensò.
  Guardò ancora in alto, facendosi luce con la torcia. La lampada non era molto potente ma stranamente i riflessi del metallo si trasmettevano rimbalzando in ogni anfratto, amplificandosi e distribuendo una luminescenza tenue ma quasi totale.

  Quando fu abbastanza vicino alla colonna centrale da poter vedere meglio pensò di stare sognando. Si accorse che quella che credeva  una gigantesca stalattite unita a una stalagmite era invece una grande goccia di materiale solido, sospesa a pochi metri dal suolo. E quella goccia si muoveva! Lentamente, inesorabilmente, assurdamente dondolava da destra verso sinistra tracciando un angolo di circa 45 gradi. Cercò di forzare la vista e credette allora di distinguere sul soffitto, attorno alla goccia, tanti piccoli rigonfiamenti, tutti di eguale dimensione. Quelle piccole gobbe (che data la distanza dovevano essere del diametro di diversi metri) erano unite alla parte centrale, al punto cioè da cui nasceva la goccia gigantesca, da una raggiera. La visione di insieme era quella della cupola di una impossibile cattedrale.

  Edward smise di guardare in alto e ritornò ad osservare il suolo. Ai piedi della goccia, c’era un  buco, dal diametro di un centinaio di metri. Cautamente si avvicinò sull’orlo e vi diresse il fascio di luce della lampada. Non riusciva a vederne il fondo. Nero profondo, come se quel  buco assorbisse la luce e non la restituisse per qualche inspiegabile ragione.

  Scelse un grosso masso e lo lanciò verso il centro del buco. Si piegò sulle ginocchia e rimase in attesa ad ascoltare. Passarono secondi, poi minuti. Niente. Nessun rumore. Quel pozzo doveva essere profondo centinaia di chilometri. Si alzò rabbrividendo. Improvvisamente sentì il bisogno di uscire da quel posto il più presto possibile. C’era qualcosa di strano, di maledettamente strano in quel luogo. Quella caverna non era opera della natura. Non poteva. Non aveva senso. Quella goccia sospesa, quella raggiera alla sommità della caverna. No. Tutto ciò non era per niente naturale. Doveva andare via. Immediatamente.

  A grandi passi raggiunse l’acqua e indossò velocemente la maschera, le bombole e gli altri attrezzi di cui si era liberato pochi minuti prima. Presto, più presto, doveva uscire di lì prima che fosse troppo tardi. Sentiva nell’aria e dentro di sé qualcosa di tremendo. Fiutava lo strano, terribile odore della morte. Presto, PRESTO!

  Stava per immergersi quando un boato tremendo, assordante lo immobilizzò dalla paura. Il rumore proveniva dall’interno della caverna. Vide le pareti vibrare a lungo mentre il boato languiva in qualche buio angolo della cavità.

  “E’ un orologio.” Pensò atterrito. “Un orologio immane, un inconcepibile pendolo che segna il tempo di tutte le cose, il tempo del mondo, dell’universo, il tempo dell’Uomo. L’orologio della natura.”

“Non secondi o ore, ma secoli e millenni l’orologio scandiva in attesa della fine!”

  Si. Perché Edward era ormai convinto come lo è un pazzo che quell’orologio doveva essere stato caricato e doveva perciò anche possedere una suoneria, una sveglia, un limite di tempo che avrebbe annunciato qualcosa di terribile e di fatale inesorabilità per qualcuno.

  Si tuffò in acqua e ben presto penetrò nel corridoio. Nuotava velocemente adesso, ma gli sembrava che quella stretta parete del cunicolo non finisse mai. Guardò l’indicatore di riserva d’aria: 30 minuti. Cercò di andare più veloce ma gli sembrava, per quanto si sforzasse, di essere sempre allo stesso punto.

  Urtò violentemente contro uno spuntone, si fermò massaggiandosi la gamba e osservò la tuta lacerata: 20 minuti – “Dio aiutami.” – I suoi polmoni soffiavano come mantici, masticando l’aria delle bombole, le orecchie gli ronzavano. Si svolgeva tutto come in un sogno: lento, lento, una sequenza di immagini sempre uguali, ossessive, ripetute all’infinito. E vedeva la grotta, l’orologio, il “ticchettio” titanico………..15 minuti!

  “Oh Signore” – Tra poco non ci sarebbe stato più tempo.  Nell’istante in cui lo pensò la vide. Una cavità: l’uscita! Con incredibile sollievo si lanciò fuori e nuotò verso la superficie, verso la vita. Ma mentre saliva si accorse che qualcosa non andava per il verso giusto: nel cunicolo aveva avuto il primo dubbio e ora altri se ne accavallavano orribilmente.

  Quando si ritrovò di nuovo nella grotta credette di capire: il pendolo aveva segnato il suo tempo e forse anche quello dell’uomo. Che fosse capitato lì o in un qualsiasi altro posto quindi non faceva alcuna differenza, il suo tempo era agli sgoccioli. Scoppiò a ridere come solo un pazzo può fare e l’orribile eco della sua risata si amalgamò con l’assordante ticchettio.

 

 

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