IL PIANETA
di

Lorenzo De Marco

 

   
  Il pianeta. Un piccolo mondo morto da milioni di anni sepolti sotto strati di roccia e di polvere e sabbia gialla, finissima, impalpabile, sollevata per miglia da un vento impetuoso, incessante, che soffiava con forza il suo alito caldo sulle vecchie rovine delle città fantasma. Quelle rovine che corrose dal tempo, spezzate da una guerra che vide il suo ultimo giorno in un antico, terribile pomeriggio di sangue e di furore, bianche come ossa, formavano l’unico, netto contrasto con i cupi colori del cielo e della terra. Paludi scure gorgogliavano sprigionando nauseanti odori e ribollenti fumi che riempivano l’aria tutta intorno dell’opaco colore della morte antica. Sgretolate, tormentate da un vento flagellante, chiazzate dai rossicci  colori di una terra arsa le montagne, simili a volti scolpiti nell’attimo fatale in cui gridavano all’universo una vana preghiera si susseguivano per migliaia di chilometri, senza  soluzione di continuità.

  Il pianeta: un piccolo mondo di rocce e di morte, di polvere e sabbia tenute insieme da lacrime di rabbia impotente e dolore, tanto dolore per i fiumi di sangue rappreso ormai da secoli ma che in quel tempo lontano sommersero le candide mura delle città devastandole, riducendole a quello che erano adesso: contorti moncherini rimasti lì, in piedi, come una muta, inquisitrice testimonianza di quell’orribile passato.

  Sabbia, rocce e morte; polvere, rocce e morte. Tutto in quel pianeta era la morte. La morte di milioni di vite, di milioni di speranze e dei sogni e delle utopiche illusioni. Era la morte della natura, della civiltà, delle generazioni mai nate. E il suo unico, bianco satellite copriva di pallida luce, pietoso sudario, il suolo bruciato.

  Eppure, tra tanta morte, la vita c’era.

  Il ronzio lontano crebbe di intensità fino a che l’astronave non atterrò sul ciglio di una palude. Alte colonne di fuoco si innalzarono con un sibilo assordante sotto la spinta dei razzi stabilizzatori in quel cielo che vide  e che pianse.

  Arthur scese dal veicolo senza curarsi di indossare la tuta spaziale e il casco. Non ne aveva bisogno. Lui era uno dei pochi discendenti di quella razza estintasi annegando in un mare di follia. Un essere immortale, dalla forza e dai poteri inconcepibili. Lui era il figlio del pianeta. L’ultimo figlio, a cui la madre, in un supremo sforzo, aveva donato tutte le sue ultime energie.

  Il vento lo abbracciò, riconoscendo l’amico e fratello. La palude di petrolio ribollì, felice di rivederlo e la sabbia gli danzò intorno nascondendosi tra i suoi capelli o pizzicandogli con impeto gioioso il corpo seminudo. Arthur abitava su un altro mondo, lontano, lontano nelle tenebrose spirali dello spazio, su una di quelle stelle che nel cielo si confondevano, ma il suo immenso amore per il pianeta gli faceva percorrere milioni di anni luce per incontrarlo, per rivederlo e per parlargli, si! Per parlargli degli altri mondi e della sua vita. Nessuno conosceva il suo segreto. Nessuno sapeva dove si trovasse quel pianeta, né che lui ci fosse nato tanti anni prima. Secoli, millenni prima.

  Arthur sorrise e si sedette su un masso, vicino alla palude.

  - “Benvenuto, Arthur!” – Disse il pianeta parlando con la voce acuta del vento, col frusciare della sabbia contro la roccia, col palpitare delle bolle nere nelle acque scure della palude. “Su! Racconta. Raccontaci Arthur. Siamo ansiosi di ascoltarti. Abbiamo aspettato così tanto tempo!”

  E Arthur parlò. Raccontò cose meravigliose, parlò di maestose città operose, piene di vita e di luce, e dei verdi giardini, e delle acque chiare e fresche. Parlò della sua donna, del colore dei suoi occhi; parlò della gente, di tanta gente. Raccontava storie splendide, e il pianeta lo ascoltava in estasi e in assoluto silenzio, rivivendo il suo felice passato prima della guerra. Arthur raccontava per ore, senza stancarsi, delle cose più impensate, più strane o anche di piccole cose e scherzava, e quando rideva riempiva il pianeta di fragorose risate che il vento afferrava portando con se ma non disperdendole, oh no! Seminandole invece con cura come fossero stati semi magici capaci di ridare la vita che si era estinta da troppo tempo.

  - “E’ bello osservare la gente per le strade di Algaman mentre a migliaia passeggiano, corrono, si incrociano, lavorano continuamente, sempre attenti a non essere investiti dalle auto che sfrecciano per le strade. Durante certe ore poi, quelle auto dalle più svariate forme e colori si addensano così tanto da coprire le larghissime strade e come serpenti di metallo si snodano, senza capo né coda per tutta la città e il rombo dei motori, il suono dei claxon, le grida, il brusio crescono fino a formare un fragore assordante.”

  - “Di notte invece, grandi insegne luminose si accendono e si spengono continuamente, a ritmi diversi, cercando di attirare l’attenzione dei passanti. E i negozi, tutti illuminati, dalle vetrine abbaglianti espongono cose bellissime, a volte strane, curiose, portate dagli altri pianeti. Allora una calca tremenda si crea nei grandi shop…..” - E così continuava, continuava, felice lui di parlare e felice il suo mondo di ascoltare. 
  Ma poi giunse l’ora che entrambi avevano temuto e che forzatamente, quasi per tacita intesa, avevano cercato di ignorare.
  - “Ora devo partire. Si è fatto tardi.”
  - “Resta ancora un poco, Arthur” – dicevano i sassi e il vento e le paludi – “Racconta, raccontaci ancora.”

  Lui sorrise e si risedette continuando a raccontare di altre cose. Passarono altre ore. Poi si alzò nuovamente. Doveva andare. Questa volta il pianeta capì e non insistette. Il vento si quietò, ogni rumore si affievolì. La partenza era sempre terribile. Il pianeta sarebbe ritornato di nuovo ad essere solo.
  Arthur salì a testa bassa sull’astronave. Dietro di lui il portello si chiuse. Passarono alcuni minuti in cui il mondo attese in silenzio, ormai rassegnato, la sua partenza.
  Ma Arthur uscì di nuovo. Sorrideva. Aveva con sé un piccolo apparecchio metallico. Subito il vento sibilò tra le sue mani, curioso. – E’ un registratore.” – Disse  - “Trasmette parole e suoni” - Lo poggiò su un masso concavo, in modo da proteggerlo dal vento e lo mise in funzione.
  Le note armoniose di una splendida canzone si diffusero dagli altoparlanti, disperdendosi nell’aria trepidante. Dalla musica emerse una voce calda, sincera che il pianeta subito riconobbe. La voce si librò potente e allo stesso tempo leggera come una piuma nel cielo.
  
  -   “Sono canzoni.”- spiegò Arthur al pianeta – “Sono le mie canzoni. Le scrivo e le canto. Alla gente piace ascoltarle. Su molti mondi sono cantate da tutti.
  Il vento cessò quasi del tutto per ascoltare meglio.

“Tra le stelle lontane c’è un mondo
al di là dei ricordi dell’Uomo.
C’è una terra che piange e che spera
di rivivere ancora una volta.

E’ là, dove il vento sospira il mio nome,
là dove ricorda paesaggi perduti.
Era un mondo di sogno:
Sono sogni perduti?

Quella terra è mio padre.
Quella terra è mia madre.
È lo stesso mio cuore.
E’ una terra di sogno:
sono sogni perduti?”

  Mentre tutto il pianeta ascoltava, nuvole grigie si ammassarono sull’astronave e silenziosi lampi saettarono nel cielo. Cadde la pioggia. Una pioggia calda, leggera che bagnò il volto rugoso della terra. Erano lacrime. Lacrime di commozione e di felicità.
  - “Grazie, Arthur, grazie” – disse il  pianeta piangendo usando la voce del vento  – “Vorrei poter ricominciare.”
  - “Ci riuscirai” – gli disse Arthur e si volse, piangendo anche lui, verso la nave.

  L’astronave partì tra le stelle mentre le note di un’altra canzone fecero battere di nuovo il cuore della Terra.

 

 

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