CEREBROMORTE
di

Lorenzo De Marco

 

   
  Un lettino di ospedale. Ecco dove  Anna era costretta a vivere da tanto tempo. Quel lettino, quella squallida e grande stanza pregna del nauseante odore di disinfettante, quella orribile clinica che la ospitava da troppo tempo erano diventati il suo mondo: un mondo popolato da malati, medici e infermieri.

  Anna aveva undici anni ma aveva già imparato ad odiare. Odiava i medici che le promettevano una guarigione che aspettava da anni, odiava le infermiere che la coccolavano e scherzavano con lei trattandola ancora come quella piccola bambina smarrita e impaurita che entrò per la prima volta in corsia non ricordava più quanto tempo prima. Odiava i malati perché si lamentavano sempre, in continuazione e odiava le finestre perché  le mostravano un mondo che lei desiderava con forza e allo stesso tempo rifuggiva, poiché sapeva che non ne avrebbe mai fatto parte. Odiava i visitatori, gli amici e i parenti dei malati perché appartenevano al mondo di fuori. Ipocriti e bugiardi, facevano finta di comprendere il malessere di coloro che erano prigionieri della clinica e delle loro malattie; odiava la loro falsa comprensione e ancora di più la loro compassione. Dietro le maschere che indossavano, piene di contrizione, riusciva a leggere la voglia quasi insopportabile di scappare via da quel luogo che trasudava il male da ogni poro, lontano da tutto ciò che per loro significava dolore e malattia.

  Ma ancora di più odiava i suoi genitori che non avevano fatto niente per cambiare le cose, per farla tornare a casa. L’avevano lasciata a marcire lì, su quel lettino immutabile e implacabile come il suo destino.

  Destino! Ne aveva uno lei? Certo. Quello di morire lì, dentro quella bara senza coperchio. Era difficile, impossibile rassegnarsi. E lei non lo aveva mai fatto. Che male aveva? Era qualcosa con uno di quei nomi difficili e terribili, qualcosa che aveva al cervello. Qualcosa che aveva spaventato sua madre e suo padre al punto da decidere di rinchiuderla in un ospedale. Una “diversa” la chiamavano i medici quando parlavano tra loro e lei ascoltava fingendosi distratta. Si, perché Anna aveva imparato a fingere. Fingeva con tutti. Era sempre troppo docile, troppo remissiva, troppo ubbidiente mentre l’odio covava in lei come un seme maledetto e velenoso, ingigantendo con il passare dei giorni, dei mesi. Quello che la confortava era che nessuno sospettava che dentro quel corpicino affusolato da ragazzina, dietro quel volto carino e innocente si nascondeva una furia repressa e crescente in attesa di esplodere.

    Il suo odio cieco salvava soltanto una persona. Una donna, una signora anziana, di nome Maria. Non la odiava forse perché le ricordava sua nonna Emy, che non aveva più visto da quando era entrata nella clinica. Nonna Emy le piaceva molto, era divertente, la faceva sempre ridere. La prendeva in braccio e le raccontava favole bellissime. Nonna Emy le voleva bene. Durante una delle loro visite sempre più rare, i suoi genitori le dissero che non c’era più, che se n’era andata. Lei sapeva che era morta. Era abbastanza grande ormai per capire certe cose. Perché si ostinavano a trattarla come una bambina piccola e senza cervello?

   La donna si chiamava Maria. Era sua compagna di stanza da più di due anni. Non si alzava quasi mai dal suo letto se non con l’aiuto degli infermieri. Era molto malata, immobilizzata da un male terribile: la paralisi. Riusciva a muovere solo la bocca.

  Anna vide Maria per la prima volta quando due infermieri adagiarono la donna, ancora addormentata, sul lettino accanto al suo. La nuova paziente costituiva un elemento nuovo nella sua vita, spezzava la sua monotona routine quotidiana, così lei le era corsa accanto curiosa ed era rimasta ad osservarla. Rimase affascinata nell’osservare le rughe che disegnavano strani intrecci sulla pelle della donna e al tempo stesso donavano ai lineamenti del suo volto una espressione di infinita saggezza e di dolcezza. Somigliava davvero molto al volto che lei custodiva nella sua memoria di nonna Emy. Forse per questo Anna sentì di volerle bene quasi subito.

    Quando entrambe si abituarono alla reciproca presenza, la donna le raccontò la storia della sua vita. A poco a poco, col passare dei giorni, dei mesi, degli anni seppe tutto dei sui bambini, di suo marito e di quell’orribile malattia. Quella signora divenne ben presto la sua unica amica. Forse perché a differenza degli altri malati non si lamentava mai. Anna a volte pensava che se avesse cominciato a farlo, avrebbe odiato anche lei.

  A volte capitava che Maria si chiudeva in se stessa e così rimaneva per ore, per l’intera giornata, sorda ai richiami di Anna. Allora lei capiva e la lasciava in pace, sola coi suoi pensieri, col suo dolore.

  Poi Anna stette male. Un dolore acuto, straziante alla testa la fece delirare per settimane. La sua mente sembrava un ferro rovente che le bruciava di dentro le carni; le vene si trasformarono in fiumi di materia incandescente; l’intero suo corpicino si trasformò in  lava fusa. E nel delirio, nell’agonia Anna cominciò a parlare. Il suo odio cieco, senza più controllo veniva ributtato, vomitato fuori senza che lei se ne potesse rendere conto.

  -  “Maledetti dottori, maledetti malati, maledetti tutti, demoni malvagi. Io vi odio. Vi odio. Non voglio più vedervi, non voglio più vedere nessuno di voi…. Sparite maledetti! Credete di tenermi in pugno. Pensate che sia una povera bambina indifesa. Pensate di continuare a tenermi prigioniera per tutta la vita. Ve ne accorgerete. Io vi odio, vi odio con tutte le mie forze  e vi distruggerò tutti, tutti, TUTTI!” - Poi piangeva e le lacrime le scaldavano le guance ardenti e continuava a delirare, a svelare quello che aveva saputo così gelosamente custodire nel suo animo.
  - “Maria….Maria, stammi vicino, sto male, tienimi la mano. Non avere paura…io…io ti voglio bene. Tu sei la mia unica amica. Non potrei mai farti del male. Vorrei poterti guarire, fare quello che i medici non ti hanno fatto perché te lo meriti, tu sola…..perché sei buona…perché hai sofferto tanto….Maria, non mi lasciare anche tu come i miei genitori….stammi vicina!” -  E Piangeva. Per lei, per Maria e la sua mente ribolliva e stava sempre peggio, sempre peggio.

  Poi la febbre cessò. Il dolore si placò e lentamente, molto lentamente scomparì nel nulla. Il fuoco nel suo corpo si spense e le sue guance porpora si colorarono di un pallido rosa. Finalmente Anna ritrovò la calma. Quando si svegliò e aprì gli occhi la prima cosa che vide fu il volto di Maria consumato dalle lacrime, inginocchiata vicino al suo letto. Lei si era alzata!
  - “Sei guarita Anna, è tutto passato.”

  Anna era ancora debolissima. L’immagine della donna era sfocata. Cercò di mettere a fuoco la vista ma non ci riuscì. Chiuse gli occhi e si rilassò, lasciando che le forze le ritornassero lentamente, poi li riaprì e abbozzando un sorriso disse: -“Sei guarita! Puoi muoverti.”
  Maria fece cenno di si con la testa e continuò a singhiozzare.

  - “Perché piangi Maria?" – Le domandò. Non ebbe risposta. Qualcosa, in fondo alla sua mente si agitò. No. Non doveva permettere all’odio di crescere di nuovo. Non contro di lei. Voltò la testa e per la prima volta si guardò intorno. Non riuscì a credere a quello che vedeva.
  - “Perché siamo all’aperto? E l’ospedale, i medici, gli altri malati?"
  - “Non c’è più niente!” – Gridò allora Maria  – “Guardati intorno. E’ scomparso tutto. Tutto! Tutto andato. Siamo sole, Anna. Tu ed io. Sole su un pianeta senza limiti. In un attimo tutto quello che c’era intorno a noi si è dissolto. Non è rimasto niente. Siamo sole. Tu ed io.” - E scoppiò di nuovo in lacrime.

  Muta per lo stupore, ancora incredula, Anna rimase a guardare il vuoto assoluto generato dal suo potere.

 

 

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