CEREBROMORTE |
Anna aveva undici anni ma aveva già imparato ad odiare. Odiava i medici che le promettevano una guarigione che aspettava da anni, odiava le infermiere che la coccolavano e scherzavano con lei trattandola ancora come quella piccola bambina smarrita e impaurita che entrò per la prima volta in corsia non ricordava più quanto tempo prima. Odiava i malati perché si lamentavano sempre, in continuazione e odiava le finestre perché le mostravano un mondo che lei desiderava con forza e allo stesso tempo rifuggiva, poiché sapeva che non ne avrebbe mai fatto parte. Odiava i visitatori, gli amici e i parenti dei malati perché appartenevano al mondo di fuori. Ipocriti e bugiardi, facevano finta di comprendere il malessere di coloro che erano prigionieri della clinica e delle loro malattie; odiava la loro falsa comprensione e ancora di più la loro compassione. Dietro le maschere che indossavano, piene di contrizione, riusciva a leggere la voglia quasi insopportabile di scappare via da quel luogo che trasudava il male da ogni poro, lontano da tutto ciò che per loro significava dolore e malattia. Ma ancora di più odiava i suoi genitori che non avevano fatto niente per cambiare le cose, per farla tornare a casa. L’avevano lasciata a marcire lì, su quel lettino immutabile e implacabile come il suo destino. Destino! Ne aveva uno lei? Certo. Quello di morire lì, dentro quella bara senza coperchio. Era difficile, impossibile rassegnarsi. E lei non lo aveva mai fatto. Che male aveva? Era qualcosa con uno di quei nomi difficili e terribili, qualcosa che aveva al cervello. Qualcosa che aveva spaventato sua madre e suo padre al punto da decidere di rinchiuderla in un ospedale. Una “diversa” la chiamavano i medici quando parlavano tra loro e lei ascoltava fingendosi distratta. Si, perché Anna aveva imparato a fingere. Fingeva con tutti. Era sempre troppo docile, troppo remissiva, troppo ubbidiente mentre l’odio covava in lei come un seme maledetto e velenoso, ingigantendo con il passare dei giorni, dei mesi. Quello che la confortava era che nessuno sospettava che dentro quel corpicino affusolato da ragazzina, dietro quel volto carino e innocente si nascondeva una furia repressa e crescente in attesa di esplodere. La donna si chiamava Maria. Era sua compagna di stanza da più di due anni. Non si alzava quasi mai dal suo letto se non con l’aiuto degli infermieri. Era molto malata, immobilizzata da un male terribile: la paralisi. Riusciva a muovere solo la bocca. Anna vide Maria per la prima volta quando due infermieri adagiarono la donna, ancora addormentata, sul lettino accanto al suo. La nuova paziente costituiva un elemento nuovo nella sua vita, spezzava la sua monotona routine quotidiana, così lei le era corsa accanto curiosa ed era rimasta ad osservarla. Rimase affascinata nell’osservare le rughe che disegnavano strani intrecci sulla pelle della donna e al tempo stesso donavano ai lineamenti del suo volto una espressione di infinita saggezza e di dolcezza. Somigliava davvero molto al volto che lei custodiva nella sua memoria di nonna Emy. Forse per questo Anna sentì di volerle bene quasi subito. A volte capitava che Maria si chiudeva in se stessa e così rimaneva per ore, per l’intera giornata, sorda ai richiami di Anna. Allora lei capiva e la lasciava in pace, sola coi suoi pensieri, col suo dolore. Poi Anna stette male. Un dolore acuto, straziante alla testa la fece delirare per settimane. La sua mente sembrava un ferro rovente che le bruciava di dentro le carni; le vene si trasformarono in fiumi di materia incandescente; l’intero suo corpicino si trasformò in lava fusa. E nel delirio, nell’agonia Anna cominciò a parlare. Il suo odio cieco, senza più controllo veniva ributtato, vomitato fuori senza che lei se ne potesse rendere conto. -
“Maledetti dottori, maledetti malati, maledetti tutti, demoni
malvagi. Io vi odio. Vi odio. Non voglio più vedervi, non voglio più
vedere nessuno di voi…. Sparite maledetti! Credete di tenermi in
pugno. Pensate che sia una povera bambina indifesa. Pensate di
continuare a tenermi prigioniera per tutta la vita. Ve ne accorgerete.
Io vi odio, vi odio con tutte le mie forze
e vi distruggerò tutti, tutti, TUTTI!” - Poi piangeva e le
lacrime le scaldavano le guance ardenti e continuava a delirare, a
svelare quello che aveva saputo così gelosamente custodire nel suo
animo. Poi la
febbre cessò. Il dolore si placò e lentamente, molto lentamente
scomparì nel nulla. Il fuoco nel suo corpo si spense e le sue guance
porpora si colorarono di un pallido rosa. Finalmente Anna ritrovò la
calma. Quando si svegliò e aprì gli occhi la prima cosa che vide fu
il volto di Maria consumato dalle lacrime, inginocchiata vicino al suo
letto. Lei si era alzata! Anna
era ancora debolissima. L’immagine della donna era sfocata. Cercò
di mettere a fuoco la vista ma non ci riuscì. Chiuse gli occhi e si
rilassò, lasciando che le forze le ritornassero lentamente, poi li
riaprì e abbozzando un sorriso disse: -“Sei guarita! Puoi
muoverti.” -
“Perché piangi Maria?" – Le domandò. Non ebbe risposta.
Qualcosa, in fondo alla sua mente si agitò. No. Non doveva permettere
all’odio di crescere di nuovo. Non contro di lei. Voltò la testa e
per la prima volta si guardò intorno. Non riuscì a credere a quello
che vedeva. Muta per lo stupore, ancora incredula, Anna rimase a guardare il vuoto assoluto generato dal suo potere.
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