IL BUCO |
Si era appena svegliato. Sdraiato sul divano
a pancia in giù e con la testa fuori dal bordo aveva la schiena
indolenzita e i muscoli del collo atrofizzati. Cambiò posizione con
un gemito. Si sentiva più stanco di quando si era appisolato. Faceva
un caldo terribile ed era tutto sudato. Henry aveva trentotto anni e tutto sommato, niente di più da chiedere alla vita che già non avesse. Era single, quindi niente catene. Il suo discreto lavoro gli permetteva di condurre una esistenza agiata. Aveva una bella casa, una bella macchina e una agenda sufficientemente piena di numeri di telefono appartenenti soprattutto all’altro sesso, per cui poteva ritenersi uno di quegli uomini più unici che rari a non porsi preoccupazioni di sorta. Reduce da una monotona mattinata in ufficio aveva pranzato con pollo surgelato e patate al microonde innaffiati da una lattina di birra ghiacciata. Si era poi concesso una generosa fetta di torta di mele, avanzo della cena del giorno prima e dopo aver sistemato come d’abitudine piatti e posate nel lavastoviglie insieme all’altro pentolame ancora da lavare, aveva deciso che c’era abbastanza tempo per un pisolino. Per cui era rientrato nel soggiorno e si era sdraiato sul lungo divano di velluto. La pennichella doveva essere durata circa un’ora.
Quando si svegliò in quella strana posizione, fu portato a fissare il
pavimento, con la mente e la vista ancora annebbiate dal sonno. Ancora
stordito, cercò di mettere a fuoco lo sguardo. Un piccolo foro
attirò la sua attenzione. Il suo sguardo semiaddormentato lo fissò
svogliatamente. Proprio al centro di un mattone c’era un minuscolo,
insignificante buco dalle dimensioni di una capocchia di spillo. Quando ritornò a fissare il buco lo vide
circondato da diverse formiche mentre altre continuavano ad uscire
dalla minuscola apertura. All’inizio erano decine. Prima che se ne
rendesse conto divennero centinaia. Però c’era da stupirsi. Henry aveva già visto altri formicai in campagna ma mai aveva visto tante formiche e mai così ordinate e organizzate. Sembrava fossero state istruite a obbedire prontamente e alla perfezione agli ordini dei loro capi come se fossero preparati da tempo, come se fossero creature intelligenti. Perse la cognizione del tempo. Con lo
sguardo ipnotizzato da quel foro, restò immobile a osservare le
minuscole creature nelle loro complicate manovre. Intanto ne erano
uscite e scomparse svariate migliaia e non riusciva a capire dove
diavolo fossero andate a finire. Finalmente anche gli scarafaggi scomparvero nell’ombra, cacciandosi chissà dove. Il buco ingrandì ancora e Henry rabbrividì per il ribrezzo: viscidi e schifosi vermi strisciarono fuori. Erano di ogni dimensione e la casa si riempì di quell’orribile rumore come di melma rimescolata. Li vide intrecciarsi, ammonticchiarsi a migliaia, li vide pulsare e secernere sostanze gelatinose e vischiose. E quel rumore ripugnante, quel pulsare…. Vomitò con le labbra serrate, non potendole aprire. Il liquido giallastro gli bagnò il mento spruzzando il velluto del divano e macchiando il pavimento, ormai completamente ricoperto di vermi. Il colmo del disgusto lo raggiunse quando li vide arrotolarsi freneticamente e banchettare con il frutto dei suoi conati. Fu sul punto di svenire e lo sperò vivamente ma per sua sfortuna non accadde. Non era possibile, no, maledizione. Doveva fare qualcosa. Ma cosa? Tentò di chiudere gli occhi, di non vedere ma le palpebre non si chiusero. Anche i vermi sparirono. E vennero i topi. Paura, Paura, PAURA! Non gli badavano minimamente, uscivano dal buco maledetto e sparivano attraverso la porta e intanto il foro continuava ad allargarsi e vennero fuori altri topi che non sembravano più topi, tanto erano grossi e dai musi strani e orribili, con lunghi denti simili ad aghi. La branda si spostava col pavimento mentre il foro si allargava. Aveva raggiunto il diametro di circa mezzo metro e continuava ad allargarsi, dannazione, si allargava. E gli animali continuavano ad uscire fuori gli uni sugli altri con le piccole zampe che cercavano appigli. Paura, Paura, PAURA! Perché stava succedendo una cosa che lui
considerava assurda. Paura perché lui era l’unico spettatore. Paura
perché era impotente, incapace di fare qualcosa, qualsiasi cosa. Ecco, si, lui era pazzo e in quel momento era preda delle sue allucinazioni. Perciò doveva calmarsi e guardare e pensare, aspettando che quelle allucinazioni terminassero. Pensare però era la cosa più orribile, sebbene l’unica cosa che potesse fare. Pensare e guardare, guardare e pensare. "Dio, fammi perdere i sensi" Pregò mentalmente al colmo della disperazione – "O almeno fa che non possa guardare". E i topi uscirono tutti e vennero altri animali che Henry non aveva mai visto prima. Animali strani, con tentacoli e con grandi occhi, zampe artigliate e code prensili e sempre di più grandi dimensioni. Il buco si era allargato tanto da occupare tutto il centro del suo appartamento, completamente distrutto dai mostri che uscivano dal foro e si lanciavano all’aperto come se eseguissero una azione disposta in precedenza. Ma sicuro. Seguivano un piano, un diabolico piano dettato da una mente superiore. Henry si sforzò di pensare ad altro e di
non farsi trascinare definitivamente dalla pazzia mentre era costretto
a guardare. Henry cadde a una velocità folle in quel pozzo che portava giù, giù fino al centro della terra. Si svegliò in un bagno di sudore levandosi a sedere sul divano e si accorse che stava gridando. Gli ci volle parecchio tempo per rendersi conto che aveva sognato. Il sole del pomeriggio estivo illuminava la
camera. Guardò l’ora e si ricordò del lavoro. Era in ritardo di
una buona mezz’ora. Avviandosi con l’auto verso il suo ufficio
si ritrovò a pensare al sogno. Mentre Henry, imbottigliato nel traffico continuava a pensare al sogno, a casa sua, ai piedi del divano, un piccolo, quasi invisibile forellino delle dimensioni di una capocchia di spillo comparve dal nulla proprio al centro di un mattone. Una piccola formica uscì sparendo sotto un mobile.
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Lorenzo De
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