FUTURO PROSSIMO
di

Lorenzo De Marco

 

  Il pulsare metallico e regolare dell’orologio di bordo aveva una cadenza ipnotica.

  Luci al neon, diffuse uniformemente in tutta l’astronave illuminavano a giorno i lunghi e tortuosi corridoi, le grandi sale e le spaziose cabine lussuosamente arredate. Ma quel lusso, eccessivo e sproporzionato, dal gusto lascivo, opulento, pieno di mollezze, simbolo di una civiltà all’apice del suo splendore o forse nel baratro della più profonda decadenza era assolutamente superfluo in quanto inutilizzato. Tutto quel lusso era in netto contrasto con l’austera, sobria, asettica atmosfera che si poteva respirare sulla Nave. Pure, in quell’ambiente puro ed incontaminato non vi era la benché minima traccia di polvere a testimoniarne il disuso e l’abbandono. Tutto era perfettamente lucido, pulito e ordinato.

  Lo scafo era completamente deserto. Gli unici suoni, che si ripetevano fini solo a se stessi, erano il ronzio del computer, il palpitare regolare dei suoi milioni di componenti elettronici e il ticchettio cadenzato dell’orologio di bordo.

  Priva di una plancia di comando, l’astronave fantasma sfrecciava silenziosa, con la sua inesauribile riserva di energia, attraverso lo spazio e il tempo grazie ad una scheda inserita nel calcolatore di rotta: una scheda programmata da anni.

  Da quanto viaggiava? Da dove veniva? Quale era la sua meta? Tutte domande destinate a non avere risposta.

  Passò altro tempo. Quanto, non vi erano elementi per stabilirlo. Poi un improvviso, stridulo ronzio, diverso dagli altri ruppe la stasi. Una voce rauca dissipò il silenzio con note acute.

  - “Unità 7258! Dirigersi in sala comando.”
  Diversi meccanismi entrarono in funzione. Ronzii di diversa intensità, scatti metallici, un sibilo pneumatico, una porta scorrevole che scivolava silenziosamente sui binari e infine dei passi regolari, cadenzati risposero all’appello. Una figura alta, snella, in tuta bianca entrò poco dopo nella grande cabina di pilotaggio.

  - “Unità 7258. A rapporto.” – articolarono le sue labbra sottili, intagliate in un volto pallido, di una grande, delicata bellezza.
  - “Si segga, prego” – disse la voce, diffusa come la luce in tutta la stanza – “Si metta pure a suo agio.”

  La poltrona di cuoio sprofondò leggermente sotto la pressione del corpo. Unità 7258 si mise comodo, aspettando che tutto fosse pronto e che si potesse incominciare. I microfoni e le telecamere entrarono in funzione e si tararono automaticamente per la registrazione.

  - “Bene. Tutto è a posto. Possiamo finalmente dedicarci alla nostra attesa conversazione. E’ passato un bel po’ di tempo da che non ci parliamo.”
  Unità 7258 assentì reclinando leggermente il capo. I sensori ottici del computer registrarono il movimento e lo classificarono.
  - “Esattamente………….325 anni” – continuò la voce.
  L’uomo assentì ancora una volta. – “Un bel po’ di tempo” – disse senza alcuna inflessione nella voce.
  - “Già! Mi dica, qual’era la sua professione, prima del suo trasferimento a bordo di questa nave?”

  Una lunga pausa. Un assoluto silenzio. Solo il pulsare freddo, sinistro ipnotico, dell’orologio di bordo.
  - “Ero uno scienziato biogenetico” – disse alla fine. Gli occhi, fissi nel vuoto del nero oblò di cristallo di fronte a lui, erano immobili come se fossero scolpiti nel marmo.
  - “Quale era il suo nome?”
  - “Arwin Coolen.”
  - “Siete un invertito, a quanto mi risulta dallo schedario” – 7258 assentì ancora.   
  - “Operarono sull’embrione col sistema sperimentale di mutazione genetica per mezzo di radiazioni Steler; cambiarono il mio sesso insieme a quello di altre migliaia di bambine. Già a quel tempo i maschi omini stavano diventando meno numerosi rispetto alle femmine.”
  - “Sua madre fu dunque tra le donne incinte che si sottoposero a quell’esperimento?”
  - “Si, lo Stato pagava molto bene le cavie umane, garantendo anche una assicurazione sulla vita molto alta.”
  - “Successivamente, in età adulta, lei sposò una donna. Un luogotenente del genio militare.”
  - “Si, la sposai a vent’anni ma divorziai l’anno dopo.”
  Il ronzio emesso dall’altoparlante suono quasi come un mormorio di soddisfazione
  - “Se il documento non sbaglia, non fu lei a chiedere il divorzio.”
Arwin scosse il capo – “No. Lo richiese la mia ex moglie, asserendo che ero impotente.
  - “Ed era vero?” – ripeté il computer.
  - “Si. Mi sottoposi a delle analisi e risultò una disfunzione ormonale conseguente all’operazione di metamorfosi.”
  -  “Non è stato possibile rimediare in alcun modo?”
  - “Era troppo tardi. dovevo continuare a vivere con l’organismo alterato per sempre dalla disfunzione.” – Unità 7258 rimase in silenzio, come se stesse rivivendo il passato.   - “Il mio non fu l’unico caso. Questo suscitò molto scalpore tra l’opinione pubblica, e il sistema di mutazione genetica sull’embrione per mezzo del procedimento Steler fu considerato illecito dallo Stato e messo al bando perché non pratico, scarsamente efficace e dispendioso per l’amministrazione statale che aveva finanziato gli esperimenti.”
  
  La voce del computer era generata per mezzo di pseudo-corde vocali formate da una fittissima rete di microprocessori e di filtri capaci di modulare le frequenze in modo da simulare quasi alla perfezione la voce umana. Dopo aver ascoltato l’uomo, seduto al centro della stanza in cui venivano svolte elettronicamente tutte le mansioni necessarie al mantenimento della gigantesca astronave, la macchina pensante tacque per alcuni istanti, poi riprese a parlare, cambiando argomento.

  - “Perché fu allontanato dal laboratorio di scienze del dipartimento assegnatole, unità 7258?”
  - “Perché la civiltà ormai non aveva più bisogno di uomini come me. Essendo progredita tecnologicamente a tal punto da lasciare alle stesse macchine la responsabilità della sua organizzazione economica e politica, in quella fase di perfetta evoluzione sociale si decise, più o meno tacitamente, di abbandonare tutto ciò che avesse a che fare con le ricerche genetiche e chimiche, soprattutto dopo il tragico esperimento del quale io, e molti altri come me, fummo vittime. Si, era vero che gli uomini stavano diminuendo paurosamente, ma a questo si poteva rimediare con il sistema tradizionale: la scienza era arrivata a poter stabilire con un altissimo margine di precisione se l’embrione sarebbe stato di un maschio o di una femmina, e in questo ultimo caso la sua sorte sarebbe stata segnata entro il diciottesimo giorno dalla fecondazione grazie ad appositi, complessi macchinari altamente sofisticati messi a disposizione dallo stato, capaci di procurare l’aborto per mezzo di quelle stesse radiazioni Steler ma leggermente modificate.”

  Il ticchettio improvvisamente cessò. Le orecchie di Coolen, la mente dell’uomo furono immediatamente liberate da quell’insistente presenza. –“No, la civiltà non sapeva più che farsene degli scienziati biogenetici, né delle ricerche sulle origini della vita, ed io rappresentavo l’elemento perturbatore, interferendo con i miei studi nell’armonia cibernetica della società.” –Tacque per riprendere fiato. Poi continuò a parlare ma con uno strano, del tutto nuovo impeto – “Da un giorno all’altro tutte le porte mi si chiusero in faccia: i calcolatori avevano rifiutato la mia scheda, fui allontanato perché con le mie teorie rischiavo di mettere a repentaglio la loro esistenza.”

  Arwin Coolen rivisse nella sua mente quei terribili giorni – “Avevo sempre pensato di essere solo, ma niente, niente, poteva essere paragonato a ciò che provai in quei giorni, prima di essere trasferito qui; mi accorsi che senza scheda non esistevo nemmeno: non avevo nessun diritto. Tutto dipendeva da quelle macchine, tutto: quell’armonia era solo apparente, dietro la facciata dello splendore e del benessere c’ero io con quegli uomini senza coscienza che vivevano ormai solo grazie a quelle macchine, manipolati in tutto e per tutto da esse.”

  -  “Mi rendo conto con orrore che il nostro più grande sbaglio fu quello di aver dotato le macchine della facoltà di pensare per conto proprio, per porre nuovi quesiti e risolverli per noi. Un computer a capo dello Stato! Un errore, un tremendo errore. In questo modo l’uomo ha distrutto se stesso e quello che nell’universo rappresentava, diventando una macchina al servizio di un’altra macchina. Coloro che se ne resero conto tentarono di cambiare le cose, di ribellarsi ma vennero eliminati o deportati….”
  - “Era questo che l’uomo voleva, la fine delle guerre, una organizzazione statale perfetta, che permettesse di vivere tutti allo stesso modo….” – Commentò il Computer.
  - “Non era questo che volevamo! Non solo questo, almeno” – Nella mente di Coolen la rabbia e il furore di un tempo ritornarono a bruciare per la prima volta dopo tanti anni. Finalmente le sue emozioni trovarono sfogo in un corpo improvvisamente liberato da quella apatia innaturale – “Volevamo continuare ad autogestirci, ad essere noi stessi. Cosa credi che se ne faccia l’uomo, l’uomo vero dei numeri perforati su una scheda di calcolatore? Vi abbiamo creato per aiutarci delegandovi soltanto alcune mansioni e non per sostituirvi completamente, irreversibilmente ai nostri cervelli. Voi ci avete invece plagiato e dovevamo aspettarcelo, poiché creandovi a somiglianza delle nostre menti vi abbiamo trasmesso il nostro desiderio inconscio, istintivo di eccellere, di dominare".
  - “Lei si sta comportando irrazionalmente” – disse il Computer.
  - “Si, me ne rendo conto, e ne sono felice, perché questo vuol dire che sono ancora un essere umano” – Rise nervosamente – “Si! Sono di nuovo un essere umano, capisci? Tu non puoi uccidere l’istinto. Io sono un essere capace di ragionare da solo, non il robot che da millenni tieni prigioniero in quella maledetta cupola, in sospensione cardanica e che risvegli quando ti senti troppo solo e il tuo ciber-ego ha bisogno di esercitare la propria superiorità su qualcuno oppure quando ti viene voglia di giocare al gatto e al topo. Gli uomini non sono i tuoi schiavi! Ti abbiamo costruito noi. Siamo noi i tuoi creatori!”

  Con uno scatto improvviso si lanciò sul quadro comandi. Gli sarebbe bastato premere il pulsante dell’autodistruzione e lui e i suoi compagni sarebbero stati finalmente liberi, bruciando insieme a quella macchina infernale. Il suo dito però si fermò a pochi centimetri dal pulsante, mentre qualcosa scattava nella sua mente.

  L’orologio aveva ripreso a funzionare. Unità 7258 si ricompose e tornò a sedersi aspettando i comandi del computer.

  - “Grazie per essere venuto, unità 7258. Adesso puoi andare.”
  L’uomo si alzò, gli occhi di nuovo fissi nel vuoto. Salutò accennando un inchino e si allontanò a passi misurati, mentre l’orologio continuava a scandire le ore inesorabili dell’eternità.

  La porta si richiuse dietro di lui. Il silenzio ritornò di nuovo a invadere la sala mentre i ronzii elettronici rimbalzavano sulle pareti e sulla poltrona vuota.

  Trascorse del tempo. Forse secoli. Poi, un improvviso ronzio metallico: la voce dall’altoparlante collegato al computer scandì sillabe elettriche.

  - “Unità 7259 in sala comando.”

  Diversi meccanismi entrarono in funzione. Ma su tutti, dominava il pulsare metallico, immutabile, ipnotico dell’orologio di bordo.

 

 

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