Il pulsare metallico e regolare dell’orologio
di bordo aveva una cadenza ipnotica.
Luci al neon, diffuse uniformemente in tutta l’astronave
illuminavano a giorno i lunghi e tortuosi corridoi, le grandi sale e
le spaziose cabine lussuosamente arredate. Ma quel lusso, eccessivo e
sproporzionato, dal gusto lascivo, opulento, pieno di mollezze,
simbolo di una civiltà all’apice del suo splendore o forse nel
baratro della più profonda decadenza era assolutamente superfluo in
quanto inutilizzato. Tutto quel lusso era in netto contrasto con
l’austera, sobria, asettica atmosfera che si poteva respirare sulla
Nave. Pure, in quell’ambiente puro ed incontaminato non vi era la
benché minima traccia di polvere a testimoniarne il disuso e
l’abbandono. Tutto era perfettamente lucido, pulito e ordinato.
Lo scafo era completamente deserto. Gli unici suoni, che si ripetevano
fini solo a se stessi, erano il ronzio del computer, il palpitare
regolare dei suoi milioni di componenti elettronici e il ticchettio
cadenzato dell’orologio di bordo.
Priva di una plancia di comando, l’astronave fantasma sfrecciava
silenziosa, con la sua inesauribile riserva di energia, attraverso lo
spazio e il tempo grazie ad una scheda inserita nel calcolatore di
rotta: una scheda programmata da anni.
Da quanto viaggiava? Da dove veniva? Quale era la sua meta? Tutte
domande destinate a non avere risposta.
Passò altro tempo. Quanto, non vi erano elementi per stabilirlo. Poi
un improvviso, stridulo ronzio, diverso dagli altri ruppe la stasi.
Una voce rauca dissipò il silenzio con note acute.
- “Unità 7258! Dirigersi in sala comando.”
Diversi meccanismi entrarono in funzione. Ronzii di diversa
intensità, scatti metallici, un sibilo pneumatico, una porta
scorrevole che scivolava silenziosamente sui binari e infine dei passi
regolari, cadenzati risposero all’appello. Una figura alta, snella,
in tuta bianca entrò poco dopo nella grande cabina di pilotaggio.
- “Unità 7258. A rapporto.” – articolarono le sue labbra
sottili, intagliate in un volto pallido, di una grande, delicata
bellezza.
- “Si segga, prego” – disse la voce, diffusa come la luce
in tutta la stanza – “Si metta pure a suo agio.”
La poltrona di cuoio sprofondò leggermente sotto la pressione del
corpo. Unità 7258 si mise comodo, aspettando che tutto fosse pronto e
che si potesse incominciare. I microfoni e le telecamere entrarono in
funzione e si tararono automaticamente per la registrazione.
- “Bene. Tutto è a posto. Possiamo finalmente dedicarci alla nostra
attesa conversazione. E’ passato un bel po’ di tempo da che non ci
parliamo.”
Unità 7258 assentì reclinando
leggermente il capo. I sensori ottici del computer registrarono il
movimento e lo classificarono.
- “Esattamente………….325
anni” – continuò la voce.
L’uomo assentì ancora una
volta. – “Un bel po’ di tempo” – disse senza alcuna
inflessione nella voce.
- “Già! Mi dica, qual’era la
sua professione, prima del suo trasferimento a bordo di questa
nave?”
Una lunga pausa. Un assoluto silenzio. Solo il pulsare freddo,
sinistro ipnotico, dell’orologio di bordo.
- “Ero uno scienziato
biogenetico” – disse alla fine. Gli occhi, fissi nel vuoto del
nero oblò di cristallo di fronte a lui, erano immobili come se
fossero scolpiti nel marmo.
- “Quale era il suo nome?”
- “Arwin Coolen.”
- “Siete un invertito, a quanto
mi risulta dallo schedario” – 7258 assentì ancora.
- “Operarono sull’embrione col sistema sperimentale di
mutazione genetica per mezzo di radiazioni Steler; cambiarono il mio
sesso insieme a quello di altre migliaia di bambine. Già a quel tempo
i maschi omini stavano diventando meno numerosi rispetto alle
femmine.”
- “Sua
madre fu dunque tra le donne incinte che si sottoposero a
quell’esperimento?”
- “Si, lo Stato pagava molto
bene le cavie umane, garantendo anche una assicurazione sulla vita
molto alta.”
- “Successivamente, in età
adulta, lei sposò una donna. Un luogotenente del genio militare.”
- “Si, la sposai a vent’anni
ma divorziai l’anno dopo.”
Il ronzio emesso dall’altoparlante suono quasi come un
mormorio di soddisfazione
- “Se il documento non sbaglia,
non fu lei a chiedere il divorzio.”
Arwin scosse il capo – “No. Lo richiese la mia ex moglie,
asserendo che ero impotente.
- “Ed era vero?” – ripeté
il computer.
- “Si. Mi sottoposi a delle
analisi e risultò una disfunzione ormonale conseguente
all’operazione di metamorfosi.”
-
“Non è stato possibile rimediare in alcun modo?”
- “Era troppo tardi. dovevo
continuare a vivere con l’organismo alterato per sempre dalla
disfunzione.” – Unità 7258 rimase in silenzio, come se stesse
rivivendo il passato. - “Il mio non fu l’unico caso.
Questo suscitò molto scalpore tra l’opinione pubblica, e il sistema
di mutazione genetica sull’embrione per mezzo del procedimento
Steler fu considerato illecito dallo Stato e messo al bando perché
non pratico, scarsamente efficace e dispendioso per
l’amministrazione statale che aveva finanziato gli esperimenti.”
La voce del computer era generata per
mezzo di pseudo-corde vocali formate da una fittissima rete di
microprocessori e di filtri capaci di modulare le frequenze in modo da
simulare quasi alla perfezione la voce umana. Dopo aver ascoltato
l’uomo, seduto al centro della stanza in cui venivano svolte
elettronicamente tutte le mansioni necessarie al mantenimento della
gigantesca astronave, la macchina pensante tacque per alcuni istanti,
poi riprese a parlare, cambiando argomento.
- “Perché fu allontanato dal laboratorio di scienze del
dipartimento assegnatole, unità 7258?”
- “Perché la civiltà ormai non
aveva più bisogno di uomini come me. Essendo progredita
tecnologicamente a tal punto da lasciare alle stesse macchine la
responsabilità della sua organizzazione economica e politica, in
quella fase di perfetta evoluzione sociale si decise, più o meno
tacitamente, di abbandonare tutto ciò che avesse a che fare con le
ricerche genetiche e chimiche, soprattutto dopo il tragico esperimento
del quale io, e molti altri come me, fummo vittime. Si, era vero che
gli uomini stavano diminuendo paurosamente, ma a questo si poteva
rimediare con il sistema tradizionale: la scienza era arrivata a poter
stabilire con un altissimo margine di precisione se l’embrione
sarebbe stato di un maschio o di una femmina, e in questo ultimo caso
la sua sorte sarebbe stata segnata entro il diciottesimo giorno dalla
fecondazione grazie ad appositi, complessi macchinari altamente
sofisticati messi a disposizione dallo stato, capaci di procurare
l’aborto per mezzo di quelle stesse radiazioni Steler ma leggermente
modificate.”
Il ticchettio improvvisamente cessò. Le orecchie di Coolen, la mente
dell’uomo furono immediatamente liberate da quell’insistente
presenza. –“No, la civiltà non sapeva più che farsene degli
scienziati biogenetici, né delle ricerche sulle origini della vita,
ed io rappresentavo l’elemento perturbatore, interferendo con i miei
studi nell’armonia cibernetica della società.” –Tacque per
riprendere fiato. Poi continuò a parlare ma con uno strano, del tutto
nuovo impeto – “Da un giorno all’altro tutte le porte mi si
chiusero in faccia: i calcolatori avevano rifiutato la mia scheda, fui
allontanato perché con le mie teorie rischiavo di mettere a
repentaglio la loro esistenza.”
Arwin Coolen rivisse nella sua mente quei terribili giorni –
“Avevo sempre pensato di essere solo, ma niente, niente, poteva
essere paragonato a ciò che provai in quei giorni, prima di essere
trasferito qui; mi accorsi che senza scheda non esistevo nemmeno: non
avevo nessun diritto. Tutto dipendeva da quelle macchine, tutto:
quell’armonia era solo apparente, dietro la facciata dello splendore
e del benessere c’ero io con quegli uomini senza coscienza che
vivevano ormai solo grazie a quelle macchine, manipolati in tutto e
per tutto da esse.”
- “Mi rendo conto con
orrore che il nostro più grande sbaglio fu quello di aver dotato le
macchine della facoltà di pensare per conto proprio, per porre nuovi
quesiti e risolverli per noi. Un computer a capo dello Stato! Un
errore, un tremendo errore. In questo modo l’uomo ha distrutto se
stesso e quello che nell’universo rappresentava, diventando una
macchina al servizio di un’altra macchina. Coloro che se ne resero
conto tentarono di cambiare le cose, di ribellarsi ma vennero
eliminati o deportati….”
- “Era questo che l’uomo voleva, la fine delle guerre, una
organizzazione statale perfetta, che permettesse di vivere tutti allo
stesso modo….” – Commentò il Computer.
- “Non era questo che volevamo! Non solo questo, almeno” – Nella
mente di Coolen la rabbia e il furore di un tempo ritornarono a
bruciare per la prima volta dopo tanti anni. Finalmente le sue
emozioni trovarono sfogo in un corpo improvvisamente liberato da
quella apatia innaturale – “Volevamo continuare ad autogestirci,
ad essere noi stessi. Cosa credi che se ne faccia l’uomo, l’uomo
vero dei numeri perforati su una scheda di calcolatore? Vi abbiamo
creato per aiutarci delegandovi soltanto alcune mansioni e non per
sostituirvi completamente, irreversibilmente ai nostri cervelli. Voi
ci avete invece plagiato e dovevamo aspettarcelo, poiché creandovi a
somiglianza delle nostre menti vi abbiamo trasmesso il nostro
desiderio inconscio, istintivo di eccellere, di dominare".
- “Lei si sta comportando
irrazionalmente” – disse il Computer.
- “Si, me ne rendo conto, e ne
sono felice, perché questo vuol dire che sono ancora un essere
umano” – Rise nervosamente – “Si! Sono di nuovo un essere
umano, capisci? Tu non puoi uccidere l’istinto. Io sono un essere
capace di ragionare da solo, non il robot che da millenni tieni
prigioniero in quella maledetta cupola, in sospensione cardanica e che
risvegli quando ti senti troppo solo e il tuo ciber-ego ha bisogno di
esercitare la propria superiorità su qualcuno oppure quando ti viene
voglia di giocare al gatto e al topo. Gli uomini non sono i tuoi
schiavi! Ti abbiamo costruito noi. Siamo noi i tuoi creatori!”
Con uno scatto improvviso si lanciò sul quadro comandi. Gli sarebbe
bastato premere il pulsante dell’autodistruzione e lui e i suoi
compagni sarebbero stati finalmente liberi, bruciando insieme a quella
macchina infernale. Il suo dito però si fermò a pochi centimetri dal
pulsante, mentre qualcosa scattava nella sua mente.
L’orologio aveva ripreso a funzionare. Unità 7258 si ricompose e
tornò a sedersi aspettando i comandi del computer.
- “Grazie per essere venuto,
unità 7258. Adesso puoi andare.”
L’uomo si alzò, gli occhi di nuovo fissi nel vuoto. Salutò
accennando un inchino e si allontanò a passi misurati, mentre
l’orologio continuava a scandire le ore inesorabili dell’eternità.
La porta si richiuse dietro di lui. Il silenzio ritornò di nuovo a
invadere la sala mentre i ronzii elettronici rimbalzavano sulle pareti
e sulla poltrona vuota.
Trascorse del tempo. Forse secoli. Poi, un improvviso ronzio
metallico: la voce dall’altoparlante collegato al computer scandì
sillabe elettriche.
- “Unità 7259 in sala comando.”
Diversi meccanismi entrarono in funzione. Ma su tutti, dominava il
pulsare metallico, immutabile, ipnotico dell’orologio di bordo.
|