Istinto di sopravvivenza
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Si asciugò il sudore dalla fronte. Poi si ricordò che era estate. E quindi questo significava niente maniche lunghe. Quindi, si era asciugata il sudore con la pelle del polso destro. Incurante, guardò quella striscia lucida che si confondeva con il biancore della sua pelle. Pallida, come quella di un geco. Non aveva neanche la forza di schifarsi. E non perché il sudore fosse il suo. Davanti a lei si stagliava una distesa di cemento lunga e sconfinata. Sarebbe morta prima di riuscire a raggiungerne la fine. Sarebbe inciampata in quella spianata di cemento e mattoni e sarebbe caduta a terra. Troppo debole per lo sforzo, non sarebbe più riuscita ad alzarsi. Lo sapeva. L’avrebbero trovata lì, agonizzante, che cercava di strisciare in avanti, muovendosi come un bizzarro militare su quelle piastrelle scadenti. Avrebbe teso il braccio, stremata da quello sforzo titanico, cercando un appiglio, un altro braccio amico, qualunque cosa che l’avesse potuta aiutare a rialzarsi e a fuggire. A scappare da quel luogo che avrebbe potuto decretare la sua fine. Quel luogo dove non c’erano draghi, non c’erano bestie feroci né ninja armati fino ai denti; un luogo dove in quel momento regnava un silenzio tombale e tutto era fermo, come paralizzato all’improvviso da un incantesimo. Aveva la vista annebbiata. Cercava di rimanere con i piedi per terra, non poteva perdere il contatto con la realtà, altrimenti avrebbe perso conoscenza e sarebbe stata una preda facile. Sarebbe morta velocemente. Scosse la testa. No, non gliel’avrebbe data vinta così facilmente. Sarebbe stata un Kilimangiaro per loro. Se l’avessero voluta, se la sarebbero dovuta andare a prendere. Sentiva il caldo soffocarla. La sua meta si allontanava sempre di più. Aveva paura. Non sarebbe mai riuscita ad arrivare al fondo di quel luogo mefitico. Le palpebre stavano per crollarle. La debolezza, la consapevolezza della sconfitta pesavano come dei piombini appesi alle sue ciglia, facendo tremolare le sue palpebre. Tenerle aperte le costava un sforzo più grande di quello per muoversi. Quel movimento che le costava sempre più fatica. E cominciava a chiedersi il perché. Più aumentava la velocità della sua andatura, più rimaneva indietro. Era come se qualcuno la trascinasse verso il basso. La stavano tirando, ne era certa. Girò la testa e vide tre creature mostruose attaccate ai suoi vestiti già ridotti in brandelli. Ebbe un fremito. Era terrorizzata ma non voleva darglielo a vedere. Non gliel’avrebbe data vinta, no, neanche in quel momento. Doveva far funzionare il cervello, giocare d’astuzia. L’astuzia. Quella era l’arma che lei aveva in più rispetto a quelle creature che non avevano niente di umano. Mise la mano in tasca e ne estrasse un sacchetto. Il tessuto era marrone, di tela rozza, lacerato in più punti. Questo spiegò il perché fosse così vuoto. Ma forse qualcosa c’era ancora rimasta, per lo meno sul fondo. Sì, sicuramente qualche residuo c’era. Infilò l’indice e il pollice in quella minuscola bisaccia grezza ed estrasse l’ultimo esemplare di una categoria di esseri viventi che erano cibo per quei tre mostri artigliati alle sue vesti. Il loro cibo preferito. Estrasse uno di questi esserini, attenta a non farsi scorgere da quei tre, che intanto continuavano a tirare e masticare la stoffa di quella specie di saio sporco e lacero che la copriva alla bell’e meglio. Era quasi arrivata alla fine di quella galleria mortifera, c’era quasi. Cominciò mentalmente un conto alla rovescia e si preparò. Arrivata alla fine di quel tunnel spiccò un balzo in avanti e nello stesso tempo lanciò la creaturina in pasto a quei tre mostri, che mollarono immediatamente la presa e si fiondarono su quell’agnello sacrificale che lei gli aveva lanciato, lottando fra loro come le più basse e infime creature primitive. Un secondo dopo aprì la porta e la sbatté dietro di sé, lasciandosi dietro quelle fiere che spolpavano senza pietà quel povero essere. L’ennesimo studente fuori corso che finiva in pasto a loro. Sentendosi terribilmente in colpa per quel sacrificio con cui era riuscita ad uscire viva da quella tragedia, cadde in ginocchio, sfinita. E mentre si trascinava in ginocchio per uscire dall’Università, la porta dell’aula dove aveva appena finito l’esame si allontanavano sempre più e le parole di David Bowie le risuonavano in testa, facendola sentire finalmente in salvo. Un’eroina, “almeno per un giorno”. 12 Giugno 2010
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Ilaria
Lopez Studentessa universitaria, conduttrice di un programma radiofonico, scrive articoli per diverse riviste, Autrice di diversi racconti e poesie. www.ilawiththefreaks.wordpress.com/ jan_89@hotmail.it |