Sorride,
lei. Le labbra sottili chiuse morbidamente, adagiate l’una
sull’altra; un sopracciglio lievemente sollevato; un brillio
malizioso negli occhi, lo stesso che per un attimo fa tornare giovane
suo padre, perché gli sembra di trovarsi di fronte a uno specchio.
“Allora, cos’è?” incalza lui.
Tanto lo sa che non glielo dirà mai.
“Tanto lo sai già che non te lo dirò mai”, mantiene il suo
sorrisetto, lei, sorniona.
“Umpf”. Suo padre la guarda, dissimulando sotto la sua consueta
aria burbera una punta di orgoglio. L’indice e il pollice che
abbracciano delicatamente la sua arma bianca. Il sottile cucchiaino
d’argento dal manico sottile, che termina in una delicata e piccola
margherita. Ancora una volta, come un chirurgo alle prime armi con il
bisturi, affonda la punta della posata in quel…quel…? E se fosse
un “quella”? Cos’è? Si dannerebbe per saperlo.
“Allora?”. La voce di lei gli arriva lontana, sempre più lontana.
Il cucchiaino va giù asciutto e torna carico di meraviglie, come
appena uscito dal pozzo di San Patrizio. L’argento si immerge in
quel mare di dolcezza, in quella spuma di Venere; poi incontra il
sottile strato di biscotto al burro. Battibeccano un po’, c’è
anche da capirli, sono due mondi opposti. Ma poi capiscono di essere
anche complementari e allora il biscotto cede, permette alla testa del
cucchiaino di lambire le sue coste morbide e deliziosamente
resistenti.
Continuando a sorridere con una punta di alterigia e un pizzico di
vanità, il tutto spolverato da una generosa dose d’ansia q.b., lei
lo guarda. Guarda suo padre. Guarda quell’omone di mezza età, con i
baffi a manubrio – frutto del lavoro del suo fedele piegabaffi
notturno, motivo di eterni litigi con sua madre – e quei sottili
occhialetti a mezza luna; guarda quell’imponente pozzo di scienza,
che le conferisce sempre un certo timore reverenziale, trattenendo una
risata. Porta il labbro inferiore su quello superiore, conficcandoci i
denti convulsamente, nel tentativo di trattenere le risate che sono
sul punto di esplodere.
Non ha ancora finito di far sciogliere in bocca i due bocconi che gli
ha portato il cucchiaino poco prima, che lui già attacca nuovamente
quella delizia misteriosa e incomprensibile. Come con una donna
conosciuta da poco, ha cominciato con timidezza, delicatezza e pudore.
Poi, lui e la sua amante sono talmente entrati l’uno dentro
l’altra che, dimenticata tutta la consueta mansuetudine iniziale,
lui è diventato passionale, ingordo e sfacciato. La prende da tutte
le parti, quella delizia. Ogni tanto gli balugina nella mente un
tiepido raggio di idea che, forse, non è modo di comportarsi alla sua
età: le dita, fino ai palmi delle mani, sono impiastrate di quella
crema leggera come l’aria e, allo stesso tempo, corposa come il
miele, i baffi sono pieni di briciole di quel biscotto magico e i suoi
occhialini da decano impassibile sono schizzati di ogni minimo indizio
che lo riconduca a quel prodigio di pasticceria. Ma quel pallido
fantasma di biasimo non fa in tempo a palesarsi che già è svanito,
arso dalle fiamme che lo invadono ad ogni nuovo boccone. Nonostante
quella…cosa sia qualcosa di freddo, almeno questo l’ha capito.
Ha perso il senso del tempo. Ci prova a chiamarlo, suo padre, ma lui
fa finta di non sentire. Solo per farle un dispetto, sarebbe pronta a
scommetterci.
“Tanto lo so che non mi rispondi perché ti senti punto sul vivo. E
vuoi farmi un dispetto. È inutile che fai il ragazzino. Devi
arrenderti all’evidenza e dirmelo, devi dirmelo che sono brava! E
smettila di giocare alla scimmietta sorda!”. Al decimo tentativo
fallito di richiamare l’attenzione di lui su di sé, lei ci
rinuncia. E comincia a instillarsi nella sua mente il tarlo del dubbio
che forse, dopotutto, lui non stia facendo il finto sordo.
Anche lui ha perso il senso del tempo. Sua figlia si è
momentaneamente trasferita in un’altra galassia, parla un’altra
lingua e, anzi, non è più neanche sua figlia, non l’ha mai vista
prima. All’ennesimo carico di zuccheri sottratti a quella preziosa
Sfinge culinaria, tutte le sue ultime difese vengono meno. E a quella
parte selvaggia di se stesso, che credeva di non aver mai posseduto o
di aver perso dietro di sé nel corso degli anni, se ne sostituisce
un’altra, più mansueta, più innocente. Ma vera, spontanea e viva,
come mai egli stesso è stato nel corso della sua intera esistenza: il
cucchiaino, traboccante, gli arriva alle labbra e si ricorda di Dalida,
quando nel ’71 cantava all’Olympia e lui aveva vent’anni o poco
più e la seguiva dal televisore di casa sua e mangiava i quadrucci in
brodo che gli faceva sempre sua madre; in quel dolce mistero che sta
assaporando c’è del limone, una spruzzata, appena appena una
spruzzata, il sapore della sua giovinezza, di quei baci dati di
nascosto, al buio della notte, sotto le fronde degli alberi della sua
terra. Sbriciola il biscotto comprimendolo fra lingua e palato, il
tutto innaffiato da ondate di crema – di quella crema che gli fa
girare la testa in quel modo pazzo e scatenato – e ricorda l’odore
della sua compagna di banco del liceo, quella rossa, come si
chiamava?, non se lo ricorda come si chiamava, ma ricorda il suo
odore, qualcosa di forte ma buono, raro e ricercato, qualcosa
come…come lo zenzero, che, lo sente, c’è da qualche parte anche
là dentro.
“Va bene! Mi arrendo! Hai vinto tu! Sei brava, tremendamente brava.
Sei peggio di una dannata strega con il suo maledetto intruglio. Cosa
ci hai messo dentro, qualche stupida spezia orientale? Con tutti gli
aromi che abbiamo noi, qui, nel Mediterraneo…” borbotta lui,
slacciandosi la benda che gli ha coperto gli occhi per tutto il tempo.
É divorato dalla curiosità di vedere quella Cleopatra dei dolci. Ma
niente da fare, sua figlia ha portato via quel poco che è rimasto
della creazione pasticcera non appena suo padre ha accennato a
sciogliere il nodo della benda. Lei sorride, vincitrice e un po’
sprezzante. Mai ha sentito suo padre, uno dei più grandi chef
d’Italia degli ultimi vent’anni, fare una critica del genere. Lui
che si è sempre limitato a un distratto “sì, certo, certo…” o
a un insoddisfacente “si può fare di meglio”, con tutti i suoi
allievi e i piatti che gli vengono proposti per le varie guide
enogastronomiche. Tutti. Nessuno escluso. Nessuno l’ha mai
eguagliato, né tantomeno battuto. Sarebbe un sacrilegio, la fine di
un’era per l’arte culinaria del Bel Paese. E la fine dell'era
augustea di suo padre.
“D’accordo, sì, te la pubblicherò nel mio prossimo libro.
Contenta?” bofonchia lui, guardando la figlia imbronciato, come un
bambino che abbia appena perso tutte le sue biglie in una partita.
Ancora scossa da quell’adrenalina meravigliosa della recente
vittoria ma, in fondo, grata, bacia suo padre sulla guancia rubiconda.
“Si può sapere almeno che ci hai messo dentro? Adesso, subito! Non
posso aspettare! Com’era fatta questa accidenti di torta, di
crostata, di pasticcino, di-di-di…cosa diavolo era??”
Lei, ripreso il suo tono sornione, condito da quel sorriso da Sfinge,
risponde: “Qui sait?”, come ogni vero artista dei fornelli.
Leggermente raddolcito, orgoglioso, dopotutto, della sua creatura, lui
le sorride. Ed estrae dalla tasca dei pantaloni il cucchiaino d’oro,
primo premio vinto nella prima gara culinaria che ha decretato il suo
debutto in quella vasca di squali che era la critica gastronomica.
Preziosissimo cimelio, non è mai neanche stato lucidato dalla moglie,
ma soltanto rimirato dall’alto del suo scaffale, puntigliosamente
protetto dalla sua teca. Sotto lo sguardo attonito di sua figlia, lui
le porge quel magico scettro, testimone passato da un corridore
fuoriclasse ma stanco a delle gambe giovani ma capaci. Sorride. Per un
attimo i suoi baffi severi guizzano, prima di rivolgersi nuovamente a
lei:
“Che la forza sia con te”.
22 Maggio 2010
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