IL SETTIMO GIORNO DELLA CREAZIONE
di

Guglielmo Giusti

 

PARTE PRIMA:

Una convocazione della massima urgenza presso il centro di sperimentazione informatica dell'Università di Los Angeles... da qualche minuto stavo osservando la lettera appena arrivata cercando di capire cosa poteva aver attirato su di me l'attenzione dei capoccioni del più grande centro ricerche esistente in America. La mia laurea strappata con i denti, in ingegneria cibernetica, era ormai lontana una quindicina d'anni, e in seguito avevo cambiato completamente indirizzo alla mia vita seguendo un corso per psicoanalisti ed aprendo un piccolo studio dove per qualche dollaro ascoltavo pazientemente i capricci di donnette isteriche e uomini d'affari sotto stress. Tiravo avanti senza infamia e senza lode ormai da dodici anni, interrotti dal periodo del servizio militare nel glorioso corpo dei marines d'assalto dove mi ero occupato della gestione della sala computer, ma senza dubbio non è che avessi accumulato in quel tempo nozioni tali da essere considerato un esperto del ramo. Riguardai la busta con attenzione: quel "Dott. Arthur Zane - 25, Starfield Road - Coolfield" non lasciava spazio a dubbi. Volevano proprio me, e avevano pensato a tutto: data della partenza già fissata, biglietto aereo, auto in attesa al mio arrivo, carta di credito per un valore fino a 5000 dollari, garanzia per il rimborso di tutte le spese sostenute. Onestamente già i soldi che mi avevano mandato coprivano più di due mesi di lavoro, e poi avevo sempre desiderato passare qualche giorno in quella specie di parco zoologico umano che doveva essere Los Angeles. Magari sarei riuscito ad incontrare quel vecchio pazzo di Charles Bukowsky che leggevo quasi quotidianamente su "Art Magazine" e insieme a lui avrei passato una bella serata in qualche birreria... Di certo non era una consulenza quello che volevano da me i professoroni del centro, pertanto con ogni probabilità tutto si sarebbe risolto con un: "Ci dispiace averla fatta venire fin qui, non era lei il Dott. Zane che cercavamo. Si è trattato di un caso di omonimia che ha confuso i dati dell'elaboratore facendo pervenire a lei la convocazione. La preghiamo di scusarci..." e mi avrebbero messo elegantemente alla porta. In ogni caso non avrei certo restituito allo zio Sam i 5000 dollari, e un paio di settimane gratuite nella metropoli tentacolare non me le avrebbe tolte nessuno. La sola difficoltà era Linda: sparire per un po' di tempo subito dopo esserci rimessi insieme... non l'avrebbe presa troppo bene. Sarei stato costretto a telefonare al centro per avere spiegazioni, e se davvero come pensavo quella convocazione era un errore avrei perso l'opportunità di vedere Los Angeles. No, molto meglio avvertirla dopo che ero partito, inventando una chiamata dell'ultimo istante; non che mi piacesse ingannarla, Linda era importante per me, ma a 42 anni è difficile rinunciare all'occasione di allontanarsi dalle solite, quotidiane consuetudini. Ecco, potevo portarla questa sera fuori a cena, e per non sentirmi troppo in colpa approfittare della giornata festiva e andare con lei domani ai castelli di Vastown. Due giorni assieme avrebbero avuto l'effetto di lenire la sua reazione alla mia telefonata dall'aeroporto, lunedì mattina. Collerica ragazza...

"Forse si tratta di un errore come dici, ma in fondo tu sei sempre un laureato in ingegneria cibernetica. Potrebbe anche darsi che ti abbiano cercato per offrirti un lavoro, ed in quel caso saresti obbligato a sposarmi e a portarmi a Los Angeles per non farti uccidere. Sai, penso che un' architetto come me abbia buone possibilità di lavoro laggiù..."

"Non scherzare, Linda. Ho passato la quarantina e all' Università ero il peggiore del corso, ho finito due anni dopo gli altri. E pensa che alcuni miei compagni molto più preparati di me sono finiti a gestire un negozio di computer. Per quanto possa pensare di essere geniale, non credo che il centro di sperimentazione informatica abbia davvero bisogno di me".

"Ma tu non vuoi perdere l'occasione di passare qualche giorno a Los Angeles a spese del governo, vero? Così per evitare che ti consigliassi di chiedere conferma al centro hai pensato di invitarmi a cena e di partire senza dirmelo. Arthur, sono 15 anni che ti conosco..."

Diabolica ragazza, riusciva sempre a fregarmi! Non c'era volta che riuscissi a nasconderle qualcosa senza che arrivasse a farmi dire la verità.

"E' vero, Linda, hai ragione. Ma se tutto si risolve in breve tu potrai raggiungermi e restare con me qualche giorno. Non sarebbe male passeggiare con te, mano nella mano, davanti all'oceano. Non ti pare?"

"Sei proprio un figlio di puttana! Hai sempre fatto sempre e comunque di testa di tua, aggiustando tutto con qualche frase da libro rosa. Ci siamo piantati non so quante volte eppure sono sempre qui a farmi prendere in giro da te, chissà per quale motivo. Lo sai che ho già 34 anni? Tra poco sarò così vecchia da non poter neppure fare un figlio, e continuo a perdere tempo con uno che non aspetta altro che scappare da qualche parte."

"Non preoccuparti, con l'ingegneria genetica potrai diventare madre anche a 70 anni. Ho letto un articolo che..."

Il bicchiere passò a mezzo centimetro dalla mia testa infrangendosi sul muro del ristorante. Tutta la sala si voltò ad osservarci. Linda era diventata pallida e digrignava i denti, stava per esplodere. Avevo davvero esagerato.

"Scusami, stavo scherzando su un argomento che per te è tremendamente serio. Ma sai che non mi sono mai posto il problema di diventare padre o meno, e a volte dico sciocchezze senza accorgermi di ferirti. Senti, quando tornerò fisseremo la data del matrimonio, te lo prometto, e sai che mantengo sempre la mia parola. In fondo sono sempre stato convinto che sarebbe finita così, dal primo giorno che ti ho conosciuta. E poi magari un marmocchio con i tuoi occhi non sarebbe davvero male, basta che non prenda il tuo carattere!"

Linda stava ancora tremando, ma il suo sguardo era diventato dolcissimo. Poi iniziarono a brillare le lacrime e mi resi conto di quanto davvero mi volesse bene, di quanto mi avesse sempre regalato. Le mie mattane, per lei così razionale, non dovevano averle dato molta serenità, eppure mi era sempre stata vicina, accettandomi per quello che ero: un irrequieto schiavo della sua libertà. Avrebbe potuto andare via da Coolfield per cercare un lavoro migliore, non le sarebbe stato difficile con le sue qualità; ma era rimasta lì, con me che scappavo da tutte le parti senza sapere cosa fare della mia vita. Le passai il fazzoletto: "Non piangere, non è poi così terribile. Se non vuoi diventare mia moglie devi solo dirlo. Io capirò."

Il cameriere stava raccogliendo i cocci del bicchiere, nel frattempo Linda incollava la sua bocca alla mia.

 

Mentre l'aereo decollava non potevo fare a meno di pensare ai due giorni passati con Linda e a tutto quello che mi aspettava al ritorno. Il matrimonio era sempre stato lontano dalla mia logica, eppure mi sentivo come sollevato quando immaginavo di tornare a casa alla sera e trovare lei magari tutta intenta davanti ai fornelli. Vedevo la nostra vita futura insieme come il giusto punto di equilibrio del mio essere, un meritato riposo dopo gli anni non certo facili che avevo alle spalle. Già, il passato... certe volte mi stupivo di tutta la forza che avevo dimostrato di possedere, della mia energia, della mia testardaggine. I miei erano stati errori tali da schiantare qualunque essere , invece avevo proseguito pagando e imparando tutto, sempre sulla mia pelle. Non avevo una gran stima del genere umano, e non erano state molte le persone che avevo rispettato. Forse veramente soffrivo di una specie di complesso di superiorità come diceva Linda, e magari proprio per dimenticare di essere malato avevo cominciato a curare gli altri. Ma da un po' di tempo avevo rallentato la corsa, ed era anche merito della mia quasi prossima moglie e delle sue collere se ero riuscito ad imparare che anche negli altri esistevano un'anima e dei sentimenti; quindici anni con lei... ero troppo egoista per poter amare davvero una donna, ma certamente Linda era la sola che avessi conosciuto in grado di farmi desiderare di concludere con lei questa avventura. Sostanzialmente ero un fallito, anche se quello che facevo non mi dispiaceva; ma c'era sempre qualcosa in più, qualcosa da raggiungere in lontananza, ed allora ricominciava l'ansia, ricominciavano le corse, ricominciavano i cambiamenti. A 28 anni mi ero laureato, e subito mi ero accorto che non m'interessava lavorare aggrappato ad un computer a progettare nuovi robot, così avevo completamente cambiato strada cominciando a studiare la psiche umana. Altri tre anni di lotta divisi fra le cassette da scaricare ai mercati generali e i libri, storie interrotte con donne quasi sempre pazze e a volta qualche birra di troppo per dimenticare la solitudine. Non avevo mai avuto la sola cosa che davvero mi importasse: un maestro, qualcuno in grado di insegnarmi cos'era l'esistenza e mi prendesse per mano quando sbagliavo. O forse avvertivo solamente la mancanza di un padre; quello che la genetica mi aveva assegnato era solo un fragile essere indifeso che lasciava trascorrere i giorni illudendosi di essere vivo. Un uomo buono ma inutile, che non mi aveva mai perdonato di essere sopravvissuto a sua moglie e aveva cercato di distruggermi solo perché non ero debole come lui. Un uomo che non poteva capire quanto dolore avevo provato abbandonando la mia casa subito dopo la scomparsa di mia madre, e che sarebbe morto senza chiedersi neppure una volta il prezzo che avevo pagato. A volte lo incontravo; ormai vecchio e stanco mi veniva vicino cercando qualcosa che aveva ucciso per sempre, mi faceva dei piccoli regali e se ne andava ancora più solo, ancora più disperato. Cristo, avrei voluto abbracciarlo, portarlo in qualche bar e giocare a carte con lui davanti a una bottiglia di vino bianco, raccontargli i miei sogni, i miei progetti. Ma non ci riuscivo; per me quell'uomo era solo una delle tante persone prive di volto che mi passavano vicino e si allontanavano senza lasciar traccia. E anche le sue colpe si dissolvevano e diventavano niente, davanti al fatto compiuto di un figlio che era stato costretto ad uccidere il pensiero stesso di suo padre.

Autoanalisi ad alta quota... Stavamo volando a 3500 metri sopra l'oceano, con un' hostess estratta dalle pagine di "Playboy" tutta intenta a consolare una passeggera terrorizzata da un vuoto d'aria ed io, invece di guardarle le gambe, mi perdevo nei meandri della mia psiche... Forse erano i primi albori della vecchiaia, preludio alla morte che mi chiedevo sempre in che maniera si sarebbe accorta di me. Non ne avevo nessuna paura; il solo grande dolore che mi portava pensarci era che qualcuno avrebbe sofferto per me, e per questo probabilmente non ero stato capace di un vero rapporto affettivo fino al momento delle lacrime di Linda. Il mio vero sogno restava ancora quello di potermi dissolvere nel nulla, senza nessuno ad accorgersi della mia scomparsa e a rimpiangermi. Avevo conosciuto qualche anno prima Alex Gooswell, un uomo circondato dal mistero per quanto riguardava il suo passato e attualmente forse il maggior studioso di tanatologia dell'intero continente e del mondo intero; per ore ero rimasto ad ascoltare tutte le teorie da lui formulate sui problemi collegati alla morte seguendo molte delle sue conferenze, e avevo letto tutti i suoi libri. Poi, per una strana coincidenza che avevo afferrato al volo, ero riuscito a trascorrere un'intera serata con lui. Ricordavo ancora com'era affascinante quel rispetto verso la fine dell' esistenza che tracimava dalle sue parole, e la naturalezza con la quale sapeva rivestire un problema che al termine assumeva i contorni di una vera e propria ideologia. Era incredibile vedere quell'uomo con più di 80 anni addosso essere padrone di tanta lucidità; probabilmente la morte stessa era stata conquistata dall'amore che Alex dimostrava verso di lei, e ricambiava lo stesso rispetto impedendo al tempo, suo fratello, di fargli del male.

"Vi preghiamo di allacciare le cinture, stiamo iniziando la discesa verso Los Angeles". La voce del comandante mi riportò sulla terra, anzi in procinto di arrivarci; non mi ero neppure accorto del viaggio, sommerso com'ero dai miei pensieri, e le 6 ore erano passate in un breve istante. Toccammo terra dolcemente, non prima che mi accorgessi dello sterminato spazio che occupava la città.

 


La prima cosa che vidi nel grande salone dell'aeroporto fu un cartello luminoso dove compariva il mio nome: "Il Dott. Arthur Zane è pregato di recarsi all'uscita numero 7 a lui riservata dove troverà un nostro incaricato ad attenderlo". Immediatamente dopo, anche l'altoparlante cominciò a diffondere lo stesso messaggio, portando il mio narcisismo a livelli impensabili e insopportabili. Arrivai addirittura ad interpellare un'impiegata bionda e bellissima, benchè avessi visto benissimo i cartelli indicatori delle uscite: " Mi scusi signorina, sono il Dottor Zane. Mi può indicare la porta 7 per cortesia?". La star travestita lasciò immediatamente il suo bancone, cinguettando: "Non si preoccupi dottore, l'accompagno io stessa. Lei dev'essere davvero una grossa personalità se hanno attivato gli schermi speciali per richiamare la sua attenzione, non succede quasi mai. Sono curiosa se le chiedo di cosa si occupa?"

Sparai la più grande serie di balle della mia vita, giungendo alla perfidia di raccontare una cena alla Casa Bianca in onore del più grande esperto di analisi contemporaneo. Che chiaramente ero io. La ragazza mi guardava incantata, e prima di lasciarmi davanti all'uscita mi porse un bigliettino scritto in fretta.

"Mi chiamo Jolanda, questo è il mio numero di telefono. Se le serve una guida in città mi chiami e sarò felicissima di accompagnarla. Arrivederci." La bionda già pregustava di poter dichiarare alle amiche che presto avrebbe diviso il letto con un prossimo premio Nobel. Mentre salivo sul tapis-roulant la mia mente disegnò Linda nell'atto di strapparmi gli occhi. Gettai il biglietto. Ora Linda sorrideva.

Non riuscivo però a capacitarmi di una tale accoglienza, anche perchè una simile organizzazione mi rendevo conto che difficilmente avrebbe potuto sbagliare persona. Forse ero proprio io l'invitato, ma tolte le balle che avevo raccontato alla bionda non c'era nient'altro che potesse giustificare tanta attenzione.

"Dottor Zane, ben arrivato. Spero abbia fatto un buon viaggio. Il centro la ringrazia per essere partito senza troppo preavviso da parte nostra."

Chi mi aveva parlato era una specie di armadio che mi superava in altezza di una buona spanna. Ed io ero già abbastanza alto.

"La ringrazio, il viaggio è stato ottimo. Ma mi può spiegare..."

"Dottore, io devo solo accompagnarla al centro dal professor Ulthmer, ma non ho informazioni da darle. La prego di pazientare una decina di minuti, presto sarà a conoscenza del motivo della sua chiamata".

Il professor Ulthmer... avevo letto molto su di lui. Era praticamente il teorizzatore della realtà virtuale e di tutte le applicazioni conseguenti. Un davvero prossimo premio Nobel, del quale ricordavo anche una vecchia teoria sulla compenetrazione di vari piani esistenziali, che considerava potenzialmente comunicanti attraverso la canalizzazione elettronica delle rispettive energie. Non che avessi capito un granchè riguardo all'applicazione pratica della teoria, a riprova delle mie ormai perdute nozioni, ma quel che avevo recepito sul piano puramente ideologico era incredibilmente affascinante. Intanto un'autista in perfetta tenuta mi aveva spalancato la portiera di una limousine enorme dai vetri scuri, una specie di salotto viaggiante dove si sarebbe potuto quasi organizzare una serata danzante. Aprii il frigo bar e tirai una lunga sorsata da una bottiglia di birra canadese. Non ero una persona particolarmente impressionabile, ma tutto quello che avevo attorno cominciava a portarmi una leggera apprensione.

 


Stavo fingendo di leggere un articolo di una rivista scientifica sprofondato in una poltrona, chiedendomi in realtà quanti milioni di dollari poteva essere costato quel centro. Era tutto talmente perfetto da sembrare irreale; non una cosa fuori posto, tutto asettico e luccicante. Porte elettroniche e segretarie bellissime ed uguali, al punto che già stavo fantasticando sui probabili risultati di una clonazione applicata al personale. Non un rumore, non una parola si sentiva provenire dal lungo tavolo dove lavoravano una quarantina ragazze, escludendo il tic-tic quasi impercettibile delle tastiere dei computers. Poi uno dei cloni si avvicinò, subito dopo aver sollevato per un istante la cornetta del telefono.

"Dottor Zane, la prego di seguirmi. Il professore l'attende nel suo studio". Mi guidò attraverso un corridoio lunghissimo privo di uscite, fino ad una porta che aprì inserendo in una fenditura una tessera magnetica.

"Prego, dottore, entri pure e si accomodi. Il professor Ulthmer sarà immediatamente da lei."

La porta si richiuse lentamente alle mie spalle. L'ufficio che avevo di fronte era un'altra sorpresa, niente di fantascientifico come invece mi aspettavo: la solita scrivania con poltroncine e libreria, computer e divano. Mi ero appena seduto, quando da un'altra porta entrò un uomo alto e magro che riconobbi immediatamente come Ulthmer.

"Buongiorno, Dottor Zane, sono lieto di conoscerla" - disse stringendomi la mano con forza - "sono lieto che non abbia avuto problemi a rispondere alla nostra convocazione."

"Il piacere è mio, professore. Non immaginavo di trovarla qui, le ultime informazione che avevo sulla sua attività provenivano da New York".

"Infatti non da molto tempo dirigo il reparto speciale che il governo ha realizzato presso questo centro, in precedenza mi occupavo di altre cose. Ma la prego, mi dica se desidera qualcosa mentre aspettiamo i miei colleghi."

"No, la ringrazio. La sola cosa che vorrei è capire perchè sono qui. Non penso di avere requisiti tali da meritare una vostra attenzione; addirittura ho pensato ad un errore di persona.

Ulthmer sorrise. "Le garantisco che il personale di questo complesso non commette mai errori. E le assicuro che la scelta è caduta su di lei a seguito di un' attenta valutazione durata molti mesi dopo che una persona, che lei ben conosce e che tra poco sarà qui con noi, l'aveva indicata come soggetto ideale per il nostro progetto. Lei è risultato il "vincitore" in una rosa potenziale di più di cinquemila individui esaminati dal computer centrale, tutti con caratteristiche ben precise. Ora mi scusi per un istante, devo riordinare alcuni appunti prima di cominciare la riunione. Tra poco avrà tutte le risposte che desidera, e sono certo che troverà la proposta che stiamo per farle interessantissima."

Il professore uscì dalla stanza, portando con sè un voluminoso fascicolo. Io mi sentivo sospeso fra sogno e realtà, incapace della pur piccola congettura. Cosa ci poteva essere di così particolare che solo il dottor Arthur Zane, psicoterapeuta di non eccelso valore poteva fare? E chi poteva essere il personaggio che mi conosceva così bene da propormi a Ulthmer? Sicuramente, però, non si trattava di uno scherzo o di un errore. E il famoso progetto doveva essere davvero qualcosa di grosso, se il governo aveva investito in esso mesi di lavoro, capitali e cervelli. Per assurdo c'ero finito dentro; anzi, a quanto pare proprio io ero il protagonista principale.

 


"Ciao, Arthur, come stai? Mi fa piacere rivedere una delle poche persone al mondo che mi abbia ascoltato per due ore consecutive senza uscire dalla sala, e che addirittura si sia premurato di invitarmi a cena."

"Gooswell... Alex Gooswell... cosa fa lei nel tempio dell'informatica? Non mi dirà che è stato lei a propormi per non so ancora quale incarico... Mi scusi, anch'io sono lieto di rincontrarla, ma proprio qui non pensavo proprio..."

Caro amico, se ben ricordo non ci davamo del lei. Non sono poi così invecchiato da suscitare simile rispetto. Ho solo 92 anni! Ma hai indovinato, proprio io ho inserito il tuo nome nel cervellone con gli altri esaminandi, e a quanto pare non mi ero sbagliato."

Fu Ulthmer a scuotermi dalla sorpresa. "Dottor Zane, voglio presentarle i miei colleghi Parkins e Deckett, responsabili quanto me del progetto. E se non ha niente in contrario vorrei passare ad illustrarle tutte le fasi di quella che in codice è stata chiamata "Operazione Hela". Lei è d'accordo?"

"Certamente, professore. Ma se non sbaglio nella mitologia nordica Hela è il nome della dea della terra dei morti, e forse questo spiega la presenza di Alex."

"Esatto" - rispose il professore - " questa sua capacità di analizzare e collegare immediatamente cose diverse è stata una delle cose che l'hanno portata qui. Ed ora ascolti attentamente senza interrompere anche se tutto le sembrerà quasi pazzesco; ci sarà spazio per qualsiasi chiarimento dopo che le avrò presentato l'esperimento nella sua totalità. Dunque, la teorizzazione dell'operazione Hela è nata da un connubio di teorie quasi trascendentali mie e del dottor Gooswell, che come lei ben sa è il massimo tanatologo oggi esistente. Lui ha ipotizzato la morte come un'entità energetica dimorante in un'universo da lei creato, in costante contatto con altri substrati tra cui il nostro mondo. E da una delle porte di collegamento noi passiamo al termine della nostra esistenza, inviando la nostra energia nel punto di non ritorno dove viene raccolta e riutilizzata. Questo implica tutta una serie di costanti temporali che non mi dilungo a spiegare, ma che sono ipotizzabili attraverso misurazione energometriche. In breve, è in teoria possibile per un essere vivente passare una di queste porte e ritornare indietro, dopo aver visitato l'universo confinante con il nostro dove risiede la morte. La mia teoria consistente nella possibilità di attraversare i vari universi paralleli che ci circondano canalizzando le varie energie in essi presenti, può oggi essere applicata anche alla mente di un individuo particolarmente dotato attraverso una adeguata stimolazione dei suoi organi sensoriali. E questa stimolazione si chiama "Realtà virtuale", cioè tutta quella serie di sensazioni artificiali che vengono imposte tramite sofisticate apparecchiature. Se noi proponiamo ad un essere vivente tutte le sensazioni raccolte dal computer relativamente al momento della morte, obbligheremo la sua mente a trasferirsi come pura energia oltre la porta del nostro piano esistenziale. In pratica, lei viaggerà fino a raggiungere "l'altro mondo", che potrà visitare senza pericoli fino a quando gli stimoli inviati al suo corpo non verranno a cessare. Noi terremo costantemente sotto controllo ogni centimetro cubo della sua parte materiale, ed ogni infinitesimale anomalia interromperà immediatamente l'esperimento. Questo viaggio interuniversale può essere affrontato da un uomo con particolari caratteristiche, ma la principale è la totale assenza della paura della morte. Ed in questo lei è risultato il più dotato sia attraverso i test ai quali era stato sottoposto durante il servizio nei marines, sia durante il colloquio da lei avuto con il dottor Gooswell, sia attraverso tutta una serie di valutazioni sui dati della sua vita inseriti nel computer. Inoltre lei possiede un totale controllo delle sue emozioni, una capacità di razionalizzazione non comune, conoscenza della psiche umana ed una curva di accelerazione delle capacità deduttive e di adattamento impressionante. Inoltre le è stata scattata una serie di foto con la camera Kirlian, che se lei ricorda è quel particolare apparecchio fotografico in grado di impressionare la pellicola con il livello di energia presente in un essere umano. Bene, devo dirle che lei possiede un potenziale vitale enorme. Solo il dottor Gooswell può vantarne uno simile fra le centinaia di migliaia che sono stati esaminati. Mi dispiace invece confessarle che la sua laurea in ingegneria cibernetica è ben accetta, ma la sua incidenza nella nostra scelta è stata infinitesimale. Ora siamo a sua disposizione per qualsiasi chiarimento lei possa desiderare."

Probabilmente erano tutti pazzi. Secondo loro era possibile che io mi tramutassi in energia, che viaggiassi fino all'altro mondo e tornassi indietro, magari con un autografo di sorella morte. Il tutto facendomi convincere da una maledetta macchina che ero passato a miglior vita. Dopo qualche istante di silenzio, mi rivolsi a quello che ora mi appariva come un quartetto di veri e propri Frankenstein: "Scusatemi, ma una cosa che non capisco è come sia possibile far credere alla mia mente che il mio corpo stia morendo. La mie capacità cognitive, qualunque stimolo arrivi, troverebbero sempre un'autodifesa per non rischiare di farmi impazzire. A meno che..."

"A meno che la morte illusoria non arrivi nel momento del sonno profondo. In quel breve attimo sospeso fra REM e stato di veglia, la sua mente non sarà in grado di valutare la differenza fra stimoli indotti e realtà e non potrà realizzare concrete difese, accettando di fatto il concetto della morte e comportandosi come siano certi farà, cioè proiettando sè stessa oltre il confine.. - rispose Perkins - Inoltre non dimentichi che nel nostro io profondo la morte non ha alcunchè di spaventoso, ma è registrata come naturale conseguenza alla vita. Quindi viene affrontata e presentata alla mente senza il blocco della razionalità."

"Cioè sarei colto nel sonno da un malore improvviso, senza possibilità di reazione. Ma quali sarebbero le sensazioni che riceverei dalle apparecchiature?"

"Inizialmente quelle di un virtuale blocco cardiaco, con mancato afflusso di sangue al cervello immediatamente seguente. Seguirà un rapido abbassamento della pressione e della temperatura corporea, fino alla cessazione di tutte le funzioni vitali. A questo punto la sua mente deciderà che la sua esistenza terrena è finita; tutto questo accadra nello spazio di 11 secondi e qualche decimo, senza nessuna reale conseguenza per lei sul piano fisico."

Poi intervenne Gooswell: " Vedi Alex, la morte intesa come entità non può accorgersi di te, in quanto la tua energia non verrà staccata dal corpo conservando una struttura non riutilizzabile in quanto incompatibile con l'universo parallelo dove entrerai. Tu potrai osservare, senza che la tua presenza venga percepita in un mondo dove effettivamente non esisti."

"In sostanza, state dicendo che la realtà virtuale può ingannare il mio corpo, la mia mente ed anche un'ipotetica entità padrona di un diverso piano esistenziale. - dissi rivolto ai quattro - Signori, non vi nascondo che ho forti dubbi sulla possibilità di riuscita dell'esperimento, ma sono comunque a vostra disposizione. Anche se esistesse una possibilità su un milione di miliardi di arrivare davvero in un altro universo e tornare, varrebbe la pena tentare. Piuttosto, fra quanto tempo partirà il progetto?"

Ulthmer mi guardò fisso negli occhi. "Domattina alle 5.37 in punto le apparecchiature inizieranno il loro lavoro, ma lei dormirà profondamente già da due ore; alle 8.22 tutto sarà finito e si risveglierà per raccontarci la sua esperienza. Dottor Zane, lei sta per affrontare un'impresa che potrebbe cambiare radicalmente il corso dell'esistenza degli esseri umani. Ha fra le mani, anzi nella sua mente, la possibilità di viaggiare in un diverso universo. Non le nascondo che vorrei essere al suo posto, mi creda."

"Ne sono convinto, - risposi - come sono convinto che, se riuscisse, quella che chiamate "operazione Hela" sarebbe il punto di partenza per una totale rivoluzione di tutte le teorie mediche e filosofiche sulla morte. Meno le vostre, ovviamente..."

Risata generale. Poi Ulthmer mi strinse la mano. "Dottor Zane, una delle nostre ragazze si prenderà cura di lei e le mostrerà la camera che le abbiamo preparato. Se dopo il pranzo desidera visitare Los Angeles un'auto è sua disposizione, così come tutte le attività ricreative del centro. Noi siamo abituati a passare anche settimane senza uscire da qui, di conseguenza abbiamo cercato di attrezzarci con ogni comodità. Ma non cerchi di sedurre qualche ragazza, sono inavvicinabili..."

"Non si preoccupi, professore. - ribattei - Ne avevo già avuto la certezza non appena sono entrato al centro. Probabilmente troverò più calore dall'altra parte che non nelle vostre segreterie..."

"Il loro calore è tutto nel cervello. - rispose un po' seccato Deckett - Quelle che lei chiama segretarie sono tutte plurilaureate con un quoziente intellettivo di qualche decina di punti superiore alla media, ed hanno superato selezioni severissime prima di essere assunte presso il centro"

"Non lo metto in dubbio - ridacchiai - ma nel mio gretto maschilismo continuo a preferire la vecchie e care donne americane, un po' meno evolute ma leggermente più umane. Questo con tutto il rispetto per il futuro..."

 


La sola cosa che mancava nella stanza che mi era stata assegnata era il telefono. Avrei voluto parlare con Linda, ma anche se avessi approfittato della vettura per andare in città sicuramente qualche gorilla mi avrebbe impedito di comunicare con l'esterno. E poi lei era abituata alle mie sparizioni... Afferrai un libro dallo scaffale colmo di testi scientifici, lo sfogliai distrattamente e accesi una sigaretta. Non riuscivo ancora a realizzare pienamente tutto quello che era successo; soprattutto la mia ragione non concepiva la possibilità che un uomo potesse essere proiettato in un piano esistenziale diverso a spiare cosa stava facendo la morte. E non riuscivo a concepire quale sarebbe stato il mio comportamento nell'ipotesi che tutto avesse funzionato davvero, come la mia mente stuprata avrebbe reagito nel ritornare da una simile esperienza. Il rischio d'impazzire era reale, in quanto la possibilità di catalogare come "evento eccezionale" un viaggio nell'altro mondo non credo fosse presente nelle difese dell'Io. Eppure, nonostante questa certezza, mi affascinava l'ipotesi che il dottor Arthur Zane venisse considerata una delle poche persone al mondo in grado di affrontare l'impresa. Un'altro importante tassello per il mosaico della mia vantata perfezione... probabilmente l'origine di tutti i miei guai era proprio nella certezza che avevo sempre avuto di osservare il mondo dall'alto, ed oggi grazie ad Ulthmer e soci avevo finalmente raggiunto la vetta della mia presunzione. Quella presunzione che mi aveva costretto a passare anni difficili, ma alla quale non avevo mai rinunciato. Era parte di me, era la mia forza, la mia capacità di affrontare qualunque problema ed uscire da qualsiasi situazione senza soverchie difficoltà, la mia voglia di continuare a cercare. Linda la chiamava egoismo, e nei momenti di maggior tensione fra di noi mi accusava di essere un uomo solo e ostinato nel suo rifiuto all'umanità. Forse in parte aveva ragione; davvero consideravo il resto del mondo come un'accessorio della mia esistenza, e contavo esclusivamente su me stesso nell'ormai radicata, assoluta incapacità di chiedere ad altri aiuto. Preferivo scalare una parete di roccia con le mani sanguinanti rischiando di cadere ad ogni attimo, piuttosto che farmi lanciare una corda da chiunque. Non potevo impedirmelo, la sindrome dell'abbandonato che deve cavarsela sempre da solo è troppo grande per essere vinta da un uomo. Ma se è vero che ti rende forte e quasi industruttibile, non per questo ti impedisce di guardare dentro di te e non ti fa percepire quel silenzio che fa male.

Pensandoci bene, forse ero davvero perfetto per visitare il mondo della morte: non doveva poi esserci troppo differenza fra la mia solitudine e le strade vuote che immaginavo dall'altra parte.

 


La solita "plurilaureata" era appena entrata a chiedermi se avevo preferenze riguardo al pranzo, avevo risposto che qualsiasi cosa andava bene ma che desideravo consumarlo in camera, se era possibile. Mi disse che non c'erano problemi e dopo qualche minuto arrivò un vassoio. Assaggiai del pesce e un piccolo pezzo di torta di mele, tralasciando il resto. Avevo voglia di stare da solo, di rilassarmi nell'attesa del colloquio che Gooswell mi aveva promesso quando ci eravamo lasciati. Come sempre non mi andava di vedere gente, né di farmi vedere da qualcuno... Tutte le emozioni che provavo dovevano essere esclusivamente mie, al riparo da occhi indiscreti, e questo era un modo di essere che mi accompagnava da sempre. Solo così riuscivo ad entrare dentro me stesso, la presenza di chiunque altro diventava un freno del quale facevo di tutto per liberarmi isolandomi. Non avevo paura degli estranei, semplicemente non li sopportavo. Se fossi stato un mio paziente avrei riscontrato una sindrome da asocialità, e probabilmente avrei cercato di curarla. Arthur Zane, il misantropo... Negli anni dell'adolescenza ero innamorato di quel concetto di società ideale pensata da Charles Fourier, il falansterio, dove si realizzavano tutti i concetti di libertà vicini al mio pensiero: dalla totale liberazione del lavoro inteso come schiavitù all'espressione sessuale senza pregiudizi, fino alla concretizzazione di tutto quello che era il vero rapporto umano libero dalla competitività. A 19 anni, dopo la scomparsa di mia madre, avevo abbandonato tutto ed ero praticamente fuggito in Francia, imbarcandomi come mozzo su una petroliera, per andare a vivere a Condè sur Vesge dove avevo notizia che era stata realizzata la prima comune fondata sulle teorie di Fourier. Ventotto giorni di pentole e ponti da lustrare convinto di essere vicino alla mia realizzazione, alla felicità. Poi l'arrivo a Marsiglia, lo sbarco, il viaggio con pochi soldi e nessuna conoscenza della lingua, e finalmente l'arrivo e l'accoglimento nella comune senza problemi, dove vivevano già quasi 400 persone. Tutto era disposto in un vecchio fortino abbandonato, una superficie vastissima e inutilizzata fino all'insediamento degli attuali abitanti. Si chiamavano Charles ed Erika, gli incaricati a ricevere e smistare i nuovi arrivi. Mi assegnarono una stanza che riadattai in breve tempo, mi chiesero di scegliermi un'attività fra quelle possibili comunitarie o personali, e fui presentato come un nuovo compagno "che aveva abbandonata la falsa civiltà del benessere americana" nel corso di una riunione nel grande cortile. I primi tre mesi tutto fu perfetto, davvero sembrava che il mondo schiavo delle sue regole fosse rimasto fuori dal cancello di legno. Lavoravo nella falegnameria, cambiavo ragazza quando lo desideravo e venivo a mia volta cambiato, ascoltavo musica e scrivevo poesie. La nostra economia si fondava sull'agricoltura e sull'artigianato e si occupava di vendere i nostri prodotti un tal Rashid, un maghrebino che era stato uno dei fondatori della comune. Con il denaro ricavato veniva acquistato il necessario per i bisogni della collettività. Con Rashid tenevano i contatti esterni due altri ragazzi, un'olandese ed un francese, dei quali non ricordo il nome ma che saprei ricoscere immediatamente ancora oggi. Bene, dopo quel periodo di permanenza arrivò per me il desiderio di uscire dalla comunità e di fare un salto nella città vicina, quindi chiesi a Rashid di poterlo seguire nel suo prossimo viaggio di approvvigionamento. La risposta fu un netto rifiuto, con la motivazione che chi viveva nella comune non poteva lasciarla per ragioni di ordine pubblico, espressamente richieste dalle autorità come condizione per il rilascio dell'autorizzazione ad impiantarla. Mi disse anche che questo era accettato da tutti senza problemi, e che tutti erano a conoscenza del fatto che chi voleva andarsene sarebbe stato accompagnato alla stazione dove gli sarebbe sarebbe stato pagato il biglietto fino a Parigi. E senza potersi fermare in città neppure per un istante. Ricordo che rimasi stupito della cosa, provai a ribattere ma mi venne detto che quelle erano le regole: o le accettavo o potevo andarmene anche subito. Nei giorni seguenti mi accorsi di essere controllato da Rashid e dai suoi due amici, inoltre spesso molti mi chiedevano sorridendo se la comune era quella che mi aspettavo. Come se qualcuno cercasse di sapere se diffondevo del malcontento o se chiedevo spiegazioni sul divieto di recarsi in città. Bastò questo per darmi la certezza che non era poi tutto così chiaro in quel posto dove la libertà era presentata come un dogma assoluto. Mi rituffai nelle mie attività e nelle mie ragazze, comportandomi normalmente con Rashid fino a quando il clima di sospetto che avevo attorno non sparì del tutto. Arrivai anche a dire che consideravo giustissima la regola imposta, e che tutto quello che si poteva desiderare era lì dentro. Ma non avevo dimenticato. L'occasione di "scappare" arrivò durante una delle prime sere d'inverno; Rashid era partito con i soci per il solito viaggio bisettimanale e non sarebbero tornati che il giorno seguente; io lasciai la comune attraverso i campi deserti mentre tutti erano nelle camere o nei due grandi saloni del fortino. Non fu certo difficile allontanarsi. Raggiunsi la strada e cominciai a camminare nella direzione dove vedevo sparire sempre il grande camion di Rashid; poi alle mie spalle sbucarono due fari e il conducente si fermò alle mie segnalazioni. Era un vecchio contadino che rientrava in città, fu lieto di prendermi a bordo con lui. Mi chiese se vivevo nella comune, ed alla mia risposta negativa cominciò a raccontarmi di quanto quell'insediamento fosse una benedizione del cielo e di quanto avesse risollevato il commercio. A cinque anni di distanza dalla fondazione, secondo lui la cittadina di 8000 abitanti aveva cambiato completamente faccia. Non più solo contadini ma soprattutto piccole imprese di compravendita che, acquistando a prezzi irrisori i prodotti della comune, facevano affari d'oro. Mi rivelò anche che c'era un grosso centro di smistamento gestito da un maghrebino e da due soci aperto due giorni alla settimana, che oltre a vendere si occupava anche di ritirare tutti i prodotti in scadenza quali pasta e scatolame dalle fabbriche vicine. Avevo capito. Rashid aveva messo su un vero e proprio mercato generale con prezzi mai visti, grazie al fatto che i produttori non venivano pagati, e la merce che portava indietro non aveva certo qualcuno che la controllasse. Si stava arricchendo sfruttando i sogni di 400 ragazzi, la loro voglia di libertà. E stava ben attento che nessuno ne venisse a conoscenza, impedendo i contatti con la città.

 


Ancora oggi, dopo più di vent' anni, ricordavo perfettamente tutti i particolari di quando afferrai il microfono durante un concerto di ragazzi della comune, qualche giorno dopo la mia scoperta. Avevo visto tutto: la cooperativa di Rashid e dei suoi soci, il materiale scadente che arrivava e veniva caricato sul camion, i loro vestiti del sabato sera e la macchina che li portava chissà dove. E raccontai tutto quasi urlando, raccontai di come quei tre bastardi ci stavano fregando. Chiesi a chi aveva dei dubbi di andare a controllare con i suoi occhi, ed ero certo che sarebbe stata dura evitare un linciaggio. Invece Rashid sorridendo salì sul palchetto improvvisato e raccontò che quel che avevo detto era vero ma che il solo modo di garantire la sopravvivenza della collettività, impedendo che il potere ne ordinasse la chiusura, passava da un utile effettivo dato alla società esterna. Aggiunse un accorato discorso su tutto l'affetto che lo legava ai "suoi fratelli" e sulle difficoltà affrontate per realizzare tutto quello che avevamo attorno, ma che era lui pronto ad andarsene se solo gli fosse stato chiesto. Terminò quasi fra le lacrime, con una specie di accorata filippica sulla scarsa considerazione che gli americani hanno della società europea. Vidi la folla mormorare, poi il nome di quel figlio di puttana venne invocato come fosse stato Gesù e le urla che lo imploravano di non abbandonarli diventarono totalità. Io fui insultato, deriso, trascinato giù dal palco e venni sommerso dagli sputi di quei ragazzi che preferivano essere trattati come polli d'allevamento piuttosto che imparare a combattere. Prima di essere accompagnato alla stazione Rashid e i suoi scagnozzi mi picchiarono per bene, e la sola persona che mi salutò quando me ne andai fu Josiane, una ragazza franco-belga che era passata dal mio letto. Ricordo ancora le sue parole: "So che hai ragione, ma cosa posso fare? Io qui sto bene, non ho problemi, vivo e mi diverto. Là fuori non sarei niente, e non posso certo tornare a casa dei miei genitori. Anche se Rashid guadagna dei soldi sul nostro lavoro, quello che ci ha dato in cambio basta a perdonarlo."

Avrei voluto spiegarle che una comunità agricola non deve essere necessariamente fondata sulla schiavitù, ma in quel momento mi accorsi che non mi fregava più niente di quel mondo che non poteva esistere senza un Rashid. I deboli hanno bisogno di un capo, non importa se per questo vengono calpestati i loro sogni e la loro dignità. Quella società, che doveva rappresentare un simbolo della libertà, era invece unicamente il permesso di scopare tranquillamente e di vivere senza correre il rischio di incontrare qualche avversario sulla strada. Chi ero io per dire a quei disgraziati che il nemico li aveva già vinti e incatenati?

Tornai in America dopo un anno esatto. Ripresi gli studi e la mia vita, ma quel senso di impotenza e di frustrazione, quella rabbia, quegli sputi, mi tormentarono per molti anni.

 

 

 

 

"Ehi, Arthur, a cosa stai pensando? Sembri già partito per un'altra dimensione. Non dirmi che ti sei perdutamente innamorato della tua addetta-servizi! Dev'essere proprio così, se non mi hai neppure sentito bussare... - Alex Gooswell era entrato nella camera - E poi non hai quasi toccato cibo. Inappetenza e sguardo perso nel vuoto... Mi sembra di ricordare quei sintomi!"

"Scusami, Alex. - ribattei ridendo - Stavo solo pensando ad una storia di tanti anni fa, e mi sono perduto fra i ricordi della gioventù. Vecchi tempi passati che non tornano indietro."

"Tu riesci ancora a ricordare di aver avuto una gioventù, sapessi quanto ti invidio! Ma ora che ne diresti di abbandonare il passato e di parlare invece del presente e dell'esperimento che stiamo per realizzare? Sono convinto ci sia ancora qualcosa su cui vorresti avere ragguagli. Prima non abbiamo avuto modo di discuterne troppo."

Restai per qualche attimo a guardare gli occhi di quell'uomo. Così segnati dal tempo che avevano visto passare eppure così vivi, pronti a cogliere tutte le sfumature delle cose. Gooswell era una di quelle creature che non appartengono mai interamente al mondo che le contiene; era impossibile immaginarlo diverso da come si presentava o pensare che avesse affrontato tutte le tappe comuni agli esseri umani. La sua origine era un mistero; le biografie lo facevano nascere a Dusseldorf nel Febbraio del 1901, ma poi le sue tracce sparivano fino a quando non lo si ritrovava insegnante di filosofia all'Università di Dallas, nel 1967. Nelle poche interviste che aveva rilasciato non parlava mai del suo passato, e qualcuno aveva avanzato l'ipotesi che fosse un ex-criminale di guerra nazista portato negli USA alla fine del conflitto e utilizzato in seguito dai servizi segreti di allora. Erano nate sul suo conto anche alcune leggende, tra le quali quelle di atroci esperimenti, da lui effettuati, sugli ebrei deportati nel campo di Dachau. Esperimenti che avevano permesso l'avvio dei suoi studi sulla morte. Altre dicerie lo volevano uno scienziato di eccelsa levatura al servizio del terzo Reich, rinchiuso per quasi 20 anni in un manicomio sovietico dopo essere stato catturato dai russi durante la caduta di Berlino. Si raccontava a questo proposito di un'improbabile fuga con l'aiuto della CIA, di tutta una serie di peripezie che lo avevano portato ad assumere la cittadinanza americana e a diventare sotto falso nome un professore universitario. Era insomma un uomo circondato da ridde di ipotesi di tutte i generi, che lui non confermava e non smentiva. Semplicemente, ne prendeva atto. A me non interessava da dove provenisse o chi fosse in realtà. Consideravo quell'uomo una delle più belle intelligenze che mai avessi conosciuto e questo mi bastava; tutto il resto era la sua vita, erano solo fatti suoi.

"Arthur, ti sei incantato un'altra volta? - la voce di Alex tornava a farsi sentire - Ti ho chiesto se c'è qualcosa di cui vuoi parlare..."

"Certo, certo... - risposi - E' solo che sono ancora un pò stranito e la mia mente fa larghi giri prima di arrivare. Sai, non ha ancora completamente ingoiato quello che l'aspetta e continua a tendermi delle trappole portandomi lontano. Ma sono tutto per te ora, non mi distrarrò più."

"Allora ascoltami bene, dottor Arthur Zane. Ho passato decenni sepolto fra migliaia e migliaia di libri e penso di aver rivisitato tutte le leggende e le teorie relative alla nostra amica Tanathos. Conosco praticamente tutto di lei, riesco quasi a percepire i suoi pensieri e so dove e come può colpire. Non è malvagia; il dolore che l'accompagna viene unicamente dall'uomo e dal terrore dell'ignoto che lo segue da sempre. Lei non può altro che continuare fino alla fine dei tempi l'opera per la quale è stata creata, poichè proviene dal stesso nostro Padre. Ma con il passare dei millenni la sua solitudine è diventata sempre più terribile, ed allora ha impiegato la sua energia per costruirsi un'universo dove spaziare. Ma quel mondo è privo di vita, non le dà alcun sollievo e aumenta la sua disperazione."

"Senti, Alex - interruppi - non verrai a dirmi adesso che la morte soffre di paranoia. E riguardo alla sua creazione da parte di un Padre Supremo, se ricordi io sono un ateo convinto. Posso seguirti in un discorso dove mi parli di flussi e riflussi di energia, ma non riesco a concepire deità o cose simili. Ho sempre pensato alle religioni come ad uno strumento ad uso e consumo di pochi per controllare le masse, e non credo proprio che potrò cambiare idea."

"Non ho parlato di religione, amico mio, ma di Dio e delle sue creazioni. Se l'uomo ha costruito attorno ad esse dei teatri dove gestirne gli spettacoli, non puoi imputare a Lui nessuna colpa o, peggio, dire frettolosamente che non esiste. Ma lasciamo da parte questi discorsi, per adesso; quello di cui voglio essere certo è che tu sia perfettamente cosciente di cosa potresti trovarti davanti. Penso tu abbia considerato la possibiltà che la tua mente non regga al momento del ritorno, e questo dipenderà unicamente dal fatto che non si sia trovata impreparata al viaggio."

"Ho pensato a questo, è vero. Forse il rischio sarebbe stato minore con una preparazione adeguata, ma probabilmente se il mio inconscio assorbisse interamente l'idea non permetterebbe l'inganno elettronico e l'esperimento rischierebbe di fallire. Giusto?"

"Hai centrato il problema. L'ideale sarebbe stata una partenza nel sonno, senza che tu sapessi nulla, e ammetto che si era pensato inizialmente a questa ipotesi. E' stata scartata perchè anche per degli scienziati esistono complicazioni etiche, nonostante tutto quello che avrai sentito sul mio conto. Il consiglio che ti posso dare è di affidarti completamente all'istinto, di riportare a galla tutti quei segreti che porti nascosti nell'anima. Lei già ha vissuto l'esperienza della morte molte volte, anche se non ti permette di ricordarlo, e ti aiuterà."

Mentre Alex parlava, tornò nel pensiero l'immagine di un mio vecchio paziente che giurava di essere in contatto con le sue reincarnazioni passate. Era convinto che volessero ucciderlo per riunirsi a lui, che tutte le notti tendessero agguati dai quali scampava miracolosamente e diceva che doveva difendersi con ogni mezzo. Restò in analisi per quattro anni, fra crisi profonde ed un paio di tentativi di suicidio, poi un giorno mi raccontò che era tutto finito e che la porta si era chiusa imprigionando per sempre il suo passato. Ed era davvero guarito. Riprese la sua esistenza interrotta ed ancora oggi qualche volta ci incontriamo, ceniamo insieme e lui mi racconta fra le risate di quando si accorse di possedere un'anima. Il caso più strano di guarigione spontanea che avessi mai visto... E ora Alex mi diceva che solo l'anima era in grado di aiutarmi.

 

 

 

 

Ero rimasto solo nella stanza. Alex mi aveva lasciato dopo avermi dato appuntamento al mio risveglio, ed ora stavo aspettando che il tempo passasse e scendesse la notte. Mi spogliai e mi gettai sotto la doccia, osservando i fori nella parete da dove sarebbe entrato il gas che doveva addormentarmi. Ulthmer mi aveva detto che si trattava di una sostanza di nuova concezione, completamente inodore e senza effetti collaterali; non mi sarei accorto di quando veniva immessa nella camera, dopodichè qualcuno mi avrebbe portato in quello che immaginavo una specie di laboratorio spaziale collegandomi alle macchine diaboliche della realtà virtuale. Stavo bene. L'acqua tiepida scendeva sul mio corpo, dandomi una sensazione di benessere; mi sarebbe piaciuto ascoltare della musica, magari la stessa che anni fa quel vecchio violinista suonava davanti al mare in tempesta, ritto sugli scogli e con i lunghi capelli bianchissimi agitati dal vento. Stavo passeggiando sul molo quando lo vidi, e in lontananza non capivo cosa stesse facendo quell'uomo che si agitava fra le intemperie. Poi, avvicinandomi, "quella" musica cominciò pian piano ad entrarmi nelle orecchie affascinandomi. Suonò per ore, senza mai fermarsi, con me appallottolato sulle rocce alle sue spalle. Sembrava quasi che il mare volesse ringraziarlo per quel concerto gettando furiose ondate fino a pochi centimetri da lui, il vento fortissimo e gelido non sembrava riguardarlo e la sua musica era più forte di tutto, più forte della rabbia della natura. Riempiva lo spazio, il tempo, creava silenzio e lo nutriva. Viaggiava nei sogni e disperdeva ogni incubo, seguendola si poteva vincere la paura ed arrivare dove nessuno era mai giunto. Il vecchio si voltò una sola volta a guardarmi e aveva gli occhi pieni di lacrime; poi ancora dritto verso il mare, ancora a suonare, ancora a scagliare note verso l'universo che sembrava esso stesso un prodotto di quella musica che non finiva mai. Poi... poi di colpo si fermò, abbassando le mani che stringevano archetto e strumento. Immobile per lunghi minuti, pietrificato e silenzioso, continuando un colloquio con il mare in una lingua che solo lui conosceva.

E infine venne quell'urlo, terribile e lunghissimo, ad accompagnare il violino e archetto che volavano verso il cielo, che scendevano preda del vento, che venivano ingoiato dai flutti. Il vecchio si raccolse nel suo cappotto nero, abbassò la testa e mi passò accanto. "Sono un uomo che sta morendo - disse senza guardarmi - era il mio ultimo concerto per il mondo che sto lasciando."

Lo avevo visto allontanarsi, diventare sempre più piccolo e sparire nel suo destino. Da quel giorno la musica non ebbe mai più per me lo stesso sapore; ad ogni concerto che seguivo sentivo ai miei piedi un paio di scarpe di roccia, pesantissime, che mi impedivano di volare in alto, di lasciarmi andare ai suoni. Ma non poteva essere diversamente. Io avevo incontrato la musica, e l'avevo vista andar via per sempre.

 

 

 

 

Erano le 17,30 quando la mia bella addetta-servizi mi chiamò al videocitofono, comunicandomi che si metteva a mia completa disposizione nel caso avessi desiderato visitare il centro. Le lanciai una battuta sul genere: "Preferirei un invito per una cena a lume di candela" ricevendo in cambio un gelidissimo "Mi dispiace, sarei lieta di accontentarla ma questo è un servizio che non riguarda le mie competenze", cosa che fece tramontare del tutto la mia speranza che un bagliore umano fosse ancora presente nella dolce fanciulla. L'immagine svanì dallo schermo; pensai sorridendo a Linda e a come fosse diverso il suo modo d'interpretare l'essere donna, anche se in quanto ad intelligenza ero certo il clone non la staccasse poi di molto. Ero solo la capacità di avvertire le emozioni quello che le separava, il credere che esiste altro oltre a una fredda concezione del pensiero. Indubbiamente un vantaggio di carattere quantitativo e qualitativo per chi ne fosse estraneo, ma una penalizzazione che portava un essere umano ad assomigliare in tutto e per tutto al suo lavoro. Un anatomo-patologo diventava così parte dei cadaveri che sezionava, un biologo la provetta dei liquidi esaminati, e una dottoressa del centro sperimentale d'informatica un vero e proprio computer. Ma non avevo mai trovato in uno di questi personaggi quella scintilla che rende la vita qualcosa di reale; indubbiamente riuscivano a scrivere il loro nome a caratteri cubitali nel libro della società, abitavano in belle case progettate da architetti di grido e guardavano il resto del mondo da altezze imprecisate. Ma vivevano in una solitudine tremenda, ben diversa dal mio isolamento esistenziale, dove lo spazio era interamente occupato da sé stessi e si allargava unicamente in prospettiva dei loro bisogni. Sarebbe bastato un attimo, un solo breve attimo, di consapevolezza, e si sarebbero uccisi tutti. Non avevo mai sopportatato la mancanza di umanità; qualunque peccato ero pronto a perdonare se intravedevo in chi lo commetteva un bagliore di qualcosa di vero, ma impazzivo letteralmente davanti alla freddezza. L'inganno di chi riusciva a spacciarsi per un essere superiore grazie all'intelligenza e al denaro era uno dei grandi misteri irrisolti della mia esistenza. Per quanto mi sforzassi non riuscivo a capire come la massa si intestardisse nell'osannare personaggi palesemente interessati solo al loro essere, ai quali non fregava niente di qualunque tragedia potesse accadere davanti ai loro occhi se non era personale. E la mia non era demagogia o filosofia spicciola, ma incazzatura vera... Il dono che l'uomo aveva perduto era la capacità di pensare con la propria testa; per questo era così facile inserire nei cervelli abilmente lobotomizzati della gente idee e concetti che qualsiasi essere senziente avrebbe risputato immediatamente. Io ero un convinto assertore dell'individualismo, d'accordo, e da buon studioso sapevo che questo per non creare squilibri deve essere supportato da una forza di carattere abbastanza consistente. Ma rivestito dei panni di un essere più debole ero certissimo avrei difeso a qualunque costo la mia indipendenza ideologica, e pazienza se questo mi avrebbe portato ad accumulare una lunga serie di sconfitte. Era essenzialmente un discorso di cultura, non proveniente dai libri, ma quella che giorno per giorno si può imparare attorno a noi. In questo modo qualunque essere progredisce, dotato o non dotato, in ossequio all'evoluzione della specie che aveva portato l'uomo delle caverne a progettare la realtà virtuale. Era stato l'istinto della ricerca a portare alla scoperta del fuoco e della ruota, doveva essere lo stesso istinto la guida degli esseri umani perchè quella era la sola cosa uguale per tutti noi. Cristo, avrei dato qualsiasi cosa per infilare a forza nelle menti di tutti la stessa voglia di libertà e di rispetto che avevo appiccicata addosso come melassa. Anche se sapevo che un discorso simile mi faceva assomigliare a quello che volevo combattere...

Sdraiato sul divano continuavo ad inseguire i pensieri che si affollavano, magari conseguenza di qualche particolare della stanza che fissavo fino a quando i suoi contorni non sfocavano. Non avevo grande forza di concentrazione, o perlomeno non quando lo reputavo inutile. Preferivo spaziare lasciando campo alla fantasia, e spesso questo mi dava davanti agli altri l'immagine di uno che aveva sempre la testa fra le nuvole. Ma non era vero. Io semplicemente vivevo sulla terra solo quando era strettamente necessario, ed in quei momenti riuscivo a risolvere in fretta qualsiasi probema mi si presentasse. Lo affrontavo di petto, lo valutavo ed immediatamente avevo pronta la soluzione, laddove magari molti altri si sarebbero perduti per molto tempo. Proprio per questo non sopportavo chi si arrendeva, chi cercava aiuto, chi aveva paura di lottare, chi arenava sulla mediocrità tutti i sogni... Il mio mondo ideale poggiava sulle spalle degli antichi cavalieri senza macchia, con Parsifal eletto a modello per tutti gli uomini e Giovanna d'Arco simbolo delle donne. Senza fregature... Senza frustrazioni.

"Dottor Zane, dottore, è in camera? - il videocitofono stava trasmettendo immagine e voce della donna di ghiaccio - Dottore Zane, mi risponda per cortesia."

Mi presentai davanti allo schermo frugandomi nelle tasche. Dove avevo lasciato il pacchetto di Camel? Beh, in fondo ero famoso per la mia capacità di perdere qualsiasi cosa anche in spazi ridottissimi. Posai il dito sul pulsante di risposta. "Eccomi, sono qui. Non mi dica che ha ripensato a quella proposta di un invito a cena..."

"In un certo senso, dottore. Volevo scusarmi per essere stata sgarbata prima, ma qui dentro il senso dell' umorismo viene spesso lasciato fuori dalla porta. Per farmi perdonare mi piacerebbe offrirle il caffè, al bar sulla terrazza. Che ne dice? Sono in pausa fino alle 21,30."

Incredibile. Questo sconvolgeva la mia ragione ancor più delle invenzioni di Ulthmer. Non potevo perdere certo l'occasione di esaminare da vicino quello splendido prodotto della genetica.

"Ne sono felicissimo - risposi - mi dia il tempo di rivestirmi e passi a prendermi. Ma non faccia passare più di 5 minuti o comincerò a credere di aver avuto un'allucinazione!"

La risata arrivò in diretta dallo schermo. "Non si preoccupi, dottore. Gli uomini mi hanno accusata di molte cose, ma mai di scarsa puntualità!"

 

 

 

 

La tazzina era bollente e il caffè lunghissimo; il latte mi era stato portato in polvere dentro una bustina di color rosa, già dosato. Pazzesco. Erano riusciti a riunire le tre cose che più odiavo in una sola volta. L'unico particolare decente di quel bar color plastica e metallo era la terrazza, da dove si godeva del tepore degli ultimi raggi di sole della giornata. Oltre alla ragazza, ovviamente...

"Non mi sono ancora neppur presentata. - disse lei sorseggiando l'ignobile intruglio - Mi chiamo Pauline, Pauline Lavois; sono nata a Parigi e da lì proviene la mia laurea in chimica pura; ho 32 anni. Lavoro al centro dal giorno della sua apertura, oggi dirigo il reparto di biologia sperimentale. In America sono arrivata quasi per caso, grazie ad un concorso della NATO, e qui ho continuato a studiare specializzandomi in fisica quantistica. "

"Un specie di genio, insomma. - ribattei sinceramente stupito - Ma come mai ora perde tempo con me? Non mi sembra un compito adeguato a lei preoccuparsi del mio pranzo e del mio tempo libero, né mi sembra il tipo capace di perdere la testa per il mio pur indubbio fascino."

Quando rideva diventava ancora più bella, rivelando insospettate doti di femminilità.

"E' una scelta del dottor Deckett fatta in base alla complementarietà dei nostri caratteri. Qui niente viene lasciato al caso. Sono l'unica persona del centro che è stata messa a conoscenza di tutti i dettagli dell' operazione Hela e sono io il primo viso che vedrà al suo risveglio, proprio in ragione di caratteristiche che ci accomunano e grazie alle quali il suo inconscio dovrebbe riconoscersi in me. Ho passato mesi a leggere tutto quello che la riguardava, la sua vita è diventata un po' la mia."

"Ulthmer non mi ha parlato di te in questi termini - ero passato al "tu" senza neanche accorgermene - presentandoti quasi come una specie di segretaria che doveva seguirmi per dovere di ospitalità. Non credo fosse necessaria tutta questa manfrina da parte sua."

"Ne sei certo? Non pensi che il tuo carattere ti avrebbe impedito di accettare accanto qualcuno preparato a farlo? Sei troppo geloso di te stesso per permetterlo, ti saresti immediatamente difeso attaccando il professore."

"Mi permetto di ricordarti che sono io l'analista... Comunque cosa cambia se conosco solo adesso la verità?

"Cambia molto. Ora puoi decidere tu se possiamo essere amici o se invece non hai bisogno di nessuno. In altro modo, mi avresti trattata come un'intrusa senza neppure conoscermi e rifiutandoti anche di parlarmi. Non sei tipo che accetta imposizioni, tu..."

Quella piccola serpe aveva ragione. E anche Ultmher non sbagliava. Se mi avesse detto che qualcuno si era incaricato, per mesi, di frugare nella mia vita, avrei mandato immediatamente tutti a quel paese tornandomene a casa con il primo volo. Viceversa, adesso avrei potuto rifarmi solo con Pauline insultandola, ma andando comunque avanti nell'operazione Hela. Non erano male in quanto a psicologia i cervelloni del centro; io non sarei mai riuscito a calcolare tutta quella serie di reazioni a catena. La guardai nei grandi occhi verdi. Probabilmente sapeva che per il mio cervello correva il desiderio di strangolarla assieme ad Ulthmer. Ma non avrei risolto altro se non dar loro la certezza della mia rabbia verso chi si dimostrava molto più furbo di me. Tanto valeva accettare, con dignità, di scambiare due chiacchiere...

"O.K. ragazza, siamo amici. In fondo non dev' essere stato facile sorbirsi tutto quello che mi riguardava; non è che la mia esistenza possa essere scambiata per un romanzo particolarmente elettrizzante. Meriti ampiamente il premio del perdono."

"Ti ringrazio per la munificenza - ridacchiò Pauline - ma non mi sono annoiata affatto leggendo tutti i casini che hai combinato. Da quando, a 16 anni, hai preso a martellate la macchina di un malcapitato professore di geologia e ti sei beccato una denuncia..."

"Quel figlio di buona donna aveva palpato la mia ragazza, e nessuno voleva crederci. Era stato un'atto di giustizia, la querela fu ritirata proprio per questo."

"Certo, certo... Ma che mi racconti di quando hai preso a calci un ufficiale giudiziario e hai passato una notte in guardina? Maniaco pure quello?"

"Molto peggio. Si ostinava a voler cacciare di casa una mia vicina, una donna di 78 anni, perchè non aveva i soldi per pagare l'affitto. Lei piangeva e lui niente, voleva sigillarle la porta a tutti i costi. Che dovevo fare? E poi non l'ho preso a calci, ma gli ho solo messo a forza in bocca i 200 dollari che voleva dalla vecchietta. Ma piuttosto, della mia vita hai studiato solo la fedina penale?"

Ancora quella risata argentina, seguita da un'altro sorso di acqua colorata.

"No, conosco anche altre cose di te oltre alla sindrome del cavaliere antico senza macchia e senza paura. Ad esempio, dalla scheda del tuo servizio nei marines si legge di un quoziente intellettivo molto alto, di una totale insofferenza alla disciplina e all'autorità e di una capacità deduttiva fuori della norma. Inoltre ho avuto davanti agli occhi il tuo quadro psicologico tante di quelle volte da trovarmi a parlare con te a voce alta quasi come fossi presente. Ma il punto che mi ha più colpito è quello riguardante la tua laurea: tu e la cibernetica siete lontani qualche anno luce, come ti è passato per la testa di seguire un corso simile?"

"Molto semplice e molto drammatico. Avevo quasi 18 anni e volevo iscrivermi a filosofia, ma all'Università la fila in attesa davanti alla segreteria della facoltà era lunghissima. Addirittura, in molti avevano trascorso la notte sulle scale. Allo sportello vicino non c'era nessuno, presi lì i moduli da compilare: erano quelli di ingegneria cibernetica."

Pauline sgranò gli occhioni. "Pazzesco. Vuoi farmi credere che hai seguito per 5 anni un corso che non ti interessava solo per non fare qualche ora di coda? Signore, e dire che passi per un uomo di fortissima responsabilità. Ho sempre pensato che i test dei marines siano inattendibili."

"Soffro di una malattia che si chiama idiosincrasia da attesa, è inguaribile e non mi permette di aspettare troppo le cose. Ed è verissimo, sono fortemente responsabile, ma verso gli altri. Di me stesso non ho mai avuto troppo cura..."

Pauline aveva gli occhi che brillavano. Era terribilmente divertita.

"Non esiste una malattia simile, sei solo completamente matto. La tua fidanzata, Linda mi pare, deve possedere una pazienza straordinaria se ha retto tanti anni alle tue stranezze."

Sapeva anche di Linda; mi sembrava di avere accanto quella sorella minore che avevo sempre desiderato.

"In quanto a questo hai ragione. Linda è davvero in gamba. Se si togliesse dalla testa quelle ridicole idee sul femminismo, o almeno non ne subisse gli effetti collaterali, sarebbe una donna perfetta."

Sbagliavo, o nello sguardo della donna di ghiaccio stava passando un lampo di rabbia?

"Non mi dirai che fai parte di quel vecchio ciarpame di maschi che considerano la donna un qualcosa da chiudere nel cassetto fino alla sera? - non sbagliavo. Si era arrabbiata davvero - Se avessi dato retta a quello stronzo del mio ex-fidanzato a quest'ora stirerei camicie e pantaloni in qualche mansarda di Montparnasse, con due figli e la televisione. Mi ha lasciato dopo 6 anni dicendomi che aveva bisogno di una vera donna, non di una biologa in carriera che pensava all'America. La verità era che non sopportava il mio successo, si sentiva idiota nel suo dannatissimo ufficio di banca e non mi perdonava di guadagnare 3000 franchi più di lui. Iniziò a farsela con la sua segreteria come nella logica delle barzellette, e una sera mi confessò che quella puttana era diventata importante perchè "riusciva a capirlo e lo faceva sentire un uomo"! Cioè gli diceva che era grande, forte, bello e scopava da dio... Talmente cretino da crederci l'ha addirittura sposata, ma prima delle mia partenza ha cercato di portarmi a letto dicendomi che in fondo non sapeva dimenticarmi!"

Guardai per un istante quelle guance diventate improvvisamente color porpora. Probabilmente non aveva mai raccontato a nessuno la sua rabbia.

"Hai ragione. Quello era uno stronzo. Ma se condizioni la tua vita su quei ricordi dai un'importanza assurda ad una persona che non è niente più che un pupazzo. Hai semplicemente sbagliato valutazione, ti sei innamorata dell'uomo sbagliato. Può succedere. Ma non per questo devi smettere di credere che esistano uomini diversi, in grado di accettare di esserti inferiori o che quantomeno rispettino la tua intelligenza. Se alla fine della tua vita ti troverai ancora sola, ok, allora saprai di aver avuto ragione. Ma non smettere di combattere o ti troverai piena di rimpianti. In quanto a me, non credo che la donna vada chiusa in un cassetto fino a sera, anzi sono convinto che debba avere, e abbia, tutte le possibilità di valorizzarsi. Ma non accetto che venga usata per creare una frattura fra i sessi che porta solo alla solitudine. Ti sei mai accorta di quante donne e quanti uomini, senza la possibilità di un lavoro gratificante come può essere il tuo, passino gli anni da soli solo perchè incapaci di ritrovarsi? Pauline, ti assicuro che è disperazione autentica tornare a casa alla sera e sprofondarsi davanti alla televisione con due uova nel piatto. Questo è il prodotto del femminismo. L'emancipazione è tutta un'altra cosa, credimi..."

La dottoressa Lavois accese una sigaretta, riconquistò lo sguardo gelido di sempre e chiamò il barista, ordinando un Gin con ghiaccio. Stava cercando di dimostrarmi che non si sentiva sola, che lei si bastava. Forse era ancora recuperabile...

"Ascolta Arthur - anche il suo tono di voce era notevolmente raffreddato. Recitava bene, indubbiamente - senza quello che tu chiami fabbrica di solitudine, probabilmente le donne sarebbero ancora costrette a sputtanarsi l'esistenza nel mito del maschio. E' stata ed è tuttora una guerra, condotta per cambiare uno stato di cose inaccettabile; come tutte le guerre ha provocato morti, feriti e distruzioni, prezzo da pagare necessario per una vittoria."

"Santo dio, Pauline, sembri Napoleone davanti alle truppe prima dell'invasione della Russia... Ma veramente non ti rendi conto che non possono esserci vincitori in uno scontro simile? Sono perfettamente d'accordo con te sul bisogno di emancipazione femminile, sono anche convintissimo di un'effettiva superiorità della donna e non ho problemi ad ammetterla. Quello che contesto è la forma di presentazione dell'idea, la ghettizzazione del rapporto sessuale, la freddezza negli scambi che comporta. Tu dici che tutto è cambiato o quasi, io ti dico che non è assolutamente vero; la donna continua a prostituirsi ideologicamente pur di avere successo, anzi molto più di prima perchè il successo è la sola cosa che non ti permette di accorgerti della solitudine, mentre l'uomo continua ad usare il potere per acquisire consensi femminili. Ma in mezzo c'è la massa di gente che non riuscirà ad ottenere dalla vita molto più di una normale esistenza, ed è quella che risulterà schiacciata dalla sparizione del colloquio. Ricordati che atavicamente è ancora presente negli esseri umani la concezione dell'uomo che afferra per i capelli la donna e la trascina nella grotta per farne la sua regina..."

Pauline esplose nelle risa per un buon minuto. Anche il barista cominciò a guardare verso di noi.

"Vorresti dire che per essere tutti felici dovremmo tornare all'età delle caverne? Sei ridicolo, non puoi pensarlo davvero!"

Ricominciò a ridere. Attesi pazientemente che smettesse.

"Non usare una frase per distruggere un concetto che sai benissimo essere vero, altrimenti sei tu a diventare ridicola. - Pauline ritornò subita seria - Quello che volevo farti capire è che sia l'uomo sia la donna devono rispettare le matrici con le quali il Creatore, il caso o quello che vuoi tu li ha progettati. Non si possono cambiare, solo adattare alle esigenze dei tempi. Nel momento stesso che cessa il metro comparitivo, cessa anche lo scambio di sensazioni. L'errore tremendo dell'ideologia femminista l'hai rivelato tu stessa: considerare l'emancipazione una guerra da vincere a tutti i costi, senza preoccuparsi delle vittime."

"Come si sarebbe dovuto fare, secondo la tua illuminata sapienza, per liberare dalla schiavitù la donna? Gettarsi in ginocchio urlando "ti prego, uomo, rispettami!" o cos'altro ancora?"

Stava diventando aggressiva, segno di un cedimento nelle sue difese. Mi fregai mentalmente le mani.

"Non parlare di schiavitù. Era schiavo anche l'uomo che picchiava la moglie dopo aver trascorso 18 ore in miniera o zappando nei campi. Si trattava di una condizione subordinata ai tempi, venuta progressivamente a cadere con l'evoluzione economica. Corretta emancipazione significa crescita, adeguamento ai tempi, e non ha significato se non viene realizzata senza la rispondenza di tutti i fattori che compongono il risultato che si cerca di ottenere."

"Saresti stato un buon politico" - interruppe Pauline - "sei riuscito a non farmi capire niente arrivando quasi a farmi credere che hai ragione! Ma ti spiacerebbe ripetere, in maniera abbordabile per questa povera donnetta, cosa intendi per emancipazione corretta?"

"E' molto semplice. Voglio dire che i due sessi dovevano crescere assieme, realizzando una cultura del rispetto attraverso il dialogo. Mano nella mano, non prendendosi a schiaffoni. Spero che tu non ti illuda che oggi la massa maschile ascolti e comprenda i bisogni delle donne...no... semplicemente subisce qualcosa che si è trovato accanto e che non ha il potere di contrastare. Questo li porta ad aver paura, ad allontanarsi, a vendersi alla prima donna che mostra loro considerazione perchè ha capito il loro punto debole e lo usa. Come è successo al tuo ragazzo... è diventato un pupazzetto perchè non capiva chi eri e dove andavi, ha avuto terrore del confronto con qualcosa che non conosceva e si è rifugiato fra le gambe della prima persona che cancellava la sua frustrazione."

"Cosa cazzo stai dicendo? - Pauline scaraventò a terra la sigaretta ancora intera schiacciandola con uno scatto imperioso del piede. Quella sigaretta ero io - Vuoi farmi credere che se quel bastardo si è scopato un'altra e stato solo per colpa mia? Vuoi dire che avrei dovuto lasciare tutti i miei sogni in un cassetto per non farlo sentire piccolo e cretino, passando il resto della mia vita a fargli da mamma? No, no... io gli volevo bene ma non potevo farlo, non potevo rinunciare a me stessa! - le prime lacrime dopo tanto tempo stavano premendo sulla porta degli splendidi occhi - Ho passato anni cercando di spiegargli che non poteva trattarmi come una cosa sua, che doveva capire chi ero. Ancora oggi dopo tanto tempo mi trovo a discutere con la sua fotografia, come una pazza, per convincermi che non poteva andare altrimenti fra due persone tanto diverse..." Appoggiò la testa al tavolino iniziando a piangere. Piano, dolcemente, senza isterismi. Grandi lacrime che scioglievano il trucco trasportandolo sulla bianca tovaglia, cancellando per sempre quel senso di colpa che aveva rinchiuso in un bozzolo quella splendida creatura. Avrei voluto abbracciarla, consolarla, ma non potevo fare niente. Rubai una sigaretta dal suo pacchetto, andai al banco e ordinai una Vodka al barista che mi guardava esterefatto.

"Incredibile, la dottoressa Lavois sta piangendo... - mi disse - Non lo credevo possibile, una donna così altera... Le è capitato qualche guaio?"

"Nessun guaio, sta solo tornando ad amare sè stessa dopo tanti anni."

Il dispensatore di finto caffè mi voltò le spalle con un "certo, capisco perfettamente" di circostanza, tornando alle sue tazzine da lavare. Io tornai da Pauline, che aveva cominciato a trafficare nella borsetta.

"Devo essere orribile, mi sento gli occhi gonfi e le guance piene di rimmel sciolto." Pauline afferrò il fazzoletto che le stavo porgendo.

"Ti assicuro che qualsiasi uomo farebbe carte false pur di passare un'ora con te. Hai gli occhi talmente belli, ancora umidi di lacrime, che non mi stancherei mai di guardarli. E giuro che non ti sto facendo la corte, dico solo quello che penso..."

Sorrise. E dietro quell'espressione c'era tutta la femminilità che aveva appena ritrovato. Fragile, dolcissima, capace di amare come solo una donna è in grado di fare.

"Sai, dalla fine della mia storia con André non ho più permesso a nessuno di avvicinarsi a me sentimentalmente. Ero sicura che non sarebbe servito a niente, che io non ero la persona adatta a vivere un rapporto vero. Ero certa che sarebbe finita sempre alla stessa maniera, per questo ho tolto l'amore dalla mia vita."

Le diedi un buffetto sul viso. "Non l'hai tolto, solo nascosto. Il tuo André è un povero sciocco che passerà la vita a rimpiangerti e ad odiarsi per la sua debolezza, ogni attimo più disperato. Ma tu no, non puoi togliere dalla circolazione una donna come te per un senso di colpa che non ha ragione di esistere. Sarebbe un errore che ti porterebbe dritta all'inferno, per la gioia di tutti i diavoli maschi..."

"Smettila di scherzare! - mi gettò addosso le gocce di vodka rimaste nel bicchiere, divertendosi al mio scatto per evitarle che per poco non mi faceva cadere dalla sedia - Non è bello prendersi gioco di una ragazza indifesa."

Poi, regalandomi un'altro di quei sorrisi da porto d'armi - "Sono felice di averti conosciuto, Arthur, sei una gran bella persona. Anch'io non ti sto facendo la corte, ma penso che Linda sia davvero fortunata ad averti vicino".

Adesso potevo abbracciarla.

"Senti, ti dispiacerebbe mettere per iscritto questa tua ultima dichiarazione?" mi sentivo un bimbo davanti alla sua prima torta di compleanno - Magari riuscerebbe a convincere quel demonio evitandomi una marea di problemi!"

Uscimmo dalla terrazza tenendoci per mano, il barista ci salutò con la classica espressione di chi non capisce niente. Una costante della sua vita. Mi voltai prima di chiudermi la porta alle spalle.

"Ehi, barman! I tuoi caffè fanno schifo, le tazzine sono bollenti e il latte in polvere è una cosa che odio. Non penso ci rivedremo mai più."

Lui, l'infame mescitore, riuscì a sorridere...

 

 

 

 

Pauline mi aveva lasciato davanti alla porta della stanza, salutandomi con un leggero bacio sulla guancia. Ero rimasto a guardarla mentre si allontanava, affascinato da quella sua andatura che aveva ripreso come per incanto una femminilità profonda e misteriosa. Mi sarebbe piaciuto vivere per qualche tempo in un corpo come il suo, imparare a conoscerlo e ad amarlo, capire di cosa poteva essere capace e quali emozioni potesse scatenare attraverso gli sguardi ammirati degli uomini. L'essere maschile non avrebbe mai posseduto capacità magnetiche come quelle di Pauline, e forse la fregatura stava tutta in questo. Poveri uomini, costretti a combattere tutta la vita per un pò di soldi o di potere mentre loro, perfidissime figlie del serpente, potevano permettersi di scegliere con calma. Ma tutto sommato era giusto così, ed ero dannatamente convinto che il giorno che fosse cambiato davvero il rapporto fra uomo e donna il mondo sarebbe andato a catafascio.

Entrato nella stanza mi lasciai cadere sul letto, accesi una sigaretta e caddi nella più terribile della mia psicosi: l'ansia dell'attesa. Il desiderio di essere già laggiù, nel mondo della morte, prigioniero da una maledetta macchina, diventava sempre più terribile. Non mi importava quello che sarebbe successo o chi avrei potuto incontrare, la più grande prova era aspettare senza far niente che il gas entrasse nella camera per addormentarmi. Ma il caro dottor Ulthmer era con ogni probabilità perfettamente al corrente di questa mia sofferenza, di questa mia cronica incapacità di attendere, e magari contava proprio su questo per abbassare ulteriormente le mie difese attraverso quel senso di frustrazione che sentivo salire da tutto il corpo. Non mi restava che sprofondare nel mio pensiero, cercare nei ricordi qualcosa che potesse intiepidire le ore che mi aspettavano. I ricordi... spesso mi chiedevo quanto di vero esistesse nelle immagini che affollavano la mente e quanto ci fosse di manipolato, se quella percentuale di realtà conservata nei neuroni avesse aderenza concreta alle immagini del passato. Molto spesso la mia fantasia giocava a fregarmi e i ricordi, dopo un inizio fedele, finivano deviati da tutta una serie di interventi che non avevo mai fatto. Così la mia prima storia d'amore non finiva nelle lacrime di una ragazza tradita, ma piuttosto con la mia partenza per un lunga avventura fra le promesse di mille lettere appassionate. Oppure quella notte passata in una cella solitaria dopo un arresto per ubriachezza, che diventava per incanto l'incontro con un filosofo finito dietro alle sbarre per motivi politici... Non c'era niente da fare, ogni volta che incominciavo a pensare finivo inevitabilmente per imbrogliarmi. A meno che non mi tornasse alle mente qualche occasione di grande rabbia... ecco, allora rivivevo la frustrazione e il dolore fino in fondo, lucidamente, senza intermediari di nessun genere. La collera profonda era una mia caratteristica, scoppiava improvvisa ed irrefrenabile senza preavviso nei momenti più impensati, ed era sempre il segnale che dovevo cambiare qualcosa del mio modo di vivere. Era il mio calmiere, la mia ancora di salvezza... Molti anni prima, ai tempi del mio impegno politico nel partito liberale, avevo sfasciato completamente la mia casa a Middeltown. Con metodo, passando da una stanza all'altra dopo che dietro di me erano rimasti cumuli di vetri infranti, con tavoli e armadi rovesciati. Di intero era rimasto il letto, e su quello mi ero lasciato andare soddisfatto con una bottiglia di bourbon fra le mani e altre cinque posate sul pavimento. Ero rimasto là per tre giorni, senza dormire, con gli occhi fissi sul soffitto e le bottiglie che si svuotavano... finito il bourbon mi ero alzato, avevo fatto una doccia, mi ero sbarbato e avevo infilato il mio miglior vestito dopo aver scelto con cura la cravatta giusta. Con calma avevo guidato per Bridge Street, osservando le persone che tornavano a casa dopo il lavoro, avevo parcheggiato la macchina in doppia fila nella Silver Avenue e avevo salito le scale che portavano alla sede del partito liberale. 44 gradini, i più facili della mia vita. Brigitta mi aveva salutato con calore, con quella sua aria da segretaria puttana solo al sabato sera, e quando le avevo chiesto dove era Stonwell mi aveva risposto cinguettando: "Il Governatore è nella sua stanza, in conferenza stampa. Non vuole essere disturbato, ma lo avviso con l'interfono che lei è qui. Magari domani sul giornale vorrà che compaiano anche alcune sue dichiarazioni, signor Zane."

Uno dei più bei ricordi della mia vita saranno sempre gli occhioni sgranati di Brigitta, che con la bocca spalancata in un "mio Dio" osservava l'interfono senza capire cosa potesse averlo disintegrato.

Entrai nella stanza di Marc Stonwell mentre "L'amico della gente", come era scritto nel cartellone elettorale appiccicato al muro, rispondeva alle domande degli avidi cronisti sorridendo nella sua classica maniera. Ero sempre stato convinto che avesse più di sessanta denti, lucidati tutte le mattine da qualche leccaculo.

"Non ti ho sentito bussare, Arthur, ma entra pure" - mi disse. Poi, rivolto ai giornalisti - "Penso abbiate già sentito parlare del dott. Arthur Zane, uno degli uomini migliori del partito. Ha davanti un brillante futuro politico, io non sbaglio mai nel giudicare gli uomini. Forza Arthur, spiega tu il nostro programma per risolvere i guai di questo Stato."

Lo schiaffo avevo sdraiato Stonwell sulla scrivania. Mi ero massaggiato la mano per qualche istante mentre i cronisti, paralizzati, non sapevano se correre in aiuto dell'eminente personaggio finito a gambe all'aria o se piuttosto fotografarlo nell'imbarazzante posizione. Scelsero l'ultima possibilità, e mentre i primi flash illuminavano la stanza mi ero già allontanato dal luogo del delitto. Avevo attraversato il corridoio; Brigitta era sempre lì, con gli occhi posati sui cocci dell'interfono, e non li alzò neppure quando gettai le chiavi dell'ufficio davanti a lei. Scesi i 44 scalini e uscii sulla piazza. La macchina non c'era più; qualche zelante poliziotto si era precipitato a chiamare il carro attrezzi, giustificando in quel modo la sua esistenza da 800$ al mese.

Mentre camminavo lungo il fiume al primo imbrunire, pensavo a quante fregature era riuscito a rifilare Stonwell. Alle elezioni più di 400000 persone avevano scelto la sua smagliante dentatura: quasi il 75% degli elettori si erano fidati del mare di cazzate che dai palchi di tutto lo Stato aveva vomitato per più di un mese. Beh, d'altronde anch'io avevo votato per lui dopo avergli organizzato la campagna elettorale e dopo averlo seguito in tutti gli spostamenti. Anche in TV ero finito, a glorificare "l'uomo nuovo per un nuovo futuro"... Erano stati quasi tutti miei gli slogan che lo avevano accompagnato, quasi tutte mie le idee per imporlo all'attenzione generale. Avevo prostituito tutte le fresche conoscenze di psicologia sociale che avevo per farne un uomo amato, ascoltato, e votato soprattutto. Ero convinto che Marc Stonwell fosse davvero un uomo che l'America poteva guardare con fiducia...

I guai erano cominciati pochi giorni dopo la sua elezione. Una marea di faccendieri, intrallazzatori, voltagabbana avevano assunto domicilio nella sede del partito. E lui, l'integerrimo Marc Stonwell, aveva cominciato a distribuire posti e cariche a tutta quella accozzaglia di personaggi. Dopo un paio di settimane, alla mia domanda su come intendesse gestire quella avanzi di fogna aveva risposto:" Caro Arthur, ora si fa sul serio. Il potere deve rendere, e soprattutto chi lo possiede deve creare i presupposti per conservarlo sistemando persone di esperienza ai posti giusti. Ma non ti preoccupare, non mi dimentico di te... vedrai, i soldi non saranno mai più un problema. Ho intenzione di realizzare un centro studi pubblicitari con finanziamenti dello Stato, e tu sarai il responsabile dei servizi esterni alle dipendenze unicamente del direttore generale: Robert Gruber. Diventerai un uomo da 150000$ all'anno, caro Arthur Zane!"

Gruber, padre tedesco e madre argentina, era uno dei peggiori personaggi che mai avessero posato le ossa a Middeltown. Una specie di becchino, che si era arricchito a dismisura prestando danaro ad interessi pazzeschi a piccole aziende vicine al fallimento, aziende che subito dopo cercava in tutti i modi possibili, minacce comprese, di ostacolare nella ripresa. Finiva così per comprarle a quattro soldi, le rivendeva a cinquanta, cento volte tanto e ricominciava. Più volte denunciato, se l'era sempre cavata grazie ai soldi e agli avvocati di grido. Si era beccato anche una pallottola nella spalla: una donna gli aveva sparato dopo che il marito, ridotto sul lastrico, si era impiccato al balcone della casa che Gruber gli aveva portato via. Aveva mirato alla testa, la poveretta, ma la mano le tremava.

E quel figlio di puttana ora sarebbe dovuto diventare il "mio direttore"! Avevo provato spiegare a Stonwell che un simile personaggio era meglio lasciarlo a distanza, ma "l'uomo nuovo d'America" mi aveva detto a chiare lettere che chi aveva un simile patrimonio meritava solo rispetto, e che i soldi non si facevano con le carezze ma con le bastonate. "Trecentomila dollari per la mia campagna elettorale" - aveva concluso Stonwell - "vengono dalle sue tasche. Non pensi che basti questo per meritare eterna gratitudine? Senza contare tutte le conoscenze che ha messo in moto per aiutarmi! E poi chi ha i dollari è sempre pulito, ricordatelo bene..."

Dopo quell'ultimo colloquio per giorni e giorni ero stato terribilmente male, il senso di frustrazione era micidiale e mi spaccava la testa. Avrei voluto correre per le strade urlando che razza di personaggio fosse Stonwell, avrei voluto distruggere tutto il lavoro che avevo fatto per lui, tutto l'aiuto che gli avevo dato. Quattrocentomila esseri umani avevano dato la loro fiducia a quell'escremento, e la colpa era anche mia. Non sarebbero bastati 150000 o un milione di dollari l'anno per restituirmi quello che avevo perduto. Poi, pian piano, ero arrivato alla decisione di affrontarlo nella sola maniera che poteva lasciare un segno nei suoi ricordi. Ed ora mi sentivo meglio, anche nella certezza che tra qualche minuto la polizia mi avrebbe prelevato. Chissà quanta galera valeva un manrovescio rifilato ad un Governatore.

Ma la polizia non venne, nè dopo qualche minuto nè mai. Sua Eccellenza non mi aveva denunciato. Il telefono suonava quasi ininterrottamente ma non risposi neppure una volta; qualche giornalista arrivò fino a casa mia, ma dopo aver dato un'occhiata alla casa distrutta se ne andò senza neppure salutare. Non lessi neppure un giornale per dieci giorni, non ho mai saputo cosa si sia scritto su quello schiaffo.

Dopo un paio di settimane io e due valigie prendevamo la strada per Coolfield, stato nuovo vita nuova. I danni al mobilio mi erano costati 5500 $, in tasca ne avevo 220 più qualche spicciolo e il biglietto del treno. Dovevo ricominciare tutto da capo, sperando nel signore e nel maggior numero possibile di stressati da curare.

Due anni dopo, mentre ero nei marines, il "New Deal" riportò la notizia che un tale Robert Gruber era stato arrestato per frode: quasi tre milioni di dollari fregati alla stato per un centro studi inesistente. E sotto indagine era finito anche il Governatore Stonwell, costretto a dare le dimissioni qualche giorno prima di presentare la sua candidatura alle primarie presidenziali. Quel giornale, in una cornice dorata, è ancora oggi appeso nella mia camera da letto; ma neppure Linda sa perchè ogni tanto io lo guardi, perso in un'espressione beata da perfetto imbecille.

Mi ero addormentato da qualche minuto, quando il cicalino del videocitofono mi fece schizzare dal letto. Impiegai qualche secondo a rendermi conto di dov'ero: l'ultima immagine che conservavo era quella del la mia camera di Coolfield e della pagina di giornale appesa al muro. Avevo sognato anche qualcosa che non riuscivo a ricordare...

Premetti il pulsante: dal teleschermo i volti di Deckett e di Ulthmer mi guardavano, con la loro aria da scienziati pazzi.

"Ciao Arthur, possiamo parlarti per qualche minuto? Abbiamo delle novità interessanti che devi conoscere..." - sentenziò la voce di Ulthmer.

Mentre la porta si apriva, cercai di focalizzare i particolari del sogno ma tutto era avvolto nella nebbia. Avevo anche la testa pesante, mi sentivo leggermente stordito.

"Non funziona. Ci sono dei problemi ma non sappiamo da cosa dipendano" - disse Ulthmer sedendosi sul lettino, mentre Deckett restò in piedi accanto alla porta - "il gas ha un effetto ridottissimo su di te, in quattro ore non hai mai oltrepassato la soglia del pre-sonno. Sembrerebbe che tu opponga delle difese fortissime a quasiasi stimolazione di sonno indotto. Dobbiamo scoprire di cosa si tratta, se vogliamo proseguire nell'esperimento."

"Gas? Quattro ore?" - ero stupito, avrei giurato di aver dormito per pochi minuti - "Volete dire che avete cercato di addormentarmi? Io sono certo di essermi assopito per pochissimo tempo!"

"E in effetti la tua mente e il tuo corpo non si sono neppure avvicinati al sonno profondo, nonostante il gas avrebbe dovuto portarti al Rem molto rapidamente. Qualcosa in te si ribella, nelle tue cellule è fissato un messaggio di difesa contro questo tipo di situazione. Probabilmente qualcosa che è radicato nella tua infanzia, o addirittura nei primi anni della tua vita."

Pensai qualche istante, prima di rispondere: "L'unica cosa che so è che l'anestesia non ha mai avuto grande effetto su di me, se non per pochissimo tempo. Ricordo che circa a dodici anni sono stato operato di tonsille, e mi sono svegliato prima ancora che il chirurgo terminasse. Anche quando mi hanno rimesso a posto un braccio fratturato ho avuto dei problemi, e i medici sono dovuti ricorrere all'anestesia locale. Questo pochi anni fa. Ma non so perchè succeda..."

"C'è una causa, Arthur, una causa che solo tu conosci. Se non la trovi non potremo addormentarti al giusto livello di profondità e l'esperimento non potrà avvenire. Sta tutto nella tua volontà di ricordare."

"Ma cosa dovrei ricordare? - la mia voce si era alzata di tono - Sono solo una persona refrattaria agli anestici, una delle tante. Non posso scardinarmi il cervello cercando qualcosa che non esiste!"

"Esiste eccome, solamente ne hai una paura fottuta! E non è una causa organica, te lo assicuro, ma io non posso aiutarti a scoprirla. E poi, lo strizzacervelli sei tu... Tocca a te cercare di capire cosa impedisce alla tua mente e al tuo corpo di cedere ad un sonno indotto artificialmente. Posso solo darti una certezza: per essere così forte, la tua resistenza nasce molti anni fa. Dovevi essere un bimbo, altrimenti avresti razionalizzato quello che ti deve essere accaduto."

Passò un istante, poi esplosi: "Non mi è successo niente, cristo, come ve lo devo dire? Niente di anormale, niente di niente. Secondo voi dovrei passare le ore ad analizzarmi per scoprire perchè quel vostro gas del cazzo non mi ha addormentato? Siete completamente fuori di testa!"

Urlavo ormai come un ossesso, qualche insulto volò direttamente all'indirizzo di Ulthmer e Deckett, che non risposero. Rivoli di sudore scendevano dalla mia fronte e tremavo impercettibilmente. Una sensazione strana, come paura mista a ribellione stava salendo dal mio stomaco.

Avevano ragione, qualcosa era nascosto nei miei ricordi, qualcosa che non mi permetteva di cedere ad una quasiasi anestesia. Ma non sapevo, o non volevo sapere, di cosa si trattasse...

 

 

 

Avevo chiesto ad Ulthmer di poter prendere una boccata d'aria e lui mi aveva accompagnato in un piccolo giardino pieno di fiori e piante, con al centro una fontana dove dei grossi pesci rossi nuotavano pigramente. Mi aveva lasciato solo, senza una parola ma con un'affettuosa manata sulla spalla. E da solo cominciai a camminare osservando le luci del primo albeggiare giocare con i colori del giardino. Poi sedetti su una panca di pietra, ma non ero a mio agio, così mi ritrovai dopo qualche istante sdraiato vicino ad un piccolo platano. Con la schiena sull'erba mi sentivo più sicuro... era sempre stato così, come se dalla terra assorbissi onde di pace. Sapevo che non sarebbe servito rompersi la testa cercando una spiegazione al mio rifiuto del sonno artificiale; non potevo far altro che rilassarmi ed aspettare. Se il desiderio del "viaggio" era davvero quello che sentivo, allora il mio inconscio avrebbe vinto la battaglia di quel ricordo cancellato che secondo Ulthmer era la causa dell'inutilità del gas soporifero.

Cominciai ad osservare il cielo, lo stesso di Middeltown e di Coolfield, di Roma e Bombay, di Budapest e Rio de Janeiro... miliardi e miliardi di esseri erano passati sotto di lui, parlando d'amore o maledicendolo, indifferenti o immortali poeti. "Mio celeste impero - immortale fucina di sogni - non ti chiedo di portarmi a te - ma unicamente di lasciarti guardare" ... erano versi che avevo letto tanti anni prima, su qualche libro della mia adolescenza. Era bello ritrovarsi accanto ad una ragazzina nelle prime sere d'autunno, leggendo poesie sui prati della collina. Non c'era ancora il sesso, ma le emozioni erano di una forza incredibile, indimenticabile. Ci si guardava negli occhi cercando "il" significato al nostro essere lì, e ci si stringeva fingendo di ripararsi da un freddo che non c'era... Poi si tornava a casa, mano nella mano, senza parlare, e ci si lasciava senza salutarsi neppure perchè due spiriti che si toccano restano per sempre uniti. Forse quelli erano davvero attimi d'amore, gli unici permessi in tutta la vita. Tredici anni sono pochi ma sono l'eternità, perchè li ricordi per sempre.

E poi c'era la scuola, il primo vero confronto con gli altri, lo scoprire la storia di tutti quelli che erano vissuti prima e i paesi dove correvano altri ragazzi come te. E la matematica con tutti quei numeri che sembravano incomprensibili ma diventavano lentamente tuoi amici, e la fisica, la chimica, la letteratura... I lunghi giorni passati nella tua stanza a studiare, mentre tua madre lavava i piatti e lucidava i pavimenti orgogliosa della sua casa. Già, mia madre... una notte la luce si era accesa nella sua camera e lei stava morendo, poche ore dopo aver preparato i pomodori ripieni per il giorno dopo. Ero accorso alle urla di mio padre, e l'avevo guardata mentre la vita stava lasciando il suo corpo... non potevo far niente, se non capire che tutto stava per cambiare, non potevo far niente se non cercare di prepararmi...

Era una donna come tante, ma era mia madre. Lei mi aveva generato, nutrito con il suo seno, lei mi aveva accudito e si era preoccupata di non farmi sentire il freddo, lei mi aveva insegnato a parlare, a distinguere il bene dal male, ad essere tutto quello che ero. Avevo mille brevissimi ricordi di lei... di quando si preparava per portare il cane a passeggio, della sua caviglia rotta e del gesso pieno dei miei disegni, di tutte le volte che preparava la torta margherita. Non parlavo quasi mai di lei, neppure con Linda che pure a volte riusciva a ricordarmela... ma cosa potevo dire agli altri? Quando una donna muore, è madre solo per suo figlio...

Quando ero piccolo e lei andava d'inverno a fare spesa nel negozio sottocasa, mi lasciava presso qualche vicino per non farmi prendere freddo. Era molto protettiva, io già molto indipendente, così aspettavo con ansia il momento di quel breve distacco. Molto spesso restavo a casa di un'anziana signora sola, mi pare si chiamasse Ursula o qualcosa del genere. Era molto contenta di avermi con lei, ed in quella mezz'ora che stavano insieme mi copriva di mille tenerezze e piccoli regali. Avevo poco più di cinque anni, ero un bambino vivace e ansioso di scoprire tutto quello che potevo, e lei mi lasciava curiosare in tutti gli angoli delle sue stanze senza protestare. Poi, un giorno, mia madre non volle più lasciarmi da lei.

Curioso, non riuscivo a ricordare perchè...

L'ultima volta che ero rimasto con l'anziana signora era successo qualcosa, qualcosa di diverso dalle altre volte.

Dovevo concentrarmi, cercando qualche particolare di quella casa di tanti anni fa...

Ecco, la cucina... la ricordavo quasi distintamente adesso, e quell'ombra nera che si muoveva lentamente era senz'altro la signora Ursula...

Eccomi. Sono seduto vicino alla porta, ho una camicia bianca sotto ad un maglioncino rosso, i pantaloni del pigiama e le pantofole nere.

Ora ricordo bene... Ursula ha una strana espressione che adesso definirei un misto fra dolore e rabbia, è gentile come sempre ma io più volte le chiedo quando torna mia madre. Strano, è la prima volta che desidero tornare a casa...

Armeggia vicino ai fornelli, mi chiede se voglio del thè. Rispondo di no. Poi comincio ad avvertire la testa pesante e un pò di nausea, glielo dico. Mi risponde che probabilmente è un' influenza che sta arrivando, e mi dice di sdraiarmi con lei nel suo letto, per stare al caldo. Mi prende per un braccio e mi fa alzare dalla sedia. La seguo nella camera da letto, adesso la testa mi fa anche male. Mi fa sdraiare nella parte di destra del letto, mi copre, poi chiude gli scuri della finestra e la porta della stanza. Chiedo perchè. Risponde che così riposeremo meglio e che quando mia madre tornerà a prendermi starò meglio. Si sdraia anche lei, si volta e mi dà la schiena dopo avermi detto di dormire. Io non voglio dormire, glielo dico. Le dico anche che mia madre dovrebbe già essere tornata. Ma lei mi ripete di chiudere gli occhi, mentre la mia testa fa sempre più male e diventa sempre più pesante. Forse ha ragione, devo dormire un pò. Chiudo gli occhi, mi sembra di sprofondare in un tunnel senza fine. Li riapro, dalle tapparelle chiuse filtra un raggio di luce che colpisce un vecchio quadro appeso alla parete. Sembra un paesaggio di montagna, alzo le spalle per osservarlo meglio. Lei mi urla di stare fermo e di dormire, altrimenti dirà a mia madre che sono stato cattivo. Non mi aveva mai sgridato prima, mi ributto sotto le coperte con la voglia di piangere e il desiderio di essere a casa mia. Sto molto male, ho anche freddo adesso. Richiudo gli occhi, e ancora ritrovo quel tunnel che sembra voglia ingoiarmi. Sto per entrarci dentro, faccio ancora qualche passo e ne varco la soglia, c'è un grande buio lì dentro. Ma un suono insistente mi trascina ancora fuori alla luce, mi riscuoto e riapro gli occhi che sento pesantissimi. Ancora il suono, è il campanello. Mia madre è tornata! Scuoto la signora Ursula, le dico di aprire la porta. Lei risponde con voce profondissima che mi sono sbagliato, che nessuno ha suonato. Mi sento sempre più sprofondare nel sonno, rimetto la testa sul cuscino. Sono privo di forze, mi sento malissimo. Ancora il suono, ripetuto più volte, poi continuato e sempre più vicino. Mi alzo dal letto, poso i piedi sul pavimento freddo. Cerco di alzarmi, la signora Ursula si volta e cerca di afferrarmi, ma non ci riesce. Sento che sto per addormentarmi... non devo farlo, mia madre è tornata e devo andare da lei. Cado sulle ginocchia, riesco ad aprire la porta della camera da letto. Mi alzo aggrappandomi alla maniglia. Chiamo mia madre, vorrei urlare ma la voce che mi esce è debolissima. Cerco la luce ma non trovo l'interruttore, intanto il campanello continua a suonare e sento lontanissima la voce di mia madre chiamarmi. Cado nel corridoio, sto per lasciarmi andare al sonno sul pavimento ma resisto. Mi rialzo, ho tanta paura e la mia testa sembra scoppiare. Percorro i metri che mi separano dalla porta cercando di non crollare, poi arrivo alla porta d'ingresso. Chiamo mia madre, le dico che sto male, la sento urlare di aprire subito e chiedere aiuto a squarciagola. Ora la voglia di dormire è terribile, ma riesco ancora a reagire. La porta è chiusa, non trovo il modo di aprirla, sento adesso tante voci dall'altra parte che mi chiedono di farli entrare. Cado ancora, ancora mi rialzo, non devo farmi vincere dal sonno. Mia madre urla il mio nome, qualcuno parla di pompieri, poi mi aggrappo a qualcosa e comincio a tirare. Sento scorrere qualcosa lungo la porta. Chiamo ancora mia madre, ho gli occhi aperti ma vedo lo stesso il tunnel, sto per entrarci. Afferro qualcosa, la spingo verso il basso. La luce mi colpisce violentemente, mia madre ed un vicino mi trascinano fuori, sul pianerottolo. Sento la parola gas urlata da qualcuno, poi comincio a vomitare e a piangere. Arriva tanta gente, vedo la signora Ursula portata fuori. E' pallidissima, non sta in piedi e la sorreggono, mi guarda con gli occhi semichiusi ed io avverto una paura profonda, mi stringo a mia madre che urla piangendo di chiamare un medico. Le dico che sto meglio, che la testa non mi fa più male e che la signora Ursula non voleva farmi alzare.

Remigio, un vicino di casa, dice di chiamare la polizia, che mi volevano uccidere. La signora Ursula piange e dice che non è vero, che non si è accorta di niente.

Le immagini si dissolvono, e mi ritrovo 40 anni dopo sdraiato sull'erba del giardino di un centro di sperimentazione informatica.

Anche l'angoscia si allontana pian piano, insieme al ricordo di quella donna disperata che voleva morire portando con sè un bambino di cinque anni nell'ultimo viaggio. Un bambino che si era ribellato e che aveva difeso il suo diritto ad esistere rifiutando un sonno dal quale non si sarebbe mai più risvegliato. Dopo una prova simile, quale anestesia poteva essere più forte del mio istinto di conservazione? Ma il dottor Ulthmer non era una vecchia signora sola, potevo fidarmi. Sorrisi, pur rabbrividendo al pensiero che solo per qualche attimo ero riuscito a permettermi di continuare a vivere. Ma non potevo però impedirmi di odiare con tutte le forze quella donna che voleva impedirmi di crescere, diventare un uomo, fare all'amore e soffrire. Odiare quella vecchia signora che era stata capace di desiderare la morte per un bambino di cinque anni, dopo che lo stesso bambino le aveva regalato affetto e compagnia.

Non c'era disperazione in grado di giustificare una cosa tanto terribile, nè uomo o dio che potesse perdonarla.

Odiarla, era la liberazione dalla mia paura...

Lasciai il giardino con il sole già alto, nella certezza che più niente poteva mettersi fra me e il viaggio pazzesco nell'universo di quella morte che già avevo sconfitto da bambino.

"Torno nella mia stanza e tu butta dentro il tuo maledetto gas, ti assicuro che dormirò tanto pesantemente da permetterti qualsiasi esperimento. - dissi ad Ulthmer dopo essere andato nel suo studio - In fondo vado ad un appuntamento che ho rimandato per quasi 40 anni. La sola cosa che mi devi giurare è di non aver mai avuto rapporti con una certa signora Ursula, fanatica dei suicidi di gruppo e che oggi dovrebbe avere circa 115 anni."

Il dottore si grattò la testa, guardandomi negli occhi.

"Conosco una Ursula, ma ha 28 anni ed è un gran bel pezzo di figliola. E' una ricercatrice dell' Università di Knife Lake, esperta in fisica quantistica. E non credo pensi al suicidio, almeno a giudicare dalla lista di attesa per uscire con lei di tutti i suoi colleghi maschi."

Tutta la mia tensione si sciolse in una risata.

"Molto bene, quanto tutto sarà finito prenotami un posto al ristorante con lei. Potrebbe essere interessante, una lezione di fisica quantistica."

"Ci proverò, amico mio, anche se credo sia impegnata per i prossimi 400 anni. Ma chissà che non riesca, con una buona raccomandazione, a farti aspettare solo qualche decennio..." - disse Ulthmer.

Poi, tornando serio: "Sono contento di sapere che ce l'hai fatta. Anche se l'esperimento non riuscisse, sono sicuro che ti sei tolto dalle spalle qualcosa di molto pesante. Le angosce è sempre meglio averle nella mente piuttosto che nell'anima, solo così si possono razionalizzare."

"Saresti riuscito bene anche come psicologo, forse hai sbagliato corso di laurea..."

Ulthmer si alzò e pose con aria compassionevole la mano sulla mia spalla.

"Non sai che sono laureato anche in psicologia e tecnica psicoanalitica, oltre che in medicina psichiatrica? E per essere sicuro di non sbagliare gli studi e non aver rimpianti, ho anche seguito qualche altro piccolo corso: filosofia, biologia, chimica, fisica e matematica, informatica, quantistica, scienze naturali, più altre quattro o cinque cosette. Ma non ti preoccupare, alla mia età e con un pò di impegno anche tu potrai dire le stesse cose..."

Non risposi. Quell'uomo era davvero uno delle più belle menti che i nostri tempi avessero visto.

 

 

 

Lo specchio mi restituiva l'immagine di un uomo stanco. Sbarbai e lavai con cura il viso, misi in ordine i capelli che da qualche anno stavano diradandosi. Erano passati i tempi delle lunghe criniere che mi piaceva lasciar agitare dal vento, e sulla fronte qualche ruga cominciava a far capolino. Non ero certo Dorian Gray, maledizione, e gli anni stavano velocemente facendosi largo in tutto il mio corpo. Chissà dov'era rimasto quel ragazzo atletico che amava girare in bicicletta sotto la pioggia; solo qualche dolore nelle ossa a testimonianza del passato, e nient'altro. Non riuscivo proprio a capire come potesse l'esperienza sopperire a tutte le qualità della gioventù, e cominciavo a sospettare che tutte le dicerie sull'importanza della maturità fossero solo una grande fregatura. Avrei preferito mille volte essere ancora quel tipo che faceva l'amore tutte le sere e dormiva tre ore per notte, magari un pò imbecille ma con tutte le forze intatte, piuttosto che essere sulla strada dell'illuminazione portata dalla vecchiaia. E poi, chi mi garantiva che gli anni non mi avrebbero rincretinito? Non avrei proprio voluto ritrovarmi con un cagnolino al guinzaglio, nel parco di Coolfield, a sbirciare da dietro un paio di spessi occhiali le gambe delle studentesse che andavano ridendo al liceo.

Da questo punto di vista, Linda era infinitamente più in gamba di me. Beh, forse non solo da questo... In fondo la sua serenità, la sua accettazione dell'ineluttabilità dell'esistenza, la sua capacità di lottare senza disperazione erano qualità che a volte le invidiavo davvero. Ed erano una tattica vincente, perchè la lasciavano soddisfatta sia nelle vittorie che nelle sconfitte, sempre tranquilla e conscia di aver agito per il meglio. Io invece inseguivo sempre sogni, emozioni, e la praticità non era davvero una delle mie armi migliori. Linda... mi mancava, avrei voluto sentire la sua voce. Era senz'altro preoccupata per me, convinta che mi sarei cacciato in qualche guaio, ma non me lo avrebbe mai detto. Aveva un grande rispetto per il "mio" modo di vivere, come del resto per quello di tutti gli altri, ed era proprio la sua capacità a non intralciare il cammino delle persone che amava quel che mi aveva portato sempre più vicino a lei. Ma a volte mi diventava impossibile restarle accanto, quando "qualcosa" dentro mi spingeva a cercare oltre il quotidiano per provare a dare un nuovo senso alla mia persona, impedendomi anche il solo dialogo con me stesso. L'ansia di scoprire diventava un tarlo terribile, e la frustrazione di non riuscire mai a trovare qualcosa di davvero nuovo era talmente grande da farmi sprofondare in un senso di impotenza che tendeva ad isolarmi dal resto del mondo. Ecco, dai miei "viaggi" tornavo sempre terribilmente solo ed anche Linda diventava un'estranea; ma accettava questa situazione, pur soffrendone, dandomi la certezza del grande rispetto che aveva per il mio essere. Lei, così pragmatica e così razionale, era il solo essere umano che mi aveva amato davvero per quel che io ero.

Sdraiato sul letto, aspettavo il gran salto nel sonno e nell'universo che mi aspettava. Guardavo il fumo della sigaretta salire a lente spire verso il soffitto dove, con un ultimo rapidissimo guizzo della sua esistenza, finiva ingoiato dalla griglia di aerazione. Platone probabilmente avrebbe filosofeggiato sulla somiglianza del comportamento di quel fumo con la vita degli esseri umani, ma ai suoi tempi non esistevano nè tabacco nè impianti di aspirazione. Beh, se l'era cavata lo stesso abbastanza bene, arrangiandosi con quello che aveva... Mi veniva da ridere pensando a quanto lui, Socrate e compagnia mi avrebbero invidiato sapendo a cosa stavo probabilmente andando incontro. Io, sconosciuto medio-pensatore, davanti a quello che loro avevano teorizzato a prezzo di meningi distrutte dalla fatica! Probabilmente se avessero intuito che un giorno una maledetta macchina sarebbe stata in grado di spiegare il senso dell'esistenza al posto loro, si sarebbero dati a tutt'altra attività...

Cibernetica batte filosofia mille a zero... la vittoria dei microchips sui neuroni, dei circuiti elettronici sul pensiero, della memoria elettronica sul cuore e sulle emozioni; il definitivo innalzamento dell'uomo al grado di macchina intelligente, la consacrazione dell'amore come prodotto di correnti elettrostatiche... Arthur Zane stava per scrivere la parola fine a millenni di rincorse mentali e voli pindarici; tra qualche ora sarebbe tornato con in mano la Definitiva Verità, e la storia avrebbe cancellato da sè stessa tutte le precedenti interpretazioni sul grande mistero della vita e della morte. Ero un pioniere, stavo aprendo la strada al collegamento fra i due piani esistenziali della vita umana: il prima e il dopo. Ma stranamente non riuscivo a sentirmi quell'eroe senza macchia e senza paura che da sempre cercavo di essere e che secondo l'interpretazione di me stesso doveva portarmi ad un senso di euforia e di forza illimitato.

Avevo invece la quasi sensazione di essere un vecchio guardone con la bava alla bocca, intento a forare il retro di una cabina balneare dove da lì a poco sarebbe giunta a cambiarsi una ragazzina quindicenne. Sentivo il mio occhio appoggiarsi al legno della parete, frugare l'interno per cercare il miglior punto di osservazione; avvertivo la mia mano rugosa scendere a toccare freneticamente un sesso che non poteva più rispondere, e i battiti del mio cuore aumentare freneticamente all'ingresso sulla scena dell'adolescente. Mi sembrava di vederla, i lunghi capelli corvini sulla schiena perfetta, sfilarsi il costume e restare nuda davanti alla mia vista rapace. Provavo odio profondo verso quel pezzo della mia carne che solo in tutto il corpo non provava brividi, e ancora la mia mano che lo scavava disperatamente senza risultato, sempre più forte, sempre più angosciata.

Poi, un urlo acutissimo...

Subito dopo, il buio totale.

Continua....
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Nome autore Guglielmo Giusti
Note sull'autore Vive a Bucarest, ha un lavoro che lo sposta sempre per il mondo, specie nei Paesi africani. Ha pubblicato 5 romanzi e vinto oltre 50 premi nazionali ed internazionali per la narrativa e la poesia, è presente anche in antologie didattiche.
sito http://utenti.lycos.it/romanzisulweb/
e-mail guglielmo_giusti@yahoo.it

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