IL VENTO DEL DESERTO |
Si sollevò dalla coperta che aveva gettato
sulla sabbia e che gli serviva da giaciglio. La bestia, un bellissimo
cavallo bianco e muscoloso gli si avvicinò tirando la corda che lo
legava ad uno dei pali che reggevano la tenda. Rimase ancora un po’ fuori, guardandosi intorno. Interminabili file di dune si inseguivano senza fine e l’impressione del movimento era data dal suggestivo gioco di ombre creato dal lento calare del sole. Un soffio di vento accarezzò la faccia di Abdul. L’arabo si preoccupò un poco. Se il vento si alzava il deserto sarebbe diventato un inferno, trasformato in una rossa tempesta di sabbia. Rientrò nella tenda sdraiandosi nuovamente sul tappeto. Era stanco per un’intera giornata di cammino sotto un sole crudele e implacabile. Ben presto il buio della notte coprì il deserto. Abdul guardò da uno spiraglio della tenda un pezzo di cielo puntellato da stelle tremolanti. Con quell’immagine chiuse gli occhi e si mise a pensare. Una vita intera, la sua vita trascorsa sotto quel cielo benigno e malvagio allo stesso tempo. Quel mare di sabbia ora costituiva tutto il suo mondo e non gli era mai passato per la testa di cambiare vita, come avevano fatto invece molti altri suoi compagni. Molti di loro avevano abbandonato le famiglie, venduto le loro misere case per lavorare nelle grandi città, per non tornare più. Quei pochi che erano tornati avevano avuto fortuna, avevano una macchina di lusso, un vestito elegante e tanti soldi in tasca. Ma di quelli che non erano tornati non aveva più sentito parlare. Si strinse nelle spalle e si coricò su un fianco. Doveva dormire e l’indomani alzarsi molto presto. Il sonno lo colse e cominciò a sognare. Uno strano sogno. Un camion che correva per una strada di città e investiva una donna senza fermarsi; volti di persone sconosciute, passanti che inveivano rabbiosi contro il guidatore assassino. Poi la scena cambiava. Elena, la sua prima moglie, una stupenda creatura. La sognò col suo vestito di seta rossa, mentre cantava nel locale in cui la conobbe; sognò di loro due e di quanto erano stati felici. Sognò Elena tra le braccia di un altro uomo e vide le sue mani attanagliate con forza al collo di lui in una breve lotta. Sognò un corpo insanguinato, un coltello e la gola squarciata di Elena. Il volto di lei stravolto, terrorizzato dall’orrore, con gli occhi spalancati che lo fissavano ormai senza vita. Abdul si rigirò tutto sudato sul suo giaciglio. E continuò a sognare. Sognò una notte di estate e un uomo acquattato in un angolo di una vecchia casa. Aveva una corda tesa tra le mani. Sognò un uomo ben vestito, un americano ubriaco. Nel sogno vide la corda stringersi attorno al collo grasso dell’americano e vide la sua lingua rossa e gli occhi sbarrati. Di nuovo quegli occhi che lo fissavano, che lo accusavano. Vide l’assassino rovistare tra gli abiti della sua vittima e un portafogli gonfio, pieno zeppo di dollari. E sognò Eleazar, la sua seconda moglie che aveva rivelato tutto sul suo conto alla polizia. Sognò la fuga e i giorni passati a vivere nella paura in cantine piene di sorci e scarafaggi. Vide Eleazar cadere sotto i colpi implacabili di una scure. Era completamente bagnato da gelide gocce di sudore e ansimava come un mantice. Per una strana ragione, eventi dimenticati e violenti della sua vita ora stavano tornando alla luce attraverso il sogno con fredda crudezza. I suoi delitti riaffioravano come cadaveri dal fondo oscuro della sua memoria. E sognò ancora in quella notte maledetta. Cose orribili che gli erano familiari e altre invece che gli erano completamente estranee. E queste immagini erano ancora più orribili dei suoi delitti efferati. Sognò una città in fiamme. Ma erano fiamme come non ne aveva mai viste; sognò un cielo colorato da colori impossibili e ogni cosa intorno completamente bruciata e polverizzata. Vide delle creature mostruosamente deformi simili ad uomini o che forse un tempo lo erano state che urlavano e strisciavano tendendo le loro mani a forma di artigli verso di lui. Abdul si sollevò urlando dal suo giaciglio. Scioccato, respirando a fatica si sollevò e uscì all’aperto. Il suo cavallo era più nervoso che mai. Scalpitava e scalciava come se volesse allontanare da sé un mortale pericolo, un nemico invisibile. Abdul guardò il cielo ancora scuro e gli astri gelidi e lontani, muti testimoni delle vicende umane eppure ad esse completamente estranei. Silenziosi e indifferenti spettatori, proiettavano la loro debole luce sulla sabbia argentata, sulla tenda. Era quel posto, era quell’aria che aveva in sé qualcosa che non andava. Per la prima volta nella sua vita ebbe paura del deserto che sempre lo aveva protetto da tutto e da tutti, perfino da sé stesso. Ne ebbe una paura pazza, cieca; ebbe improvvisamente paura della solitudine, desiderò il calore confortante della folla. Ebbe disgusto e orrore dell’efferatezza dei suoi delitti. Ma era tardi ormai per rimediare. Si era alzato il vento. Quante volte Abdul aveva ascoltato il suo canto con timore reverenziale e rispetto. Adesso invece gli risuonava nella orecchie cattivo e minaccioso, come il sibilo di una scure che calava sul suo capo. Qualcosa lo spinse a guardare nella direzione del sole al tramonto. Un istante dopo, un gigantesco fungo luminoso spuntò magicamente all’orizzonte inondando il cielo di luci e colori incredibili. Travolto da quella accecante, sfolgorante e mortale bellezza si portò le mani agli occhi mentre la notte diventò giorno e il vento si trasformò in fuoco. Quella piccola oasi di vita: quella tenda, il cavallo, Abdul caddero bruciati sulla sabbia fusa. Rimase il vento, il vento del deserto a cantare la sua eterna canzone di morte. |
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Lorenzo De
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