PETROLCHIMICO, STORIE DI ARIA SPORCA
di
MARIO COGLITORE
Le vicende del Petrolchimico di Porto Marghera, del Cloruro di vinile monomero e del suo derivato altrettanto temibile, il Pvc, Cloruro di polivinile, oscurano ancora la nostra precaria memoria collettiva. Vale la pena, dunque, di riparlare ancora di uno dei peggiori scandali italiani della seconda metà del Novecento.
Lo stabilimento della terraferma veneziana è salito all'onore delle cronache dopo la denuncia alla magistratura di Gabriele Bortolozzo, prematuramente scomparso nell'inverno del 1995, un ex dipendente per anni impegnato nella ricerca della verità sulle morti bianche conseguenti alla produzione selvaggia di Pvc.
Il giudice veneziano Casson ha indagato a lungo non soltanto sulle cause dei tumori che hanno stroncato la vita di moltissimi lavoratori ma anche sull'esistenza di un vero e proprio deposito di rifiuti tossici accumulatosi nel tempo con la sepoltura, dentro allo stesso perimetro dello stabilimento di Marghera, dei materiali nocivi risultato degli scarti delle varie lavorazioni.
Gabriele Bortolozzo aveva realizzato un dossier sul Pvc e il Cvm pubblicato sul numero 92-93 di «Medicina democratica», una rivista da molto tempo attiva sul fronte dello smascheramento di operazioni ai danni dell'ambiente e attentissima alla tutela della salute nei luoghi di lavoro. Da quel dossier si possono trarre gli elementi significativi della cria di un composto chimico tra i più letali che si ricordino e della ra funzione di elemento strategico per l'esistenza stessa del Petrolchimico nel suo peculiare ruolo di struttura industriale portante dell'economia nazionale.
Nella produzione mondiale di Cvm l'Italia è al quarto posto. L'azienda più importante del settore è stata da sempre là Montedison, seguita da Eni, Solvay, Rumianca e Liquichimica. La produzione di Pvc assunse a Porto Marghera, un'importanza essenziale sin dal 1951, data di nascita della fabbrica, a ridosso della fine del secondo conflitto mondiale e in piena ripresa economica. Il primo impianto di Cvm entra in funzione nel 1952 col reparto Cv1. Subito dopo viene reso operativo l'impianto Cv3 per la polimerizzazione in sospensione e quindi il Cv5.
Negli anni l'incremento produttivo viene elevato a potenza fino ad arrivare al Cv22-23 e al Cv24, reparti che ottimizzano la lavorazione del Cvm totalmente ai danni della sicurezza, ma certo moltiplicando i profitti. Gli anni settanta scorrono veloci a pieno ritmo di lavorazione fino all'inizio del decennio successivo, nel quale la crisi generale dei mercati, da un lato, e la ristrutturazione mondiale del comparto della chimica, dall'altro, portano alla chiusura della maggioranza dei reparti.
Attualmente sono in funzione il Cv22-23 per la produzione del Cvm e il Cv24 per la polimerizzazione in sospensione del Pvc. A Porto Marghera la quantità annua di Cvm che esce dagli impianti continua a essere notevole: 240.000 tonnellate. Ben difficilmente l'azienda potrà rinunciare a una fonte di guadagno di questo rilievo nonostante la ormai innegabile estrema tossicità del prodotto in tutte le sue fasi di lavorazione.
All'interno del Petrolchimico, contemporaneamente al sorgere degli impianti, quella che un tempo è stata la Montedison aveva predisposto una struttura infermieristica realmente d'avanguardia. Tuttavia lo scopo principale di tale approntamento medico-sanitario fu quello di garantire, e numerosissime testimonianze ce lo confermano, l'efficienza fisica dei lavoratori a fini produttivi. Nulla, o quasi nulla, è stato fatto per prevenire gli incidenti o comunque garantire la salute in fabbrica.
In realtà l'operazione scientifica, chiamo così in modo eufemistico questo atto di continua violenza contro le persone e l'ambiente, condotta dai medici Montedison - capitanati all'epoca dal dottor Giudice, indagato dallo stesso Casson e vero e proprio esperto nella manipolazione dei dati sulla reale nocività del Pvc ai danni dei lavoratori esposti - fu operazione di carattere ideologico oltreché sociale in senso stretto. Significò cioè la creazione di una falsa epidemiologia che doveva dimostrare l'inconsistenza della nocività di un prodotto che fin da metà anni settanta cominciava a mietere le prime vittime.
Vennero sistematicamente trascurate le reali condizioni oggettive della struttura produttiva dell'azienda e si mentì piu' volte sui rischi a cui venivano quotidianamente sottoposti gli operai. L'organizzazione del lavoro, in una parola, non doveva essere messa in discussione: vecchia litania di un potere industriale disposto a qualsiasi sacrificio di vite umane pur di assicurare la sua riproducibilità.
Nel 1975 la Facoltà di Medicina dell'Università di Padova avviò una ricerca esterna ai blandi controlli effettuati fino ad allora dall'infermeria del Petrolchimico. La commissione appositamente costituita giunse a risultati allarmanti e le statistiche del resto lo confermarono quasi subito. Della popolazione operaia presa in esame, il 75% presentava già disfunzioni epatiche gravi. Nonostante le resistenze del Consiglio di fabbrica di allora, nel 1977 la commissione presentò i dati dell'indagine svolta al Capannone del Petrolchìmico: il Cvm risultava tossico e cancerogeno.
Lo stesso dottor Clini, direttore del Centro di Medicina del lavoro di Marghera, confermò nel 1982 che la questione relativa alla protezione della salute all'interno del Petrolchimico era, sono parole sue, "da anni gestita in modo confuso e contradditorio". Il grande inganno continua nel silenzio dell'azienda e delle stesse organizzazioni sindacali: la minaccia, subdolamente ventilata tra mezze parole e mezze dichiarazioni ufficiali, della possibile perdita di posti di lavoro mette a tacere più di una coscienza.
L'angiosarcoma epatico, una delle peggiori conseguenze provocate dalla contaminazione da Cloruro di vinile, continua indisturbato la sua semina di morti. Sfortunatamente i1 tempo di latenza della malat tia, molto lungo in rapporto agli effetti cui dà luogo, ha permesso di rimestare ancor più nel torbido, con la negazione ripetuta di un qual siasi legame tra il tumore e l'esposizione al materiale tossico. L'adozione, inoltre, dell'espediente del pre-pensionamento ha messo l'azienda in condizione di allontanare, negli ultimi vent'anni almeno, il sospetto di un legame coerente tra manifestazione del tumore e condizioni lavorative del soggetto colpito. Nonostante l'Organizzazione mondiale della sanità avesse da anni riconosciuto il Cvm come sostanza cancerogena, la produzione è continuata e continua senza sosta.
Un altro aspetto di cui bisogna tenere conto è la nocività ambientale del Cvm. Se pensate che negli anni ottanta la produzione italiana era di circa 720.000 tonnellate e la perdita esterna nella lavorazione del prodo tto è stimabile attorno al 2%, possiamo calcolare che 14.000 tonnellate annue di Cvm e Pvc andavano disperse nell'aria. Probabilmente la realtà dell'inquinamento ambientale supera la fantasia nel caso di Porto Marghera e dell'area limitrofa, da decenni invasa dai fumi delle lavorazioni industriali. La combustione del Cvm, non dimentichiamolo, genera perlomeno due sostanze estremamente tossiche: acido cloridrico e fosgene, già conosciuto come micidiale arma chimica. Ma gli interessi delle grandi multinazionali non tengono mai conto elle tragiche conseguenze per l'essere umano e il suo ambiente di vita. Né la medicina o la scienza, a eccezione di pochi, coraggiosi e subito circoscritti esempi, hanno voluto porre rimedio a un disastro ecologico di questa portata.
Il lungo processo celebrato recentemente ai danni di buona parte della dirigenza Enichem può essere considetaro il punto d'arrivo e di partenza, allo stesso tempo, di uno tra i più scabrosi affaires della chimica italiana. Perché è lì che finiscono lunghi anni di attesa per un risarcimento prima di tutto morale più che economico e perché è da lì che ricomincia il faticoso viatico della verità, ammesso che ce ne sia una sola.
Il crogiolo delle colpevoli omissioni e di molte taciute speculazioni viene in evidenza con il disseppellimento delle discariche interne al Petrolchimico. I rifiuti tossici che anno dopo anno sono stati accumulati raccontano di un modo di fare denaro che poteva e che certo può ancora non tener conto di alcuna regola, se mai regole sono esistite in certo modo di produzione che abbiamo chiamato capitalismo. Esistevano all'epoca, confermano i testimoni oculari, almeno due sistemi sicuri per trasformare i rifiuti in affare lucroso: interrarli, fornendo all'azienda l'occasione di appaltare il lavoro a ditte esterne; oppure "esportarli" direttamente all'estero con conseguente, facile guadagno. All'opinione pubblica fu sufficiente rigirare la vecchia cantilena dell'opposizione tra industrialisti ed ecologisti, per ridurre la preoccupante realtà delle cose a una sorta di atavico scontro tra le sostanziali e irrinunciabili ragioni del lavoro -- della plastica, sarebbe più giusto dire (giacché di plastica si vive, ci ammonisce la società dei consumi) e quelle, presentate spesso come lontana utopia, della natura incontaminata e del mare pulito. La realtà travalica ogni speranza di possibile semplificazione, purtroppo.
Attualmente una buona metà dell'originario stabilimento è già chiusa. Restano ancora in attività l'impianto Cvm, il Pr15 per la produzione di caprolattame, una plastica utilizzata nelle imbottiture dei divani edelle poltrone, l'impianto Cloro-soda, il Tdi, l'Evc e il Cr, cosiddetto cracking per l'estrazione di etilene, propilene e prodotti di base. Quest'area rappresenta il nuovo Petrolchimico distinto dal Petrolchimico 1, la vecchia zona che risale ai primi anni cinquanta.
Se percorrete, provenendo da Venezia, la lunga striscia di asfalto che vi conduce oltre l'abitato di Marghera, troverete sulla vostra sinistra parte dello stabilimento che si affaccia sulla statale. Nella variante del piano regolatore è ancora segnato come zona industriale nonostante il raddoppio previsto della carreggiata costituisca già l'inizio di parte della futura espropriazione del terreno. Si tratta di una delle aree dalle quali è cominciato un vero e proprio business attraverso progressive bonifiche e smantellamento degli impianti chiusi. Se ne sta occupando un consorzio -nascono come i funghi negli ultimi tempi cooperative e consorzi, non appena l'odore dei soldi riesce a superare quello dei camini industriali. È stata avviata la prolifica stagione delle riconversioni.
L'intreccio degli affari, laggiù, è davvero complesso e coinvolge più di una classe politica e certo più di una generazione di dirigenti. E interessante notare che negli ultimi anni alcune significative migrazioni da una società all'altra, da un consorzio all'altro, da un'azienda all'altra disegnano la geografia di un territorio saldamente occupato da lobbies di potere poco inclini a raccontare di se stesse, come è naturale che sia, e ben disposte a lasciar fare a Greenpeace che prende d'assalto il Leviatano mentre operai della Fulc, il sindacato di fabbrica, si adoperano nei confronti dei contestatori per uno scambio di idee a suon di ceffoni.
Sono state preparate intere cordate di società per realizzare le sole bonifiche. L'ex sindaco Cacciari, con una certa rapidità, ha proposto addirittura la costituzione di un' authority che sorvegli e governi l'intricata questione. Ma altre e più solide ragioni animano Enichem; paradossalmente è proprio l'azienda che ha in proprietà il Petrolchimico ad avere il maggior interesse nelle opere di bonifica. Frusciano le banconote ed è come il canto delle sirene: naufragare è dolce in quel mare.
Un tempo l'Europa trasformò in colonie le terre d'oltreoceano e il concetto di conquista è rimasto radicato nella mentalità dei padroni del vapore. Per questo Enichem, emanazione diretta di Eni, Ente nazionale idrocarburi con il 51% di azioni di proprietà del ministero del Tesoro e quindi azienda di Stato a tutti gli effetti, accetta volentieri di "colonizzare" le strutture che sul territorio non faranno altro che portare a termine un progetto di controllo, credete, estraneo a qualsiasi politica che non sia quella del profitto. Qualche numero della ghiotta torta da spartire, a completamento del quadro: 800 miliardi dal ministero dell'Ambiente per bonificare aree non private - i canali industriali per dirne una; 200 miliardi di finanziamenti privati da Eni per dirne un'altra a favore delle aree interne.
«Noi siamo solo dei giudici e abbiamo fatto il nostro lavoro. Abbiamo giudicato applicando rigorosamente il diritto penale. Non siamo dei politici e nemmeno degli storici. Il nostro era un compito preciso». Così Ivan Nelson Salvarani, presidente del tribunale che ha mandato assolti i ventotto imputati del processo intentato ai danni di Montedison ed Enichem; originariamente trentuno prima che la natura se ne portasse via tre. Una sentenza destinata drammaticamente a far storia e soprattutto giurisprudenza, come si usa dire con il linguaggio dei tecnici del diritto. Si può andare assolti, dunque, per reati contro le persone e l'ambiente, disastro colposo e alcune altre simili bazzecole, secondo quanto aveva chiesto il pm Casson alla fine della sua requisitoria.
Da oggi sarà più semplice, fino a una eventuale sentenza d'appello per la quale ci vorranno altri quattro anni almeno, liquidare in tempi relativamente veloci qualsiasi altra controversia legata alle vicende della chimica in Italia. Come sapete il Petrolchimico di Marghera non è l'unico stabilimento in cui si è prodotto e si produce ancora Pvc, la famigerata plastica con annessi e connessi. Molte, drammatiche storie di ordinari soprusi e altrettanto ordinarie devastazioni ambientali rimandano la loro eco greve da Brindisi: alcuni magistrati si sforzano di far luce su episodi ancora sottratti alla memoria e alle cronache. Questa sentenza spiana la via per altre, facili assenze di colpa. Non credo sia possibile sostenere, a sentire perlomeno gli avvocati delle famiglie colpite dai terribili effetti collaterali di anni di permanenza forzata dentro allo stabilimento, che il giudice Salvarani abbia applicato rigorosamente il diritto penale, giacché è stato disposto ad ascoltare essenzialmente i periti di parte, tra cui spicca per erudizione e sapienza medica Cesare Maltoni, oncologo, (recentemente scomparso n.d.r.) autore degli studi, voluti dalla direzione del Petrolchimico, che dovevano stabilire i danni alla salute eventualmente recati dall'azienda.
Né è possibile pensare che lo stesso Salvarani e i due colleghi a latere, Stefano Manduzio e Antonio Liguori, abbiano considerato davvero le prove e le testimonianze portate in aula da Casson, se hanno concluso, nello stesso dispositivo della sentenza, che «tutte le malattie causate dal Cvm sono riconducibili a esposizioni molto elevate a Cvm degli anni cinquanta, sessanta e dei primi anni settanta, quando si ignorava la tossicità della sostanza che fu evidenziata dalla comunità scientifica solo nel '73». Una congiura del silenzio, in realtà, ha legato assieme gli interessi delle aziende americane ed europee produttrici di Cvm e Pvc fin dall'inizio del dopoguerra, quando la chimica si apprestava a diventare settore trainante dell'economia del vecchio continente travolta da un conflitto cruento e distruttivo. Quella classe dirigente si trovò tra le mani il destino di una parte consistente dello sviluppo capitalistico di un paio di continenti. E quella classe dirigente sapeva di poter riscattare, in qualsiasi momento, il debito, che il sistema internazionale dei profitti aveva assunto nei confronti di uomini cui la storia aveva chiesto di sacrificare tutto per la moltiplicazione inarrestabile di denaro e potere.
Candidamente Carlo Baccaredda Boy, legale di Montedison, sussurra a un giornalista de «Il Gazzettino» che «è stato sicuramente un processo difficile anche per i giudici, chissà quante pressioni». Nemmeno il collegio degli avvocati della difesa si aspettava un'assoluzione cosi piena, totale, indiscutibile.
Ma c'è un'altra verità ancora, in questa città nella quale si muore di lavoro: è quella espressa senza tanti complimenti dall'avvocato Stella, professore emerito e difensore di Enichem; il processo semplicemente non si doveva fare, le responsabilità intrecciate all'interno di un intero sistema produttivo non consentono che la liquidazione, in sede civilistica, delle parti offese. Così si archiviano vicende umane dolorosissime, sottraendole alla società e incastrandole negli ingranaggi del diritto. Insomma, il processo penale non è l'unico modo per risolvere problemi di tale portata; il piano della giustizia sostanziale con cui si interpreta una serie di fatti storici è ben diverso dal piano della verità processuale che deve condurre all'individuazione delle responsabilità dei singoli imputati.
Tutto chiaro: chi sbaglia paga, magari anche profumatamente e risarcisce per il danno arrecato; ma tutt'altra faccenda sarà attribuirgli
colpe perseguibili penalmente.
È straordinario, se non fosse allucinante, lo schema epistemplogico che soggiace al nostro sistema di diritto. Il punto di torsione di questo insieme di argomenti arroccati a difesa di un modello politico di governabilità dell'esistente è in sostanza il problema della responsabilità oggettiva, perché è la responsabilità di una pretesa democrazia d'Occidente che non ammette soluzioni di continuità al suo incedere di decennio in decennio e di questi tempi addirittura di secolo in secolo. Il processo del Petrolchimico rischiava di cortocircuitare i delicati rapporti tra politica ed economia, disvelando l'innervatura sottile che ricopre come una rete inestricabile il nostro quotidiano, quella che chiamiamo società civile. Un tessuto pulsante che registra ogni minimo sussulto nella rigida compartimentazione della nostra vita: effetti di potere pronti, in ogni momento, a sospingere la verità nell'oblio; effetti di potere che, a quanto pare, possiamo e dobbiamo soltanto subire.
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