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LUCI E TENEBRE – Diario: IL Buio http://digilander.libero.it/sprea/racconti/luci.htm

La prima volta che mio nonno vide la luce (elettrica), fu una sera di fine secolo, nella chiesa di xxxxx. La chiesa fu la prima nel paese ad allacciarsi e ad installare una serie di fievolissime lampadine nella navata centrale. Per l'occasione tutto il paese a sera fu invitato all'avvenimento. Mio nonno ricordava la meraviglia della gente, stipata nel buio della chiesa, in attesa dell'evento. Raccontava meravigliato, che ad un certo punto, ad un cenno del parroco: plic, plic, lui l’aveva sentito questo rumore, si accesero per magia quelle meraviglie di vetro, che rischiararono a giorno il tempio. Prima che la luce elettrica arrivasse in tutte le case, dovevano passare ancora 20/30 anni. Si usavano allora delle lucerne a petrolio o tuttalpiù delle candele di cera che facevano una luce tremolante. Oggi per rischiarare una stanza bastano a malapena lampadine da 100 watt o fanali alogeni. La società di allora viveva nel buio, conviveva col buio. Ora il buio non esiste più ma abbiamo più paura. Abbiamo paura perché nell'oscurità, ora più che mai, noi siamo completamente soli. Mi ricordo da bambino, quando la sera, la nonna mi mandava fuori di casa per un’incombenza qualsiasi: mi porgeva allora una piccola lucerna di vetro con dentro un mozzicone di candela. Con quella lampada meravigliosa, uscivo dalla stanza “illuminata” e m’inoltravo nell'oscurità più totale, con quella piccola fiammella che mi tremolava davanti sull'acciottolato della corte. La lampada creava un piccolo cerchio di luce intorno ai miei piedi. Fuori di quel minuscolo mondo visibile e instabile, io lo sapevo: la realtà era popolata da ombre, da presenze che si agitavano al di là della cortina luminosa, ma ero certo che mai avrebbero potuto oltrepassarla. Dopo una giornata passata dai nonni, su per la salita, l'ultima fioca lampadina sulla strada era all'incrocio dell'ultima casa di xxxxxx. Qui si vendeva frutta e verdura ma anche piccoli dolci e mentine. Fuori di questa casa, la gente nelle sere d'estate, si ritrovava al fresco per chiacchierare e mangiare l'anguria. Lì davanti c'era un incrocio di strade che venivano da tre paesi vicini. Spesso, sedute su quelle panche leccando un gelato, le ragazze d'estate speravano di veder passare prima o poi l'uomo della loro vita. La fioca lampadina del crocicchio era posta sotto un piccolo piatto di lamiera smaltata di bianco. Dondolava ad ogni soffio di vento, creando sotto di lei ombre fluttuanti intorno ai viandanti che si trovavano a passare sotto la sua luce. E noi passavamo lì sotto, mia madre portava in braccio una sorella addormentata e un'altra la teneva per mano. Mio padre spingeva a piedi la sua bicicletta con me sulla canna. C’immergevamo nel buio più totale, dopo quell'incrocio debolmente illuminato, l'oscurità non ci avrebbe più lasciato fino alla curva dell'asilo, dove un'altra tenue lampadina ci avrebbe ripreso sotto il suo tremolante chiarore. In quel tratto di strada percepivo i suoni della notte, i fruscii nell'erba, i cani che abbaiavano lontano, i passi d’un viandante che sconosciuto salutava e spariva nella notte. Sulla canna di quella bicicletta, mi ricordo, guardando in su nella notte, vedevo le stelle. Le stelle di allora, stelle che ora sono scomparse, distrutte dalla luce artificiale e dalle insegne della società dei consumi. Che mistero in quel cielo. Nessuno di noi sapeva cosa ci fosse là in alto se non quello che riuscivamo a vedere con i nostri deboli occhi. Chi s’immaginava le profondità e le meraviglie, che studi e letture successive ci avrebbero svelato! La via lattea, mi ricordo, si vedeva nitidamente. Ora è scomparsa, non si vede più. Qualcuno deve averla rubata. E le stelle si muovevano. Mi ricordo benissimo alcune stelline migranti tra le altre. Non era un sogno, ne sono certo. Il ricordo mi si ripresentava sovente negli anni seguenti: qualche volta, una piccola luce, si muoveva rapidamente tra le altre stelle. Tutti le hanno viste su quel prato, ne sono sicuro. Maggio era l'esplodere della bella stagione ma era anche il mese dedicato alla Madonna, ed ogni sera al crepuscolo, una funzione richiamava tutti, ma sopratutto i giovanissimi che una volta tanto andavano in chiesa volentieri. Dopo il rito, ci s’immergeva tutti insieme nel buio della sera e si ritornava alle frazioni vociando e scherzando. L'aria tiepida era piena di maggiolini che sciamavano vicino alle poche lampadine della strada. Era d'uso per i bambini la cattura di questi. Se ne catturavano a centinaia e si riempivano scatole e barattoli di vetro non si sa a che scopo. Quando i primi caldi si facevano sentire e il fieno era steso ad asciugare al sole, forse richiamate dal suo profumo, giungevano a frotte le lucciole. Ogni anno era un miracolo che si ripeteva in quelle serate di tarda primavera. Nei prati, ma anche fin sulle soglie di casa, quei piccoli esseri luminescenti popolavano il buio della notte, e scacciavano per qualche decina di giorni gli altri esseri misteriosi che la nostra fantasia poneva normalmente a dimora nell'oscurità. La cattura e la conservazione in barattoli di vetro erano i nostri piccoli riti alla luce. Come erano riti i falò che nei giorni comandati si facevano nei campi per propiziare i nuovi frutti della terra che sarebbero venuti. Anche per il buio misterioso, noi bambini per esorcizzarne la paura che ci faceva, avevamo i nostri riti. Come quando, per qualche commissione ci mandavano per la strada al buio, non ci si avviava quasi mai da soli. Si usciva normalmente in due, se proprio non si trovava un compagno. Allora, il più delle volte, si cantava a voce alta perché le nostre orecchie non fossero attirate nella paura dai rumori della notte. La casa che abitavano i nonni, era una vecchia casa patrizia di metà ottocento. La scala la sera, era malamente illuminata. Su due pianerottoli dei quattro esistenti, una debole lampadina rossastra rischiarava a malapena i pochi metri sottostanti, in corrispondenza dei due gabinetti comuni. A quei tempi sembrava un lusso perché i gabinetti erano ubicati sulla stessa paglia dove la facevano le mucche o peggio ancora nella concimaia, in cui veniva buttato la stallatico a fermentare.  

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