La famigia de Faustén
 
LUCI E TENEBRE

La prima volta che mio nonno vide la luce, fu una sera di fine secolo, nella chiesa di Barzanò.
Parlo naturalmente della luce elettrica. La chiesa fu la prima nel paese ad allacciarsi alla neonascente rete elettrica della zona e ad installare una serie di fievolissime lampadine su per la navata centrale.
Per l'occasione tutto il paese fu invitato all'avvenimento. Mio nonno ricordava la meraviglia della gente, stipata nel buio della chiesa, in attesa dell'evento. Raccontava, con la voce ancora piena di meraviglia, che a un certo punto, un cenno del parroco e: plic, plic, plic, lui aveva sentito anche questo rumore, si accesero per magia quelle meraviglie di vetro, che rischiararono a giorno il tempio, mostrando angoli e pitture che, a quell'ora della sera, occhi umani, mai avevano avuto occasione di vedere.
Prima che la luce elettrica arrivasse in tutte le case del paese, dovevano passare ancora venti o trenta anni.
Si usavano allora delle lucerne a petrolio o tuttalpiù delle candele di cera che facevano una luce tremolante e fievolissima. Per forza quelle lampadine di pochi watt, che a noi ora sembrerebbero debolissime, ai nostri nonni sembrarono così luminose e sfolgoranti.
Mi ricordo che ancora ai tempi della mia fanciullezza, nei primi anni del secondo dopoguerra, nelle case venivano usate ancora delle lampadine di cinque o dieci candele. Candele e non watt, così si diceva. A tutti, quel chiarore sembrava più che sufficiente.
Oggi per rischiarare una stanza bastano a malapena lampadine di centinaia di watt o a volte si usano fanali alogeni di almeno cinque volte ancora più potenti.
La società di allora viveva nel buio, conviveva col buio. Quando il sole tramontava si entrava veramente nell'ombra, e l'ombra e il buio avevano una loro fisicità, vivevano di una vita propria.
Ora il buio non esiste più. Tutto viene rischiarato senza ritegno, abbiamo paura. Abbiamo paura perché nell'oscurità, ora più che mai, noi siamo completamente soli.
Mi ricordo da bambino, quando la sera, la nonna mi mandava fuori di casa nel buio per una incombenza qualsiasi, magari si trattava di andare a prendere qualcosa nel ripostiglio al di là del cortile: mi porgeva una piccola lucerna di vetro con dentro un mozzicone di candela.
Con quella lampada meravigliosa, uscivo dalla stanza illuminata e mi inoltravo nell'oscurità più totale, resa ancora più fitta dal contrasto con quella piccola fiammella che mi tremolava davanti sull'acciottolato della corte.
La lampada creava un piccolo cerchio di luce intorno ai miei piedi. Fuori da quel minuscolo mondo visibile e instabile, io lo sapevo: la realtà era popolato da ombre, da esseri, da presenze che si agitavano e strisciavano al di là della cortina luminosa, ma ero certo che mai avrebbero potuto oltrepassarla. Ma ero dopotutto e comunque in compagnia, la solitudine non c'era, non erano per forza presenze cattive o maligne, erano solo delle ulteriori presenze.
Quando, a volte, con la mia famiglia, tornavo verso la nostra casa di Barzanò, dopo una giornata passata dai nonni, su per la salita, l'ultima fioca lampadina sulla strada era all'incrocio dell'ultima casa di Torricella, alla Ugiona. Qui si vendeva frutta e verdura ma anche piccoli dolci e mentine. Fuori da questa casa, la gente nelle sere d'estate, si ritrovava al fresco per chiacchierare e mangiare l'anguria.
Lì davanti c'era un incrocio, la strada che veniva su da Torricella confluiva in altre che venivano da tre paesi vicini. Spesso, sedute su quelle panche, leccando un gelato, le ragazze d'estate speravano di veder passare prima o poi l'uomo della loro vita.
La fioca lampadina, sospesa su quell'incrocio, era posta sotto un piccolo piatto di lamiera smaltata di bianco, dondolava ad ogni soffio di vento, creando sotto di lei ombre fluttuanti intorno ai viandanti che si trovavano a passare sotto la sua luce.
E noi passavamo lì sotto, mia madre portava in braccio una sorella addormentata e un'altra la teneva per mano. Mio padre spingeva a piedi la sua bicicletta dorata con me seduto sulla canna. Ci immergevamo nel buio più totale dopo quell'incrocio debolmente illuminato, l'oscurità non ci avrebbe più lasciato fino alla curva dell'asilo, su in alto alla salita, all'ingresso di Barzanò, dove un'altra tenue lampadina ci avrebbe ripreso sotto il suo tremolante chiarore.
In quel tratto di strada, senza paura per me, confortato dalla presenza dei miei genitori, percepivo i suoni della notte. I fruscii nell'erba, i cani che abbaiavano lontano, i passi di un viandante sconosciuto che si avvicinava, e che dopo averci salutato spariva nella notte.
Passavamo poi sotto i pali della luce che portano i fili alla centrale di Cremella, dove il rumore della forza che passava, sfrigolava dolcemente in alto, e la testa di morto sul cartello ai piedi del traliccio, mi ricordava che chi tocca i fili muore.
Mi tornava alla mente allora, la storia che mia madre mi aveva raccontato proprio passando di lì un giorno: la vicenda del ragazzetto che era bruciato su quel palo anni prima.
Il bambino, che passava spesso da quelle parti, aveva adocchiato da qualche giorno un nido, che un uccello temerario aveva intessuto nei bicchieri di vetro che fungono da isolatori in cima al traliccio.
Un pomeriggio, incurante del teschio di guardia, si era arrampicato sul palo fino a cercare di raggiungere il nido. Appena giunto alla sommità, era rimasto attratto ai fili dalla forza della corrente. Il corpicino sbatteva violentemente contro il palo come un panno steso ad asciugare agitato da un vento violento. Una gambetta impigliata nelle traverse del traliccio non lo lasciava cadere.
Molta gente, richiamata dalle urla di un suo compagno sconvolto, era corsa a vederlo. Nessuno si fidava a salire sul palo, per paura di fare la stessa fine. Qualcuno era corso all'Orobia in bicicletta, per far togliere la corrente.
Anche sua madre, che non erano riusciti a trattenere, aveva fatto in tempo a guardarlo mentre su in cima a quel palo di morte, il piccolo corpo si agitava, sbattuto di qua e di la dalla forza misteriosa che portava la luce.
Chi conosce questa storia, ma sono sempre di meno a Barzanò, quando passa sotto quel palo che è ancora al suo posto, sulla strada che va verso il paese salendo da Torricella, non può fare a meno di alzare la testa e vedere per un momento il bimbetto che si agita su in alto, vicino al nido nel bicchiere.
Sulla canna di quella bicicletta, mi ricordo, guardando in su nella notte, vedevo le stelle.
Le stelle di allora, stelle che ora sono scomparse, distrutte dalla luce artificiale e dalle insegne della società dei consumi.
Mi ricordo di ore notturne distesi nell'erba del parco delle rimembranze. Serate di caldo soffocante, di una estate dei primi anni cinquanta, dove molte famiglie del paese con una coperta distesa sul prato cercavano un poco di refrigerio prima di andare a dormire, bevendo acqua attinta alla pompa che allora c'era di fianco al palazzo comunale.
Distesi nel verde, ancora liberi dalla televisione che era di là da venire, tra le piantine e le targhe che ricordano i ragazzi morti sui sassi del Carso o lungo il Piave: stavamo a guardare le stelle.
Che mistero in quel cielo, nessuno di noi sapeva cosa ci fosse là in alto se non quello che riuscivamo a vedere con i nostri deboli occhi. Chi si immaginava le profondità e le meraviglie, che studi e letture successive ci avrebbero svelato! La via lattea, mi ricordo, si vedeva nitidamente. Ora è scomparsa, non si vede più. Qualcuno deve averla rubata.
E le stelle si muovevano. Mi ricordo benissimo alcune stelline migranti tra le altre. Non era un sogno, ne sono certo. Il ricordo mi si ripresentava sovente negli anni seguenti: qualche volta, una piccola luce, si muoveva rapidamente tra le altre stelle. Tutti le hanno viste su quel prato, ne sono sicuro. Allora non esistevano ancora satelliti artificiali, il primo sarebbe stato lanciato dai russi forse dieci anni dopo. Eppure lassù c'era come , non saprei dire, un misterioso navigare.
La luce e il buio avevano i propri riti. Non so dove gli americani abbiano attinto l'usanza di scavare ed illuminare le zucche per la festa di Ognissanti.
A noi, che non sapevamo neanche lontanamente cosa fosse Halloween, i nostri nonni avevano insegnato a prendere la zucca, quando era matura, a praticare un foro circolare in uno dei poli e lentamente, con un cucchiaio svuotarla della polpa.
Si scavavano poi nella buccia svuotata, due mostruose orbite, un naso e una bocca aperta e orribilmente dentata. Per completare l'opera, alla fine, inserivamo all'interno della zucca una candela accesa.
Nella sera ormai buia, si collocava la lanterna minacciosa in un punto nascosto ma di facile passaggio nel cortile o sulle scale comuni, che salivano alle camere.
Il punto migliore per piazzare la zucca era sopra il pozzo. Mi ricordo ancora nel buio, quella testa dal ghigno tremolante di luce e il grido della massaia sorpresa da quella visione, mentre in ritardo trafelata, si recava al pozzo ad attingere l'acqua. E allora noi bambini saltavamo fuori dalla notte schiamazzando, scherzosamente redarguiti dalla povera donna che mostrava, per compiacerci, molta più paura di quanta ne avesse avuta in realtà.
Maggio era l'esplodere della bella stagione. Attenta, la Chiesa con le sue liturgie, aveva escogitato un pretesto ideale perché i ragazzi, nelle prime sere di caldo primaverile, potessero assaporare il piacere di stare fuori di casa fino ad un'ora tarda, cosa alquanto riprovevole, senza la scusa delle funzioni in parrocchia.
Maggio era il mese dedicato alla Madonna, ed ogni sera al crepuscolo, una funzione richiamava tutti, ma sopratutto i giovanissimi che una volta tanto andavano in chiesa volentieri. All'uscita, dopo il rito, ci si immergeva tutti insieme nel buio della sera e si ritornava alle frazioni vociando e scherzando. L'aria tiepida era piena di maggiolini che sciamavano vicino alle poche lampadine della strada. Era d'uso per i bambini la cattura di questi. Se ne catturavano a centinaia e si riempivano scatole e barattoli di vetro non si sa a che scopo.
Si favoleggiava di anni in cui, forse al tempo del fascismo, l'autorità costituita elargiva premi in denaro a chi catturava il maggior numero di questi dannosi insetti, ma ai miei tempi questa consuetudine era caduta da anni in disuso, era rimasta però l'abitudine di riempirne barattoli inutilmente. E restavamo con gli occhi curiosi a guardare oltre il vetro del contenitore, quel groviglio bruno di insetti, che si agitavano uno sull'altro a centinaia, senza riuscire a capire che cosa mai gli fosse capitato.
Poi si prendeva un maggiolino, il più grosso che si riusciva a trovare. Si legava un filo sottile alle zampe posteriori dell'insetto, che poi si lasciava volare liberamente nel cielo. I bambini inseguivano il loro piccolo aquilone vivente giù per i prati, in gare di velocità nel buio.
Quando i primi caldi si facevano sentire e il fieno era steso ad asciugare al sole, forse richiamate dal suo profumo, giungevano a frotte le lucciole.
Ogni anno era un miracolo che si ripeteva in quelle serate di tarda primavera. Nei prati, ma anche fino fuori dalle case e qualche volta anche dentro di esse, quei piccoli esseri luminescenti popolavano il buio della notte, e scacciavano per qualche decina di giorni gli altri esseri misteriosi che la nostra fantasia poneva normalmente a dimora nell'oscurità.
Lucciola lucciola vien da me che ti do il pan del re, il pan del re e della regina, lucciola lucciola vien vicina.
Era la filastrocca che doveva, con l'inganno di un cibo regale, attirare l'insetto nelle nostre piccole mani.
E la cantilena le faceva veramente avvicinare, e quando diverse lucciole erano prigioniere nella nostra piccola scatola, correvamo verso il cortile e tutti insieme le rovesciavamo su una pietra liscia. Ne facevamo poi una poltiglia schiacciandole con il pollice e sputandoci sopra per amalgamare bene quella pasta iridescente che veniva a formarsi. Poi congiungendo le mani su quel cielo artificiale, per proteggerlo dalla poca luce circostante, a turno, nel buio più completo guardavamo quel profondo cielo multicolore che avevamo creato sulla pietra.
Un firmamento più misterioso e sicuramente più vivo di quello che stava sopra le nostre teste, uno sfavillare di pagliuzze verdognole e dorate, molecole baluginanti ed effimere che si spegnevano in pochi istanti, in leggero ritardo rispetto alle piccole vite che avevamo schiacciato sulla pietra qualche momento prima.
Erano i nostri piccoli riti alla luce. Come erano riti i falò che nei giorni comandati si facevano nei campi per propiziare, con il bruciare i resti inutili del raccolto precedente, i nuovi frutti della terra che sarebbero venuti.
Anche per il buio misterioso, noi bambini per esorcizzarne la paura che ci faceva, avevamo i nostri riti.
Come quando, per qualche commissione ci mandavano per la strada al buio, non ci si avviava quasi mai da soli. Si usciva normalmente in due, se proprio non si trovava un compagno allora, il più delle volte, si cantava a voce alta perché le nostre orecchie non fossero attirate nella paura dai rumori della notte. L'oscurità era veramente popolata da presenze misteriose.
La casa che abitavano i nonni, era una vecchia casa patrizia di metà ottocento.
Negli ultimi anni era stata un luogo di vacanze per bambini orfani, che venivano portati qui dal loro collegio di Como per l'estate. Questo edificio, ancora oggi è chiamata "ul palazz" per la sua bella architettura e per la disposizione curata che aveva il cortile, con un bell'acciottolato a disegni geometrici che purtroppo ora, è quasi del tutto rovinato.
Questo palazzo, nei primi anni del secolo, finito l'uso che l'opera pia dei bimbi orfani ne faceva abitualmente, si decise di venderlo, diviso a lotti, ai contadini della zona.
La costruzione è a tre livelli ed entrando dal bel portoncino principale, una lunga scala comune, sale ai piani superiori e porta a lunghi corridoi sui quali si affacciano gli usci delle camere da letto delle varie famiglie che vi abitavano.
La scala la sera, era malamente illuminata. Su due pianerottoli dei quattro esistenti, una debole lampadina rossastra rischiarava a malapena i pochi metri sottostanti, in corrispondenza dei due gabinetti comuni. Cessi di quella foggia e comodità erano rari a quei tempi, dove i servizi igienici di solito, erano ubicati sulla stessa paglia dove la facevano le mucche o peggio ancora nella concimaia, in cui veniva buttato la stallatico a fermentare, prima di venire steso sui prati in autunno.
Una sera tardi, di un inverno nebbioso, mia madre bambina, esce dalla porta della grande stanza piena di luce, che al piano terreno fungeva da soggiorno, cucina e salotto e passa rapidamente lungo il corridoio buio che va alle quattro rampe di scale, che portano alla sua camera su in alto, al terzo ed ultimo piano.
Era quella camera una piccola stanza con il soffitto a volta, molto basso per le altezze in uso nei soffitti di allora, gelida d'inverno, al punto che l'acqua del catino che serviva per lavare il viso formava al mattino, spesse volte, una sottile lastra di ghiaccio.
Non venivano riscaldate le camere da letto allora. Solo dei tizzoni ardenti, gli ultimi del camino prima di lasciarlo spegnere, messi in uno scaldino che veniva posto in una cesta sotto le coltri, servivano a scaldare il giaciglio, qualche istante prima di andare a dormire.
Solo una piccola finestra nella stanza, sulla parete di fondo di fronte alla porta di ingresso, spazia sul cortile sottostante e più in là sulla valle e sui campi coltivati che vanno verso nord e le montagne.
La nebbia entra dalle aperture sulla scala, protette solo da inferriate ormai arrugginite e senza vetri e si insinua, anche lei su per le scale gelide, creando ulteriori ombre e misteriosi riflessi. Salire di sopra per lei a quell'ora, bambina di pochi anni, è sempre un'incognita. Ha cercato di trovare nelle sorelle, una sostituta o una compagna, che salisse con lei di sopra, ma una è assente e le altre hanno declinato l'invito. La madre insiste perché lei si muova a portare a compimento la commissione urgente.
Canta come sempre, per fugare la paura e corre perché le scale semibuie, deserte e silenziose, le passino sotto i piedi il più rapidamente possibile.
Arriva in alto ed entra nel corridoio che non è mai stato illuminato e nel buio più assoluto, si muove a tentoni e con le mani riconosce ogni rilievo ed ogni crepa del muro sotto le sue dita. Avrebbe voluto portare la lanterna con la candela, ma ci sarebbe voluto più tempo a prenderla ed accenderla che correre di sopra, aveva detto la mamma. Corri e fai in un attimo, aveva detto.
A tentoni, cerca il legno della porta della sua camera, dove finalmente si potrà riparare da quelle presenze che sente palpabili, reali lì intorno, in agguato nel buio. Lei sa che ci sono e le girano intorno, la toccano quasi. Sente il loro respiro.
Finalmente trova la porta, afferra la fredda maniglia e apre l'uscio. Ora non resta che cercare l'interruttore della luce e girarlo, perché quell'onda luminosa fughi tutte le sue paure.
La sua mano sale lungo lo stipite della porta lentamente, a una certa altezza c'è l'interruttore di ceramica. Le sue dita invece incontrano qualcosa di diverso, salgono di più e ...è una mano, una mano gelida, che se ne stà lì come morta, al posto dell'interruttore. Terrore.
Un urlo squarcia il silenzio della casa, la piccola urlando e piangendo si precipita giù per le scale terrorizzata. Tutte le sue paure si sono materializzate in quella mano. Corre a perdifiato giù per le rampe, urlando e piangendo. Mentre corre è sicura di sentire dietro di lei dei passi che la inseguono e il terrore si moltiplica. E veramente qualcuno si precipita dietro a lei e anche una voce la insegue: sono io, sono Costantina, vieni qui non fare la scema.
Era la sorella mancante, che si trovava su in camera e sentendola arrivare cantando su per le scale aveva, spenta la luce, organizzato questo piccolo scherzo.
Ma la bambina, ormai è dentro l'uscio di sotto come una furia urlante e piangente, col terrore negli occhi.
Inutile dilungarci per raccontare la fine, con la descrizione delle pene corporali che la nonna era sempre disposta ad elargire e che elargì a piene mani sulla piccola Costanza in quella buia e nebbiosa sera d'inverno.

 
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